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Movimento del cinema francese sviluppatosi alla fine degli anni Cinquanta, la cui denominazione era mutuata dal titolo di un’inchiesta del settimanale L’Express sulla gioventù e la cui iniziatrice è stata la regista Agnès Varda con il film “La pointe courte” (1954). Il nuovo cinema, esploso al Festival di Cannes nel 1959 con “I quattrocento colpi” di François Truffaut e “Hiroshima mon amour” di Alain Resnais, confermato nel 1960 da “Fino all’ultimo respiro” di Jean-Luc Godard, si qualificava come giovane non solo per l’età della maggior parte dei suoi realizzatori, quasi tutti esordienti (almeno nel lungometraggio), ma per i metodi di lavoro. Propugnando un cinema “d’autore” indipendente e a basso costo contro il cinema industriale dei “divi”, i seguaci della nouvelle vague, allievi di A. Bazin e della Cinémathèque française, collaboratori della rivista Cahiers du Cinéma, seppero rinnovare, più che i soggetti, il modo di aggredirli, abbattendo le convenzioni narrative e creando un nuovo linguaggio, nuovi quadri anche tecnici, nuovi attori. I limiti furono sostanzialmente quelli di una generazione cresciuta nella Francia gollista: una sopravvalutazione del cinema e dei problemi dell’individuo in rapporto alla vita reale e ai problemi della società. Forse eccessivamente pubblicizzata, la nouvelle vague (sulla quale il giudizio tende oggi a essere eccessivamente severo) stimolò comunque anche in altri Paesi, a cominciare dal Canada francofono, la nascita di movimenti consimili.
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