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Aggiornato Lunedì 10-Apr-2006


AGNÈS VARDA

Regista, sceneggiatrice e documentarista

(Bruxelles, Belgio, 30 maggio 1928)

 

Il padre è greco, la madre francese. Studia Letteratura alla Sorbonne di Parigi, Storia dell’Arte al Louvre e segue una scuola di Fotografia. Conosce Jean Vilar e Gérard Philipe ed entra (come fotografa) a far parte del “Théâtre National Populaire”. Diviene una reporter e fa alcuni servizi in Cina, in Portogallo, a Cuba.

Grazie al suo film d’esordio, “La Pointe Courte” (1954, mediometraggio interpretato da Philippe Noiret e montato da A. Resnais), è considerata a buon diritto la vera iniziatrice della Nouvelle Vague. Con esso vince il Gran Premio del Film d’Avanguardia e si mette in luce per la particolare sensibilità nel trattare i personaggi che riprende nei momenti apparentemente più banali della vita quotidiana.

Molto prolifica, gira una serie di corti, per lo più documentari, e produce tutti i suoi film attraverso la società Ciné Tamaris, da lei fondata nel 1954, che le consente una completa autonomia e, in seguito, di realizzare opere delle quali cura spesso anche la fotografia e il montaggio.

Nel 1962 gira “Cleo dalle 5 alle 7”, stupendo ritratto femminile in cui tempo della finzione e tempo reale finiscono quasi per annullare ogni distanza. “Il verde prato dell’amore”, del 1965, mostra un uomo sposato che non vuole rinunciare al matrimonio nonostante abbia un’amante - la moglie si suicida e lui sposa l’altra. Nel 1966 gira “Les Creatures”, dove uno scrittore di gialli ha una strana esperienza durante il soggiorno su un’isola. Lo sperimentalismo nel montaggio e altre componenti lo rendono molto interessante per i cinefili e la critica ma poco per il pubblico medio. Deludente “L’Une chante et l’autre pas” che percorre la vita di due donne dai primi anni Sessanta fino al 1976. “Documenteurs” del 1981 è ambientato a Los Angeles, dove due esiliati si ritrovano isolati e una ragazza si innamora sulla spiaggia.

Nel 1985 vince il Leone d’oro a Venezia per “Senza tetto né legge”, interpretato da Sandrine Bonnaire.

Dopo il dittico “Kung-Fu Master” e “Jane B. par Agnès V.”, doppio ritratto dell’attrice Jane Birkin, realizza l’ottimo film-memoriale “Garage Demy”, dedicato al marito scomparso prematuramente nel 1991, il regista Jacques Demy, ripercorrendone l’infanzia e l’adolescenza a Nantes dal 1939 al 1940, durante l’occupazione nazista.

Nel 1995 presenta al Marché di Cannes “Les Cent et une nuits” dedicato al centenario del cinema e alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia “L’univers de Jacques Demy”, documentario sulla vita e l’opera del marito con partecipazioni e testimonianze di molti attori celebri: da Harrison Ford a Marcello Mastroianni.

Agnès Varda, autrice appartata e rigorosa, è una delle figure più originali e significative del cinema francese degli ultimi quarant’anni.

 

 

Da “Dolci sorelle di rabbia – Cento anni di cinemadonna” di Pino Bertelli

 

Una regista di grande bellezza eversiva è Agnès Varda. La critica e il pubblico i italiani non l’hanno amata mai molto. Anzi per nulla. E anche il film con il quale ha vinto il Leone d’Oro a Venezia nel 1985, “Senza tetto ne legge”, è stato presto dimenticato per le sue venature anarchiche. In Italia, la Famiglia, lo Stato e Dio sono ancora sacri. «Eppure non si può non essere iconoclasti. Specialmente se si è della razza che farebbe cinema anche con gli specchietti retrovisori, o anche senza specchietti, semplicemente viaggiando in moto o attraversando la città» (Enrico Ghezzi). Non c’è più bisogno né di patria né di rivoluzione per dare alle fiamme l’inutilità dello schermo... la derisione e l’indifferenza bastano a rendere innocua la stupidità generalizzata della macchina cinema.

