Poche
copie rilegate a mano con la cura maniacale di chi rivendica a sé
l’intera maternità dell’opera, dalla copertina
al verso, presentano da sole la poesia di Cinzia Ricci, artigiana
per vocazione, artista per caso.
Una
lirica piena di forza, la sua, che è tutto fuorché
disperazione. È disperata coscienza di sé, piuttosto,
sempre in bilico fra passione e mal trattenuto senso della realtà,
incantamento e disincanto.
Un’ironia
finissima sulla pochezza del vivere è unita a lamenti dell’animo
arcani e prenatali, come le sue muse ispiratrici: figure femminili
che possono chiamarsi indifferentemente Marina (Cvetaeva), Giovanna
(D’arco), “madre”, o in mille altri modi anonimi.
Nomi senza età che sono poi lo stesso nome.
E
su tutto si stende il sorriso beffardo dell’artista.
Un
sorriso amaro, acre, persino, negli aforismi finali, dove domina
la consapevolezza che è inutile oltrepassare il limite della
pazzia, perché tanto “… oltre la pazzia non c’è
niente”.
Un
realismo crudo su accordi polifonici, appena venato di tristezza.
Quella tristezza che solo per gli amanti e i poeti ha il diritto
di chiamarsi malinconia.
Lisaveta
Kröger
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