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Aggiornato Mercoledì 16-Gen-2013

 

 

A vent’anni si guarda il mondo con occhi diversi e questo era tanto più vero quaranta, cinquant’anni fa, quando le differenze tra i padri e i figli erano un disonore infamante per i primi, una virtù e un vanto per i secondi, così finiva che molti si smarcavano dalla famiglia e dal proprio ambiente sociale/culturale solo per distinguersi, non fare la figura degli sfigati, non passare per morti viventi.

A quel tempo, in effetti, i ribelli erano considerati piuttosto affascinanti e ad esserlo si potevano fare un’infinità di esperienze precluse agli altri, altrimenti inimmaginabili. L’Italia giovanile (perlopiù studentesca) era divisa in tre: i bravi ragazzi che compiacevano mamma, papà e il sistema; gli scostumati, quelli che più tardi avremmo chiamato sessantottini e che avevano la loro “naturale” collocazione negli ideali comunisti e pacifisti; i fascisti, il braccio successivamente armato dallo Stato.

Inizialmente, in Italia, la cosiddetta “rivolta giovanile” non riguardava la politica, non in senso stretto. Il boom economico aveva in sé il virus letale del consumismo e i giovani, in ogni epoca, sono sempre preda facile. Gli italiani furono letteralmente subissati di messaggi seducenti e rassicuranti, inviti alla modernità (cioè all’acquisto e all’omologazione). I modelli da seguire erano veicolati dalle riviste, dalla TV e dal cinema - come oggi. Ovviamente, in mezzo a un tale bombardamento mediatico, finirono anche immagini e concetti alieni che allarmarono la stragrande maggioranza della popolazione, ma piacquero assai ad una piccola minoranza: dopo quasi due millenni di giogo cattolico con i suoi conformismi, le sue ipocrisie, il suo paternalismo, soprattutto la sua misoginia e sessuofobia, vedere tutta quella gente ignuda che professava l’amore libero, fece breccia - dapprima con moderazione, timidezza, limitatamente al modo di vestire e acconciarsi, di socializzare, ballare e ascoltare musica (’66, ’67), poi prese campo (’68) fino a radicalizzarsi ed estremizzarsi, alla fine divenendo altro con la lotta armata negli anni Settanta.

Nel ’68, quindi, importammo le comuni, i gruppi di autocoscienza, i collettivi femministi e i primi tentativi di liberazione omosessuale, le occupazioni dei licei e delle università, le assemblee, i cortei e progressivamente tutto il corollario ideologico, le più avanzate o strampalate filosofie. La lotta non solo sindacale per i diritti e l’emancipazione dei lavoratori raggiunse le fabbriche (perlopiù quelle, in vero, gli altri settori stavano a guardare in fondo senza capire). Il movimento ebbe i suoi teorizzatori, i suoi intellettuali, i suoi cattivi maestri, in un delirio collettivo minoritario autoreferenziale che esaltava e riproduceva se stesso, generava montagne di malintesi, molti feriti e qualche cadavere, tra superficialità e pressappochismi tremendi. I gruppi si moltiplicarono e con loro si moltiplicarono gli infiltrati. A metà degli anni Settanta vi erano più infiltrati che terroristi e alcuni, gli irriducibili, sono ancora convinti di aver agito di testa loro - imbecilli.

Come vedi, il ’68 è altro rispetto agli anni successivi, quelli comunemente detti “di piombo”. Non so nemmeno se il terrorismo ne sia stato una conseguenza, un’emanazione - a naso direi di no, non significativamente almeno.

Con la morte di Aldo Moro, finì di colpo quella specie di rivoluzione abortita trascinando nell’infamia un decennio di speranze e ingenuità, sogni e illusioni, sperimentazioni e aberrazioni. Finì una stagione che aveva avuto molti protagonisti anche tra i nessuno, i senza nome, gli invisibili, coloro i quali, in seguito, sarebbero tornati nell’ombra a fare gli zerbini. Il palcoscenico si svuotò, rimasero solo tre sedie: una per gli affaristi, una per la criminalità organizzata ed una per lo Stato (inteso come organo di governo, politico, legislativo e amministrativo). Il potere costituito aveva ottenuto, anche attraverso le stragi e molte altre porcherie che non avranno mai una verità giudiziaria, quello per cui si era dato tanta pena: la fine di ogni velleità anarcoide e di sinistra, un’Italia finalmente unita e compatta contro le ideologie innovatrici, la violenza e l’affrancamento culturale, dalla parte della chiesa, della legge, dello Stato asservito agli interessi statunitensi. Il bel paese buttò il bambino con l’acqua sporca e parlare del ’68, di femminismo, di lotta di classe, di borghesia e proletariato, divenne un tabù, una roba da nostalgici sfigati.

Gli sfigati, quelli veri con cui ho aperto il discorso, i bravi ragazzi, i fascisti e i picchiatori, i servi, tornarono in sella, presero il comando, pienamente legittimati. Accanto a mamma e papà, degni eredi della cultura che avevano contestato o, all’opposto, difeso.

Le stramberie e gli eccessi degli anni Ottanta, con i craxiani al governo, la Milano da bere, l’avvento delle TV commerciali, all’alba del berlusconismo, sono una degenerazione tutta italiana - le classiche nozze coi fichi secchi, conseguenza del coito interrotto con la verità storica, la coscienza collettiva, nella vergogna, nei sensi di colpa, in virtù del talento che abbiamo per lo scarica barile, la capacità inarrivabile di dimenticare in fretta, di non voler sapere, del tiriamo a campà, famose du risate.

La storia d’Italia è piena di buchi neri, veri e propri salti spazio-temporali: uno di questi ha inghiottito il vituperato decennio di cui ho qui scritto. Ci siamo addormentati una sera intorno alla fine degli anni Sessanta, ci siamo svegliati una mattina, verso la fine dei Settanta. Era già accaduto nella prima metà del Novecento, ci addormentammo fascisti e monarchici, e ci risvegliammo democratici, repubblicani. In tempi più recenti ci siamo addormentati socialisti o democristiani, e ci siamo risvegliati berlusconiani. Abbiamo già preparato il pigiamino per farci un’altra bella dormita? E come ci risveglieremo stavolta?

 

 

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