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Aggiornato
Venerdì 21-Dic-2012
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Non ho la verità in tasca e non ho nemmeno la bacchetta magica per fare quello che riterrei giusto - tuttavia, anche avessi entrambe e volessi cambiare il mondo, ora più che mai sarebbe un’impresa colossale destinata al fallimento. Il mondo (le sue genti, i suoi governi, il suo sistema produttivo ed economico) non è più frammentato, localizzato in aree circoscritte, a sé stanti, sparpagliate qua e là - il mondo, oggi, è un’unica, enorme entità che tutti, tutto racchiude. La terra è il pascolo e noi siamo le pecore - sette miliardi, per l’esattezza, più qualche decina di pastori che governano il gregge e ne decidono le sorti. Questo processo/progetto egemonico di unificazione, massificazione e sfruttamento globale (già tentato nei millenni con la formazione degli imperi che si sono succeduti), ha avuto un’accelerazione repentina e straordinaria negli ultimi cento, centocinquanta anni, ed ora sta giungendo a compimento. Una singola popolazione, un singolo Stato, può, in condizioni di totale, radicata interdipendenza, svincolarsi e rendersi autonomo? Teoricamente sì, nella pratica, no - o perlomeno dovrebbe esservi una volontà pressoché unanime da parte dei suoi cittadini di farlo, con la consapevolezza e l’accettazione delle conseguenze che ne deriverebbero (isolamento economico e politico, sanzioni, azzeramento del valore della propria moneta, impossibilità quindi di acquistare all’estero le merci e le materie prime necessarie per produrre l’indispensabile e il voluttuario, ecc.). E può, il resto del mondo, tollerare tale volontà? Teoricamente sì, nella pratica, no - o perlomeno dovrebbe trattarsi di un paese sul quale non convergano interessi particolari, dovrebbe trattarsi di un caso eccezionale, non replicabile, non infettivo. Penso all’Islanda, il cui peso culturale, economico e politico sul piano internazionale è pari a zero. Un paese talmente piccolo, ininfluente e singolare, a sé, che quasi nessuno ha motivo di prenderne seriamente in considerazione le scelte. L’Italia potrebbe riconquistare la propria sovranità (che è sempre stata limitata - ricordo che abbiamo perso la guerra e, di fatto, siamo un protettorato statunitense, vincolato da accordi inalienabili e inconfessabili complicità che non saranno mai documentate su alcun libro di storia), rifiutarsi di pagare i debiti, emettere una propria moneta rinunciando al signoraggio, dotarsi di un proprio sistema produttivo ed economico, magari un tantino autarchico, che metta fuori legge la finanza speculativa, le borse, le banche private? Teoricamente sì, nella pratica, no - con le buone o con le cattive, non lo permetterebbero. Qualunque politica che andasse in questa direzione, sarebbe stroncata sul nascere - in Italia e in ogni paese “strategico”, funzionale al sistema capitalistico. Sull’altare dell’egemonia liberista e capitalista, siamo tutti sacrificabili. Cosa possiamo fare, dunque? Concretamente e a breve termine, nulla - nemmeno se organizzati in gruppi più o meno numerosi. Per cambiare, occorre che quasi la totalità dei cittadini esiga il cambiamento, occorre che ognuno creda di sapere cosa va fatto, sia disposto a pagarne le conseguenze. Occorre che il gregge si muova, unito, contro il pastore, ma il pastore non è uno solo, e il gregge è così grande che fatalmente si frammenterebbe, vanificandosi. Qualcuno comincia a ripensare alla lotta armata come forma di pressione. La lotta armata in una dittatura, è resistenza - in uno stato di diritto, è terrorismo. La lotta armata condotta contro un regime totalitario, raccoglie consensi e talvolta vince - condotta contro un governo democraticamente eletto, ottiene l’effetto contrario compattando i cittadini attorno alle istituzioni, a protezione dell’esistente. Certo, da tempo l’Italia non è più uno stato di diritto, ma nemmeno di dittatura si può parlare, non in senso stretto. La nostra democrazia sta progressivamente perdendo le prerogative che dovrebbero caratterizzarla (pluralismo, libertà d’espressione, autoderminazione, certezza del diritto, elettività, sovranità popolare, ecc.), ma allora cos’è, cosa è diventata, cosa sarà? Una dittatura democratica? Una democrazia a mezzo servizio, sotto commissariamento estero? Un regime feudale condito in salsa federalista (o pseudo secessionista) per spezzettare il territorio e darlo in pasto ai governanti, ai