(…) Esordisce nel cinema con “La Pointe Courte” (“La Punta Corta”), è il 1954. Alcuni studiosi, non a torto, considerano la Varda la vera iniziatrice della “Nouvelle Vague”. La storia di “La Pointe Courte” è semplice. Un uomo (Philippe Noiret) e una donna (Sylvia Monfort), dopo alcuni anni di vita insieme, si stanno per separare. L’uomo va in vacanza nel villaggio natale, un borgo di pescatori che si chiama Pointe Courte. La donna lo raggiunge. Cominciano a parlare. A passeggiare. A conoscersi più intimamente. Entrano nella vita dei pescatori di conchiglie, nella quotidianità del villaggio... due giovani si sposano, muore un bambino, i pescatori fanno festa sui canali... in chiusa del film l’uomo e la donna ritrovano il proprio amore o forse si scoprono così vicini come non erano mai stati.

François Truffaut lo recensisce per “Arts” (l’11 gennaio 1956) ma non sembra entusiasta. Coglie la bellezza del film ma denuncia la manchevolezza nella direzione degli attori, un certo “classicismo” delle inquadrature e la scrittura dei dialoghi un po’ approssimativi... però scorge anche l’insolito intreccio (che per la Varda sarà abituale) tra finzione e documentario. Di lì a poco, le opere di Claude Chabrol (Le beau Serge, 1958), François Truffaut (I quattrocento colpi, 1959), Erich Rohmer (Il segno del leone, 1959), Alain Resnais (Hiroshima mon amour, 1959), Jean-Luc Godard (Fino all’ultimo respiro, 1960)... irromperanno sul sudario bugiardo del cinema e porteranno una ventata di nuovo e diverso, là dove regnava il formalismo dell’immagine filmica e la gessatura delle storie sempre uguali, con il bacio finale.

(…) L’onda ereticale della “Nouvelle Vague” è però altro dal cinema marginale o indipendente di Agnès Varda. I suoi documentari mostrano un’attenzione quasi magica della realtà... e “Toute la mémoire du monde” (1956), “Ô saisons, ô châteaux” (1957), “L’Opéra-Mouffe” (1958), “Du côte de la Côte” (1958), Les fiancés du Pont MacDonald” (1961), “Salut les Cubains” (1963), “Elsa la rose” (1966), “Loin du Vietnam” (1967 - l’episodio della Varda e quello di Ruy Guerra saranno tagliati in sede di montaggio e la Varda non riconosce nemmeno alcune sequenze usate nel film, che è firmato da Ivens, Godard, Resnais, Lelouch, Marker e Klein), “Uncle Yanco” (1967), “Black Panthers” (1967), “Daguerréotypes” (1976), “Réponse de femmes” (1975), “Plaisir d’amour en Iran” (1977), “Mur murs” (1980), “Documenteur” (1981), “Ulysse” (1982), “Une minute pour une image” (1983), “Les dités cartiatides” (1984), “7 p. cuis., s. de b., ... à saisir” (1984), T’as de beaux escaliers, tu sais...” (1986), “Jane B. par Agnès V.” (1987), “Kung-Fu Master” (1987), “Garage Demy” (1991), “Les cent et une nuits” (1995), “L’univers de Jacques Demy” (1995), “Les glaneurs et la glaneuse” (Le raccoglitrici, 2000)... rappresentano una tessitura filmica a ventaglio, dove la creatività della Varda trascolora un cinema di coscienza in coscienza del cinema.

Il ritratto sentito e personale di “Black Panthers” è toccante, a tratti malinconico. Quasi a presagire la capitolazione del sogno di libertà e di eguaglianza tra i popoli di tutti i mondi. Questo documento sulle Pantere Nere è girato da una equipe di cineasti radicali americani coordinati dalla Varda. Ci restano immagini memorabili di Eldridge Cleaver, Bobby Seale, Stokely Carmichael e tutta un’atmosfera dell’eversione afroamericana che fuoriesce dalla prigione di Oakland, nelle strade, nei parchi, nelle riunioni in armi del movimento delle Black Panthers... È un film che segna la rivolta dello spirito dei neri sui mali mai dimenticati della coscienza dei bianchi.

