|
||||||||
|
||||||||
Regista (Brémont-Lamothe, Auvergne, 1907 – Parigi, 1999)
Ha conquistato un posto di assoluto rilievo, ma solitario e chiuso, nel panorama culturale del secondo dopoguerra, distinguendosi per il rifiuto sistematico di usare il mezzo d’espressione più popolare a fini d’intrattenimento: per lui il cinema è scrittura, non spettacolo. Gli studi filosofici influenzano il suo stile cinematografico, unico anche nello scenario colto del cinema d’autore europeo. È anche raffinato scenografo, oltre che sceneggiatore di quasi tutti i suoi lungometraggi. Sin da giovane ama e pratica la pittura, e l’amore per l’immagine lo avvicina al cinema che stimola le sue già spiccate attitudini alla speculazione intellettuale. L’esordio avviene nel 1943-44 con “La conversa di Belfort”, storia di una dolorosa vocazione che mette subito in mostra l’intenzione del regista di usare il cinema come mezzo di ricerca interiore della Grazia. Secondo la visione giansenista abbracciata dall’autore, solo la Grazia, elargita ad imperscrutabile volontà di Dio, può salvare l’uomo e il mondo, compromessi irrimediabilmente dal peccato originale. All’inizio della sua attività creatrice (“La conversa di Belfort”, appunto, e subito dopo “Les dames du Bois de Boulogne” ovvero “Perfidia”, 1945, ispirato ad un episodio di “Jacques il fatalista” di Denis Diderot, che tratta come una tragedia il tema di una incruenta vendetta per amore) si serviva di attori, poi li abolì abbandonando la linearità dei film precedenti e in quella che forse è la sua opera più significativa, “Au hasard, Balthazar” (1966), opta per una struttura polifonica che gli permette di raccontare parallelamente le vite di più personaggi tutte ruotanti intorno a quella di un asino che ascende il Golgota, come il Signore, e attraverso il cui sguardo puro e impassibile, la presenza del male raggiunge una trasparenza assoluta. Tuttavia, il suo percorso assume forma compiuta nel 1951 con “Il diario di un curato di campagna” (Leone d’oro a Venezia), tratto dall’omonimo romanzo di G. Bemanos, racconto della breve vita di un giovane sacerdote annichilito dall’aridità degli uomini e quindi dal Male, al quale può opporre solo la sua sofferenza fisica e morale. In Bresson la determinante concezione religiosa si trasforma in rigore stilistico, in uno scavo ellittico ed essenziale, in una sorta di altero calvinismo della regia. Autore scarno, si è ispirato spesso a scrittori tormentati come Bernanos (il già citato “Il diario di un curato di campagna”, 1951, e “Mouchette”, 1967) e Dostoevskij (“Pickpocket”, 1959, considerata una delle opere che meglio spianano la strada della Nouvelle vague; “Così bella così dolce”, 1969, primo suo film a colori; “Quattro notti di un sognatore”, 1971). Del 1956 è “Un condannato a morte è fuggito” (premio per la migliore regia al Festival di Cannes) metafora della fuga da un carcere nazista come lotta del protagonista contro la propria debolezza. In “Procès de Jeanne d’Arc”, (Il processo di Giovanna d’Arco, 1963, premio speciale della giuria a Cannes) si avvicina alla figura della santa (vedi approfondimento) per indicare nella solitudine e nel progressivo distacco dal mondo il fine ultimo della vita terrena. In “Mouchette. Tutta la vita in una notte” (1967), ancora da un romanzo di Bemanos, affida al punto di vista «innocente» di Mouchette, una contadina adolescente, una storia di umiliazione e di violenza, di cui il suicidio della protagonista è l’estremo rifiuto. Con “Così bella così dolce” (1969) e “Quattro notti di un sognatore” (1971), entrambi ambientati a Parigi, rende esplicito omaggio a Dostoevskij. Apologhi esistenziali, scanditi da un pessimismo totale, sulla crudeltà dell’universo terreno e la pena di viverci, risultano sia “Lancillotto e Ginevra” (1974), film destrutturato ai limiti della indecifrabilità, sul confine del vuoto e del «non filmabile» in cui costruisce un proprio criptico discorso per attestare l’impotenza del mito, sia “Il diavolo probabilmente...” (1977, Orso d’argento a Berlino) in cui confluiscono i temi maggiori dell’opera bressoniana (la ricerca dell’amore e la delusione, l’orgoglio e la disperazione, l’intransigenza e l’irriducibilità), ma ne è anche la liquidazione: la «resistenza negativa», che nei film precedenti si configura come ultimo «valore» praticabile, cede all’invivibilità e all’orrore del mondo a cui il protagonista si arrende scegliendo la morte, non più come protesta radicale ma come deriva. “L’Argent” (1983 Grand prix du cinema de creation a Cannes) da un racconto di Tolstoj e incentrato sul tema del denaro come malattia e corruzione dei rapporti umani, ribadisce, con minore forza, le conclusioni definitive del regista. Nel 1989 ha ricevuto, a Venezia, il Leone d’oro alla carriera.
|
|||||||||||||||||||||||||||||
|
|||||||||||||||||||||||||||||
|
|||||||||||||||||||||||||||||
|
|||||||||||||||||||||||||||||
|