Ho aspettato. Ho aspettato e ancora ho aspettato. Niente.
9
Luglio 2006. Gli italiani, quelli che si scoprono orgogliosi
di esserlo solo quando si tratta di far bella figura calcisticamente,
meglio se stando sul carro del vincitore, festeggiano la 4° coppa
del mondo.
10
Luglio 2006. L’Italia dei bagordi, dei bagni nelle
fontane, dei caroselli notturni, del «che schifo il calcio ma se
vince la nazionale festeggio anch’io», l’Italia che
ha la memoria corta, che finge di non sapere che i suoi beniamini sono
mercenari al servizio di loro stessi e del migliore offerente, non necessariamente
in quest’ordine, aspetta i campioni, li accompagna dall’aeroporto
sin dentro i palazzi. Se non a Roma, davanti alla TV. Prodi, Melandri,
Napolitano – parole che suonano grosse, ma è festa, chiudere
un occhio si può, si deve… Poi, sul pulman scoperto stile
London City, i nostri saltano, cantano, salutano, urlano, si godono il
bagno di folla, il tripudio come, forse, nemmeno i gladiatori vissero.
E sventolano bandiere, si avvolgono nel tricolore. I più distratti
o i più ignoranti, lungo le strade, dietro le telecamere, davanti
ai teleschermi, non si accorgono. Gli altri di occhi ne chiudono due per
non vedere quel simbolo, quella croce celtica chiaramente disegnata su
uno striscione mostrato con orgoglio da uno dei più celebrati giocatori
della nazionale: Buffon. Simpatico ragazzo, e bravo – fra i pali.
Fuori dall’area di rigore, però… ma è festa,
dannazione, vogliamo buttarla in polemica anche oggi? Cosa c’entra
lo sport con la politica? Appunto. Saltano i nostri ragazzi. Arrivano
al Circo Massimo e dal palco che pare una torre inespugnabile visibile
a chilometri di distanza, parlano la lingua degli italiani, sono come
loro! Buffon dispiega il suo striscione, lo stende come farebbe una brava
massaia sul parapetto e ci si appoggia sopra a bocca spalancata. Che tutti
vedano, tutti ascoltino – il portiere e la sua bandiera: “Fieri
di essere italiani”, il tricolore e la croce celtica. Nessuno sussulta,
là sotto o altrove, nessuno dietro le macchine per scrivere ha
un moto d’indignazione o perplessità.
Nella
notte, a Roma, mentre i festeggiamenti proseguono smodati, il ghetto è
preso d’assalto. Croci uncinate a fianco di croci celtiche compaiono
ovunque.
Il
giorno dopo, la notizia sconvolge l’Italia che si crede onesta e
giusta. Unanime la condanna. Qualcuno si dichiara preoccupato, o stupito.
Ma nessuno ricorda di aver visto sullo striscione di Buffon l’emblema
utilizzato da Forza Nuova, la croce celtica. Eppure quel simbolo è
identico agli altri scarabocchiati sui muri, sui portoni, sulle vetrine
del quartiere ebraico! Perché lui può esibirlo e a nessuno
viene in mente di prenderlo a calci nel didietro insieme ai suoi amichetti
sessisti, misogini, omofobi e xenofobi?
Già,
l’Italia delle caste, dei politici liberisti, progressisti e riformisti,
dei giornalisti e degli intellettuali con o senza blasone, dei finanzieri
e degli imprenditori, dei cardinali e dei vescovi, degli opinionisti accreditati,
degli sportivi, dei tifosi, dei cittadini che si credono onesti e giusti,
che magari lo sono ma a fasi alterne, secondo convenienza, non vede, non
sa, non ricorda, non parla, non scrive, non pensa. Ha smesso di farlo
– da un pezzo.
Mentre
i coglioni, i froci, le femministe e i comunisti se ne stanno sul carro
del vincitore a festeggiare convinti di fare l’interesse proprio
e del paese, prosperano i Buffon - e i Roberto Fiore. Gli eredi del nazifascismo
promuovono impuniti il privilegio, il disprezzo, l’inciviltà
e la barbarie. In questa folle, suicida, pusillanime indifferenza, ognun
che tace spiana la strada al regime che già c’è, e
avanza – inesorabile come una degenerazione che non si vuol vedere,
ammettere, stroncare.
Guardo
quest’Italia campione d’ignoranza ed ipocrisia e con rassegnato
disincanto brindo alla storia, alla memoria, ai buoni principi su cui
i padri costituenti fondarono la Repubblica: ragioni e parole che ormai
valgono meno di un soldo bucato.
C.
Ricci
(21
Luglio 2006)
Mi
giunge voce che il giorno dopo “Il Tirreno” abbia pubblicato
un articolo nel quale segnalava lo striscione ma non riteneva che Buffon
ne fosse l’autore. Avendolo egli già trovato esposto sul
parapetto, quindi senza che ne potesse vedere il contenuto, vi si sarebbe
appoggiato del tutto in buona fede. Secondo altre testimonianze, invece,
lo avrebbe portato lui dopo averlo sventolato ed esibito durante il tragitto
sino al Circo Massimo. Poco importa, in effetti. Sappiamo di che colore
sono le simpatie politiche della maggior parte dei nostri campioni, quel
simbolo non li avrebbe di certo infastiditi. Quel che maggiormente preoccupa
è che nessuno lo abbia fatto togliere e che quasi nessuno lo abbia
adeguatamente, giustamente stigmatizzato. Sui muri del ghetto - no, esposto
sul palco di fronte alle telecamere - sì. Due pesi e due misure
- vizio e vezzo di un’Italia con troppe facce. Di bronzo.
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