«Nel cinema la mia famiglia è costituita da papà Buñuel, mamma Mészàros, il cugino Wenders, lo zio Cassavetes, il fratellastro Godard» (Agnès Varda). Ed è in compagnia di questi eretici dell’eresia che la Varda riesce a portare sullo schermo alcuni film di estrema delicatezza e di grande etica del pensiero femminile. A partire da “La Pointe Courte”, passando per “Cleo de 5 à 7” (1962), “Le bonheur” (1965), “Les créatures” (1966), “Lions Love” (1969), “Nausicaa” (il film non è mai stato proiettato perché non ha ottenuto il visto di censura per motivi politici), “L’une chante l’autre pas” (1976), “Sans toit ni loi” (1985)... il lucernario dell’infinito cinematografico della Varda, mette in discussione l’“identificazione primaria” dello spettatore obbediente al modello fallocratico che si identifica con la macchina da presa studiato da Noël Burch, il quale sostiene (a ragione) che la somma (la coltivazione) di tutti gli sguardi possibili porta a sminuire o a tagliare via l’identificazione primaria in favore della passionalità dell’anima (non solo cinematografica).

il film-specchio della Varda è “Senza tetto ne legge”. È la storia di una ragazza Mona (finemente interpretata da Sandrine Bonnaire), che vagabonda nelle strade di Francia e muore di freddo. La Varda filma i suoi silenzi. Gli incontri casuali. Il ghiaccio dell’inverno nel Meridione della Francia. La solitudine di un’anima inquieta e la libertà afferrata con la morte. La Varda ricostruisce gli ultimi mesi di vita di questa anima errante, attraverso le testimonianze, i racconti, gli aneddoti di chi l’aveva conosciuta. Il ritratto che ne esce fuori è di quelli indimenticabili. Mona non è, come è stato scritto su molta stampa specializzata, una hippy degli anni ‘80... non è nemmeno un’emarginata ma una “diversa” che si emargina da un mondo che non gli piace, che respinge, che non accetta. Il suo passaggio tra la gente provoca tensioni, abrasioni, smascherature... rompe le ipocrisie perbeniste della Francia contadina del Sud. Non è vero che Mona infrange tutte le regole e la libertà che ricerca è assoluta... la ragazza non accetta di vivere sotto nessun tetto e per questo non può accettare di osservare nessuna legge. È anarchica nel cuore e il mondo che sogna lo ha già nelle sue scarpe e nei suoi occhi di irriducibile sognatrice. Il quadro d’insieme del film è sincero, genuino, insolente contro ogni forma di razzismo... la Varda mostra l’incapacità dell’uomo (e della comunità tutta) di accettare il “diverso”... cioè tutto quanto si chiama fuori dal sentito e dal già visto. Che è l’esposizione universale della falsa coscienza. La nudità esistenziale di Mona è imbarazzante. L’innocenza del suo amore per un altrove che non c’ è, le permette di denudare anche i personaggi che incrocia nella sua breve vita. Saltano i luoghi comuni e le banalità ordinarie. Il freddo della campagna francese si staglia sul volto della Bonnaire e quel vagabondare senza una meta si trasforma in una via crucis laica, tutta al femminile che sconfessa sia i martiri che gli eroi di ogni tempo. «Quel che è saltato (non senza fratture) è proprio la contrapposizione di comodo tra individuo (libero, ben che infelice) e società (marcia, benché sazia). Nella grigia costellazione dei personaggi secondari, ci sono, al limite, solo emarginati. Per alcuni Mona trascorre via come un’idea generale, un emblema fugace, un’immagine appena abbozzata. Niente più... lei parla poco, non ha alcuna rivendicazione da fare, ha bisogno di poco e niente da dare, non accusa nessuno, e muore all’aperto» (Serge Daney). Come un angelo estremo, caduto sulla terra per caso e se ne vola via in un battito d’ali... a farsi compagna delle rose di Saffo, là dove «illuminoso amore del sole e del bello» (Saffo) raccoglie i segni del tempo nel corpo che si fa anima del tempo.

