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“CINEMA ITALIANO” |
Attorno al 1960 il cinema italiano parve segnare una svolta, favorita anche da nuove situazioni ideologiche e politiche.
Nel 1959 “La dolce vita” di Fellini e “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti costituirono con “L’avventura” di Antonioni l’imponente trittico dei massimi autori del momento. Si riaprirono il filone “resistenziale” e l’indagine critica sul fascismo, caddero i primi tabù (“La grande guerra”, 1959, e “I compagni”, 1963, di M. Monicelli), si affrontarono temi scottanti come la mafia e la speculazione edilizia (“Salvatore Giuliano”, 1962 e “Le mani sulla città”, 1963, di F. Rosi). Antonioni impostò in termini di alienazione e di nevrosi il rapporto tra civiltà industriale e individuo (“La notte”, 1961; “L’eclisse”, 1962; “Deserto rosso”, 1964), mentre, dopo lo spietato quadro de “La dolce vita”, Fellini si ripiegò a riesaminare il proprio io in “Otto e mezzo” (1963). In genere si accentuava il dissidio tra la realtà sociale, del “miracolo economico” oppure del sottosviluppo, e l’interiorità dell’uomo (1961: “Accattone” di P. P. Pasolini e “Il posto” di E. Olmi; 1962: “I giorni contati” di E. Petri e “Chi lavora è perduto” di Tinto Brass), ma ciò comunque ristabiliva, sebbene in forme di contestazione e di ripulsa, il dialogo tra cinema e società troncato dalla fine del neorealismo.
Mentre Marco Ferreri cominciava a lanciare i suoi strali contro i pilastri dell’ordine costituito (“L’ape regina”, 1963), nel “Vangelo secondo Matteo” (1964), dedicato alla memoria di papa Giovanni, Pasolini rifletteva nei modi della sua arte l’equazione cristianesimo-marxismo entrata, oltre che nella vita spirituale, anche in quella politica con la nascita della formula governativa del “centro-sinistra”.
Nel 1965 una nuova legge fu dedicata anche al cinema, per la prima volta privilegiato, almeno nelle intenzioni, quale “mezzo di espressione artistica, d’informazione culturale, di comunicazione sociale”.
La seconda metà del decennio, che si annunciò all’insegna dei giovani (“Prima della rivoluzione”, 1964, di Bernardo Bertolucci; “I pugni in tasca”, 1965, di M. Bellocchio), innestò motivi e previsioni di contestazione generale sul bilancio di un periodo storico (“Uccellacci e uccellini”, 1966, di Pasolini; “I sovversivi”, 1967, dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani), mentre nel 1966 tre film di anziani venivano dall’estero (“La presa di potere di Luigi XIV” di Rossellini, “Blow-up” di Antonioni e “La battaglia di Algeri” di G. Pontecorvo).
La rivolta studentesca europea del 1968 e il susseguente “autunno caldo” sindacale in Italia, oltre alle varie nouvelles vagues cinematografiche fiorite un po’ dovunque, alimentarono anche nel cinema italiano una forte tensione critica, che da una parte investì i festival (compresa la mostra veneziana, che pure aveva tentato parzialmente di rinnovarsi con la gestione Chiarini imperniata sulla qualità) e dall’altra favorì e quasi generalizzò la tendenza cosiddetta “politica”, sia in film di dibattito militante (“I dannati della terra” di V. Orsini nel 1968; “Apollon, una fabbrica occupata” e “Contratto” di U. Gregoretti, rispettivamente nel 1969 e nel 1971; “Sierra Maestra” di A. Giannarelli e “Lettera aperta a un giornale della sera” di F. Maselli nel 1970; “Il sasso in bocca” di G. Ferrara nel 1971), sia in metafore artistico-ideologiche (“Dillinger è morto” e “Il seme dell’uomo” di Ferreri, rispettivamente nel 1969 e nel 1970; “Sotto il segno dello Scorpione” dei Taviani, “I cannibali” di Liliana Cavani nel 1970 e “Uomini contro” di Rosi nel 1971, senza contare le “provocazioni” intellettuali di C. Bene, che fa parte a sé), sia in polemiche spettacolari, più o meno spregiudicate e incisive di carattere “civile”, il cui modello fu “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” (1970) di Petri che, dopo gli anni del neorealismo e quelli di Fellini, riguadagnò all’Italia il premio Oscar.
