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NOUVELLE VAGUE
Di Roberto C. Provengano – Approfondimento tratto da “le Garzatine – Cinema”
La Nouvelle vague, come il neorealismo, non scaturisce da un vero e proprio manifesto programmatico, ma è preparato da un retroterra criticoletterario rappresentato dagli interventi di A. Bazin, fondatore dei “Cahiers du Cinema”, da un lato, e dall’altro dai giovani redattori “d’assalto” della rivista: J.-L. Godard, F. Truffaut, E. Rohmer, C. Chabrol, A. Resnais, J. Rivette, tutti cinefili incalliti che essendosi nutriti di centinaia e centinaia di film e prendendo spunto da un vecchio articolo di A. Astruc del 1948 (La camera-stylo) elaborano le nozioni di cinema come linguaggio e di «auteur», contrapposto a «metteur en scène». Due nozioni che utilizzano prima per svecchiare e rivoluzionare la metodologia critica (legata alla prassi umanistico-letteraria del riassunto-parafrasi-interpretazione) e, successivamente, passati alla regia, quello del modo di fare cinema.
Cinema come linguaggio, vale a dire non come semplice procedimento di messa in scena-illustrazione visiva di una sceneggiatura letteraria, bensì come strumento per una “scrittura” personale di espressione, e «auteur» non più solo come colui che esprime una propria poetica-visione del mondo di tipo contenutistico, bensì come colui che utilizza gli strumenti messi a disposizione dal linguaggio per un’espressione tecnico-stilistica libera dalle normali convenzioni e strettamente personale. Un «auteur» quindi è tale non solo per ciò che dice, ma anche e ancor più per come lo dice.
Tali premesse portano i giovani critici (già innamorati di O. Welles, R. Rossellini, J. Renoir e R. Bresson, acclaratamente considerati «autori» ) al rifiuto della tradizionale distinzione fra Arte e Entertainment e alla rivalutazione in sede critica di registi come A. Hitchcock, H. Hawks, J. Ford, D. Sirk e altri, fin lì considerati solo abili mestieranti, poiché riscontrano nel loro stile di messa in scena e di uso del linguaggio un unico «germe creativo» che può essere isolato e posto in evidenza, per mezzo dell’analisi, in tutte le loro opere. La stessa esigenza di una espressione e di uno stile strettamente e fortemente personalizzati, porta i giovani critici al loro esordio nella regia a un’eclatante irriverenza nei confronti del linguaggio codificato dal cinema hollywoodiano e alla sostituzione dell’estetica del «non far sentire la macchina» con quella speculare e opposta del «far sentire» la macchina. Esigenza che si esprime a livello narrativo in una rivisitazione ironico-destrutturante dei generi hollywoodiani e a livello linguistico nella denuncia delle codificazioni esistenti nel linguaggio come retorica e non come una grammatica per mezzo di volute e ricercate sgrammaticature: raccordi non più fluidi ma sottolineati dal jump-cut, alternanza immotivata di obiettivi sullo stesso soggetto, controluce «sporchi», ritorno all’uso di mascherini e iris ormai desueti, movimenti di macchina traballanti e, soprattutto - secondo la lezione di Welles e Rossellini e i principi estetici espressi da Bazin in merito a un cinema realista - inquadrature lunghe e ininterrotte, che evolvono presto nell’uso teorizzato e cosciente del piano-sequenza, per restituire inalterato il senso e il sapore della realtà anche a livello iconografico.
Precedute da opere antesignane come [1] “Piace a troppi” (1956) di R. Vadim, “Ascensore per il patibolo” (1957) di L. Malle e “Lettres de Siberi”e (Lettere dalla Siberia, 1957) del documentarista C. Marker, i film che segnano l’inizio del movimento sono le opere di debutto dei giovani critici (che per tutti avviene dopo una formazione nel documentario): “Le beau Serge” (1957) di C. Chabrol, “I quattrocento colpi” di F. Truffaut, “Le signe du lion” (Il segno del leone) di E. Rohmer e “Hiroshima mon amour” di A. Resnais, tutti del 1959, “Paris nous appartient” (Parigi ci appartiene) di J. Rivette e “Fino all’ultimo respiro” di J.L.-Godard, ambedue del 1960. Film che sono alquanto diversi l’uno dall’altro ma che, oltre che nelle irriverenze linguistiche, trovano un denominatore comune nella produzione a basso costo (uno dei fattori di successo commerciale di queste opere fu proprio l’abbattimento del costo medio di produzione) e nel rifiuto della sceneggiatura di ferro a favore di una sceneggiatura-copione che lasci ampia libertà di ispirazione sul set, nella contemporaneità dei temi trattati e soprattutto - visti i loro trascorsi cinefili - un gusto citazionista che testimonia del fatto che il cinema è ormai cosciente della propria storia e che non può più esprimersi se non attraverso questa coscienza metalinguistica. Come prevedibile - e nelle stesse premesse della “politique des auteurs” - ciascuno di questi registi evolve in seguito secondo una propria legittima personalità poetico-contenutistica e stilistica, ma il solco è ormai definitivamente tracciato e in quello procede, allargandolo sempre più, il cinema moderno: un cinema non più asettico e indeterminato nella sua marca autoriale, presuntamente oggettivo e «trasparente» nei confronti della realtà rappresentata ed empatico con lo spettatore, bensì soggettivamente ed esplicitamente «firmato», che esprime un’opinione personale sul mondo rappresentato e che utilizza il «far sentire» la macchina come strumento per svegliare lo spettatore dal suo torpore onirico e rivolgersi alla sua coscienza critica.
[1] Inserire il film “La pointe courte” (1954) di Agnès Varda - se lo dimenticano quasi tutti, chissà perché... (TORNA SU).