vassalli e ai valvassori del terzo millennio? Ognuna di queste cose, temo - e tre quarti degli italiani non hanno la più pallida idea di cosa significhi. Tre quarti degli italiani capiscono solo la lingua che farfugliano, poco e male, il resto non esiste o non li riguarda. Nel delirante tentativo d’imporre il bipolarismo (in un paese che ha la sola virtù di non sapersi adeguare a nulla che sia univoco, rigido e precostituito), il berlusconismo e, poco più tardi, l’antiberlusconismo, sono le uniche espressioni culturali e “ideologiche” di massa emerse negli ultimi trent’anni. Ma se il berlusconismo ha saputo riassumere e rappresentare, quasi senza sbavature, l’identità e le aspettative del centro-destra, se ha saputo affermarsi inglobando o sbaragliando i suoi antagonisti, l’antiberlusconismo (quantomai eterogeneo ed autoreferenziale) non è riuscito a fare altrettanto. L’antiberlusconismo, che non è un’entità politica definita e definibile, non ha nemmeno saputo far cadere il governo. Ne avrebbe avuto i mezzi, le opportunità e le ragioni, ma non l’ha fatto - ci ha pensato il “mercato”, imponendo i suoi tempi, i suoi modi, i suoi motivi e i suoi esattori. E torniamo alla necessità che il gregge si muova, unito, contro il pastore - avendo però un obiettivo che non si limiti a contestarne il potere. L’antiberlusconismo, non essendo in grado di proporre una vera alternativa culturale e sistemica, è per l’Italia una iattura, almeno quanto il berlusconismo. I partiti di centro-sinistra (dentro e fuori il parlamento), le organizzazioni sindacali e l’associazionismo, anche cattolico, avrebbero dovuto sedersi a un tavolo ed elaborare, tutti insieme, una strategia comune per riprendere in mano le redini di questo paese, facendo scelte lungimiranti, creative e coraggiose, non contro qualcuno, ma per per il suo futuro, la sua sovranità e indipendenza. Invece, come sempre, ognuno ha badato al proprio orticello, ha difeso i privilegi e le istanze della propria corporazione, ognuno ha messo la sua bandierina qua e là, ha arraffato quello che ha potuto e tanti saluti, addio Italia. Per sbarazzarci di Berlusconi e del suo governo, sarebbe bastato uno sciopero generale, a oltranza, ma è chiaro che se non si sa cosa proporre a lungo termine, se non si vuole coinvolgere qualcuno, se si ha paura di dispiacere qualcun altro, se si teme di non riuscire a tenere a casa i lavoratori, non si può organizzare alcunché, nemmeno una scampagnata fuori porta. Ora è tutto molto, molto più difficile, complicato. C’è anche un altro problema, planetario, forse il più imponente e irrisolvibile: la maggior parte degli esseri umani non hanno abbastanza cultura, consapevolezza, fantasia, curiosità, non sono minimamente interessati a ripensarsi e ripensare. Il mondo è in bianco e nero. Le leggi e le consuetudini sono scolpite nella pietra - ma è proprio da questa visione parziale, paralizzata e paralizzante che dovremmo uscire, sperimentando forme nuove di governo, economia e convivenza, aprendoci ai cambiamenti, anche a costo di ripartire da zero, rinunciando ad uno stile di vita discriminatorio, consumistico e distruttivo che è la principale minaccia alla nostra stessa sopravvivenza. Se potessimo chiedere ad ognuno cosa farebbe, a cosa rinuncerebbe per offrire una vita migliore agli altri, avremmo amare sorprese. Capiremmo, una volta per tutte, che non si può fare a meno di una buona leadership, altrimenti, scalzato il pastore, il gregge finisce in un crepaccio o in pasto ai lupi, a quattro e due zampe. Il mondo, nella generalità dei casi, ha una classe politica rappresentativa? Sì. Il mondo, nella generalità dei casi, ha una classe dirigente al servizio dei cittadini? No. Le classi politiche e dirigenti sono sempre al servizio di loro stesse e, soprattutto, di chi gli ha spianato la strada verso il potere. Perciò, in ultima analisi, le leadership mondiali sono l’equivalente dei cani da pecoraio - se non fanno bene il lavoro, il pastore le bastona, e se non basta, le sostituisce. Ecco come nascono - e muoiono - i governi, non solo tecnici. Non so come andrà a finire, ma di certo, prima o poi, saremo costretti a fare marcia indietro, quindi, se sopravvivremo a noi stessi e ai nostri disastri, torneremo a commettere i medesimi errori in una coazione a ripetere che, nonostante l’evidenza, fingeremo di non vedere. E’ già accaduto. Accadrà ancora? Avremo un’altra occasione? Chissà.
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