Nei primi anni Settanta si registrò, accanto al dilatarsi, talvolta non senza compromessi e ambiguità, dell’impegno civile (nei film di Petri, Rosi, Damiano Damiani, Mauro Bolognini, Lina Wertmüller, F. Vancini, G. Montaldo, N. Loy e altri), anche il fenomeno della liberalizzazione in campo sessuale, per cui Pasolini fu il primo a battersi nella sua cosiddetta “trilogia della vita” (“Decameron”, 1971; “I racconti di Canterbury”, 1972; “Il fiore delle Mille e una notte”, 1974).
Nel frattempo altri proseguirono isolatamente il loro discorso: Fellini dal “Satyricon” (1969) ad “Amarcord” (1973) e al “Casanova” (1976), Antonioni da “Zabriskie Point” (1970) a “Professione: reporter” (1975), Visconti dalla “trilogia tedesca” (“La caduta degli dei”, 1969; “Morte a Venezia”, 1971; “Ludwig”, 1973) all’autobiografico “Gruppo di famiglia in un interno” (1974) e al postumo “L’innocente” (1976). Pure “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini uscì postumo (1976) incorrendo subito nel sequestro come accadde anche a “Ultimo tango a Parigi” (1972) di Bertolucci, il quale da “Strategia del ragno” (1970) e “Il conformista” (1971) approdò poi all’affresco colossale di “Novecento” (1976). Quanto a Ferreri, ostacolato in patria (“L’udienza”, 1971), trasferì in Francia la propria vena apocalittica, da “La grande abbuffata” (1973) a “L’ultima donna” (1976). Bellocchio passò dall’autobiografico “Nel nome del padre” (1972) allo straordinario “Matti da slegare” (1975), film-documento sulla malattia mentale e le nuove terapie “aperte”. La Cavani raggiunse il successo internazionale con “Il portiere di notte” (1974); e così, nel campo della commedia di costume, D. Risi con “Profumo di donna” (1974) ed E. Scola con “C’eravamo tanto amati” (1975).
Nel genere politico figurano “Il sospetto” di Maselli nel 1975, “Cadaveri eccellenti” di Rosi e “Todo modo” di Petri, entrambi da L. Sciascia, nel 1976. Alla corrente politico-metaforica appartiene “San Michele aveva un gallo” (1972), frutto di una collaborazione con la televisione; gli autori, i fratelli Taviani, gli fecero seguire “Allonsanfàn” (1974). E proprio la Palma d’oro vinta a Cannes nel 1977 dal loro “Padre padrone” significò la rivincita sul cinema commerciale di un rigoroso prodotto d’autore e di un film realizzato per la televisione, in un concorso in cui essa era guardata come nemica. In effetti la sua concorrenza si è rivelata decisiva nel ridimensionare lo spettacolo cinematografico. Ma la televisione ha avuto senza dubbio anche un ruolo positivo, non soltanto nei casi clamorosi dei Taviani e di Olmi, che nel 1978 con “L’albero degli zoccoli” ripeté a Cannes il trionfo italiano, ma per aver finanziato, già a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, molti altri registi, da Fellini (“Prova d’orchestra”, 1978) ad Antonioni (“Il mistero di Oberwald”, 1980), da Comencini (“Pinocchio”, 1972) a Rosi (“Cristo si è fermato a Eboli”, 1979), a F. Giraldi (“La rosa rossa”, 1973; “La giacca verde”, 1980). E tuttavia nemmeno la televisione poteva offrire un’alternativa valida alla crisi dell’industria cinematografica, dovuta alla diminuzione del pubblico, e quindi degli incassi, a una sensibile discesa produttiva e all’invadenza crescente della produzione estera. Certamente sono emersi, nonostante tutto, alcuni giovani (da Nanni Moretti con “Ecce Bombo”, 1978, a M. Troisi con “Ricomincio da tre”, 1981) e si sono confermati gli anziani (nel 1976 Zurlini con “Il deserto dei tartari”, nel 1977 Monicelli con “Un borghese piccolo piccolo”, Scola con “Una giornata particolare”, B. Bozzetto col lungometraggio d’animazione “Allegro ma non troppo”, nel 1978 Ferreri con “Ciao maschio” e nel 1979 con “Chiedo asilo”, nel 1980 Fellini con “La città delle donne” e Bellocchio con “Salto nel vuoto”, nel 1981 Rosi con “Tre fratelli”, nel 1982 Antonioni con “Identificazione di una donna” e i Taviani con “La notte di San Lorenzo”).
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