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Pur
essendo una persona che mal sopporta eccessi, sberci, masse vaporose iper-profumate
o iper-puzzolenti (dopo due ore di sfilata sotto il sole certe caciotte...),
musica martellante e corpi ignudi (maschili, femminili, transgender -
omosessuali, lesbici o etero, indifferentemente, perché la nudità
quando è esibizione e ostentazione mi disturba a prescindere),
non mi sono mai interrogata se fosse producente il Pride, opportuno, e
quando ci ho provato non sono riuscita ad impegnarmi per più di
qualche secondo - perché per me le apparenze contano poco, veramente
molto poco. Sempre. E se quello che ho elencato m’infastidisce al
Pride, m’infastidisce anche altrove, in altri contesti - in discoteca,
allo stadio, alle cene, al cinema, nei bar, alla tivù, per strada.
Sempre (che sia coerenza?). E tuttavia non è questo che m’impedisce
di sentirmi parte del mondo, né di essere me stessa, partecipe
e solidale anche quando non condivido certe esteriorizzazioni, perché,
come ho già detto, non sono queste che contano, ma i contenuti,
le motivazioni, gli scopi.
Dire
“non condivido il Pride” per le ragioni che ho elencato non
ha senso... Il Pride non è le piume di struzzo, i carri dance,
la carne venduta a quarti. Il Pride è mesi e mesi di lavoro, relazioni,
contrattazioni durissime con le istituzioni e le comunità locali,
dibattiti, discussioni, iniziative culturali, politiche, è le persone
che si espongono nel contesto sociale (non solo eterosessuale, purtroppo)
nel quale vivono e con il quale continueranno a fare i conti, che non
gli perdonerà d’aver voluto tutto quel baccano, d’aver
portato in piazza le istanze di una minoranza fastidiosa e invadente,
d’aver mostrato una parte della realtà per quello che è,
piaccia o meno a qualcuno.
Avrebbe
senso dire di non condividere il Pride se non si fosse d’accordo
con i contenuti - ma per non esserlo bisognerebbe non aver richieste da
fare a questa società, a questo stato, a questo mondo. Si potrebbe
non essere d’accordo se a tutti fossero garantiti gli stessi diritti,
le stesse opportunità, ma siccome così non è (chi
pensa il contrario evidentemente vive sulla luna), lo si deve sostenere
anche se non ci piacciono i seni nudi e i culi all’aria. “È
una questione semplice semplice di libertà”. Non possiamo
pretenderla se non siamo disposti ad accettare che altri ce l’abbiano
e la esercitino.
Qualcuno
obietterà che ci dovranno pur essere delle alternative... No, non
ci sono, altrimenti il Pride non esisterebbe, semplicemente. Se ci fossero
altri modi, non staremmo nemmeno a parlarne - il folklore gay non sarebbe
più scandaloso di qualsiasi altra manifestazione umana e finalmente
la smetteremmo di considerare l’altro come se fosse un fenomeno...
da baraccone, appunto.
Insomma,
a chi storce il naso direi: “non fare il gioco di chi ci vorrebbe
silenziosi e invisibili, inoffensivi e ossequiosi - e se proprio non vuoi
o non puoi partecipare al Pride, almeno non coprirlo di ridicolo o fango
parlandone a sproposito. Pochissimi sembreranno usciti dal carnevale di
Rio, tutti gli altri non sono diversi da te ed anche per te saranno là”.
C’è
chi sostiene che il Pride sia “un meccanismo ormai ben collaudato,
una ripetizione periodica dello stesso copione... Solitamente le minoranze
acquistano diritti quando diventano fonti economiche e di voto...”
sacrosanta verità, ma se le minoranze non li chiedono o li chiedono
solo al vicino di casa, li avranno ugualmente?
Chiariamoci...
Qui
non si tratta di fare delle contrapposizioni fra chi fa di più
e meglio, nel privato e/o nel sociale - ognuno porta avanti le sue battaglie
come può e vuole. E nemmeno si possono fare delle equazioni tipo
Paillettes al Pride e il giorno dopo stoppinati in casa, giacca e cravatta,
fornelli e marmocchi, zitti e mosca.
E
poi, chi è stato ad almeno un Pride e l’ha attraversato tutto
dall’inizio alla fine lo sa, le “baracconate” non sono
una costante ma sempre più delle eccezioni - le uniche che l’informazione
sbatte in prima pagina, sciorina alla TV, perché fanno colore,
audience, comodo... Provo stupore, rabbia e disagio quando le persone
dipingono il Pride per quello che non è minimizzandone l’importanza
e l’impatto. È ingiusto e strumentale - ingiusto perché
colpisce e ridicolizza la maggioranza dei partecipanti (che si comportano
esattamente come si comporterebbero in qualsiasi altra occasione, trans
compresi) e strumentale perché fa il gioco di tutti gli stronzoni
che il compaesano gay lo vorrebbero discreto e gentile, a casa sua e il
più lontano possibile dai propri figli, possibilmente morto.
L’hanno
capito quasi tutti ormai (anche chi ci teme più del diavolo) che
i gay non sono più le “violette” del cinema anni Trenta,
le checche in odor di “vizietto” degli anni Settanta e Ottanta,
le omaccione generose e paciocche degli anni Novanta, o le viziose “agguanta
dove capita” di ogni tempo. L’hanno capito quasi tutti che
quei signori usciti da un Carnevale esotico e pure quegli altri che agitano
i muscoli neanche fossero tarantolati, o quelle signorine tutte uguali
come fumetti partoriti dalla fantasia di un disegnatore a corto di idee,
fanno un gran baccano perché si divertono o perché, semplicemente,
al Pride ci portano loro stessi - brutti o belli, sgradevoli o gradevoli
che siano, ed hanno tutto il diritto di farlo perché ancora non
c’è una legge che glielo può impedire, grazie a Dio.
Gli unici che sembra non se ne rendano conto e più degli altri
mal li sopportano, appartengono alla categoria che il Pride, in un eccesso
di generosità o presunzione, vorrebbe rappresentare, difendere.
Perché
non ci scaldiamo così tanto quando sentiamo la gente ragionare
e vivere per luoghi comuni sessisti, discriminatori, omofobi e razzisti,
quando il loro veleno esce dalla bocca dei figli dei nostri parenti, amici,
conoscenti? Perché non ci fanno così incazzare gli eterosessuali
quando ci sbattono in faccia i privilegi della loro “normalità”
portandoci via il lavoro, la casa, le persone che amiamo il giorno di
Natale. Perché non gridiamo allo scandalo quando dobbiamo indossare
gli abiti che loro c’impongono e con quelli andarcene nel mondo,
grigi contabili dei loro patrimoni o impavidi difensori del loro potere,
quasi sempre creatori del loro accattivante style, delle idee che non
hanno. Perché ci riesce così facile tollerare e addirittura
votare tutti quegli uomini e quelle donne che negandoci pari diritti e
opportunità, di fatto negano la nostra stessa esistenza? Perché
dovremmo rinunciare a manifestare il nostro dissenso contro ognuna di
queste cose e molte altre (privatamente e pubblicamente)? Come può
un seno nudo indurci alla rinuncia? Come può un culo all’aria,
da solo, valere più di tutto il resto, sconfessarlo, vanificarlo?
È ovvio che il Pride non è l’unico modo per ottenere
riconoscimento e visibilità. Il Pride è la ciliegina sulla
torta, indigesta, magari - ma ancora necessaria. L’ultimo atto,
il più evidente, di una lunga serie di battaglie destinate perlopiù
a passare colpevolmente sotto silenzio. Ed è anche (non dimentichiamolo),
l’unico momento pubblico, di pubblica testimonianza e rivendicazione,
interamente nostro nel quale possiamo mostrare noi stessi senza venir
manipolati, filtrati e censurati - perché, anche se la Tv mostrerà
solo ciò che fa comodo a lei e ai suoi padroni, è altrettanto
vero che al Pride nessuno di loro viene ad incipriarci il naso per farci
apparire diversi, lì nessuno ci toglie la parola se non rispettiamo
il copione che altri hanno scritto con la nostra stessa complicità,
talvolta senza nemmeno saperlo, quasi sempre sinceramente convinti di
fare un buon servizio alla causa, “purché se ne parli”...
E
allora vorrei tanto sapere che differenza c’è fra i servizi
giornalistici post-baracconata e i salottini profumati o popolari Fininvest
e Rai dove gay incravattati non fanno nessuna fatica a compiacere e rassicurare
le masse catto-destrorse - vorrei proprio sapere perché le immagini
trasmesse dai TG ci fanno dire che i Gay Pride sono una schifezza, mentre
i talk show al massimo ci fanno arricciare il naso... non sarà
che usiamo anche noi due pesi e due misure, secondo un modus operandi
consolidato e diffuso che divide tutto in categorie verticistiche, distribuendo
consensi, libertà, garanzie e diritti in base e in proporzione
ad una collocazione arbitraria, moralista, fors’anche, in taluni
casi, un pizzico omofoba, comunque discriminatoria?
No,
non sarà il Pride che ci darà i diritti che non abbiamo
- se qualcosa otterremo la dovremo però a tutto quello che si muove
intorno ad esso, all’impegno e alla faccia di chi vi partecipa,
di chi, magari pur non esponendosi pubblicamente, al Pride o di fronte
alle telecamere, combatte la sua guerra quotidiana rifiutando con forza
le catalogazioni, le discriminazioni di qualunque tipo, di chi sa una
cosa “semplice semplice semplice”: che ogni limitazione alla
libertà degli altri è, in definitiva, una limitazione alla
propria.
E
allora sì, io lo voglio il Gay Pride - lo voglio chiassoso, colorato,
arrabbiato, ironico, divertito e divertente, pieno zeppo di PERSONE, tante,
tante PERSONE di tutti i tipi: occasionalmente o stabilmente gay, lesbiche,
trans, etero, giovani e vecchie, ricche e povere, belle e brutte, in abiti
alla moda, in tuta, in giacca e cravatta, in tailleur, in mutande ed anche
nude se a loro piace. Voglio che il Pride sia e rimanga una festa, la
prova che in questo pazzo paese l’imbarbarimento non ha ancora contagiato
tutte le coscienze.
C.
Ricci
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