“Senza tetto ne legge” è un’opera grande. Di quelle alle quali ritornare sempre. Come per Buñuel, Vigo, Godard, Ozu, Straub o Kluge… la straordinaria fotografia essenziale di Patrick Blossier, il montaggio aritmico di Patricia Mazuy (e della stessa Varda), la musica malinconica di Joanna Bruzdowicz, la secchezza dei dialoghi (sovente fulminanti, altre volte metaforici, surreali...), intrecciati alle inquadrature sinfoniche della Varda... dipanano un film di rara finitezza estetica che è anche un canto, forse disperato, sulla solitudine dell’intelligenza. «È difficile trovare la propria identità femminile nella società, nella vita privata, nei rapporti con il proprio corpo. Questa ricerca di una identità ha un senso per una cineasta: significa anche girare in quanto donna... Credo che “Senza tetto ne legge” sia un film riuscito. E lo dico senza falsa modestia, perché dopo trent’anni che faccio cinema trovo sia il film in cui è meglio realizzata la mia idea di un cinema di fiction su base documentaria» (Agnès Varda). Più ancora, “Senza tetto ne legge”, che la Varda voleva titolare “À saisir” (Qualcosa da afferrare), è un viatico che induce a non cercare niente intorno a noi ma a trovare qualcosa in ciascuno per la quale valga la rottura o l’ardire di vivere o morire.

La cinescrittura della Varda trapassa il documentario e sborda nella finzione (contaminandola di trappole estetiche) ma ciò che affabula sullo schermo è sempre il cuore del cinema che si libera dalle catene delle convenzioni e desacralizza il mondo e la storia che è lì, davanti allo spettatore, defraudato della propria fantasia da cent’anni di cinema merce. «Il cinema ha bisogno di uomini e donne audaci, capaci di cogliere l’imbecillità e la bellezza nella realtà della vita» (Agnès Varda). Ecco perché la Varda fabbrica un cinema che è sogno e nel contempo anche “menzogna”. Perché va oltre “l’irreale della realtà”… per andare a interrogare il colore della paura e a far scaturire là dove la verità muore, la trasformazione della realtà in immaginario. Le metonimie, i sottintesi, le fantasie arbitrarie sono molte e disseminate in ogni pezzo di pellicola del suo cinema... e i suoi personaggi – sia quelli documentari, sia quelli del cinema di finzione - sono sempre figure al margine o in estremità dell’esistenza. I suoi film sono zattere che vanno incontro a una vita cruda, senza temere il dolore del commiato o una visione insurrezionale al femminile tutt’ ancora da giocare. Ogni film (come ogni opera d’arte) è prima di tutto l’eco di un sogno perduto o una sorta di atopia socratica sul rovesciamento del sentire che porta, in filigrana, verso la liberazione dionisiaca dell’innocenza.

 

 

FILMOGRAFIA ESSENZIALE


DOCUMENTARI
01
Toute la mémoire du monde (Tutta la memoria del mondo, 1956)
02
Ô saisons, ô châteaux (O stagioni, o castelli, 1957)
03
L’Opéra-Mouffe (L’opera-muffa, 1958)
04
Du côte de la Côte (Dalla parte della costa, 1958)
05
La cocotte d’azur (La cocotte azzurra, 1959)
06
Les fiancés du Pont MacDonald (I fidanzati di Ponte MacDonald, 1961)
07
Salut les Cubains (Salve ai cubani, 1963)
08
Christmas Carol (1965)
09
Loin du Vietnam (1967)
10
Uncle Yanco (Zia Yanco, 1967)
11
Black Panthers (Pantere nere, 1967)
12
Réponse de femmes (1975)
13
Plaisir d’amour en Iran (1977)
14
Mur murs (1980)
15
Ulysse (1982)
16
Une minute pour une image (1983)
17
Les dités cariatides (1984)
18
7 p. cuis., s. de b., ... à saisir (1984)
19
T’as de beaux escaliers, tu sais... (1986)
20
Jane B. par Agnès V. (1987-88)
21
Kung-Fu Master (1987-88)
22
Jacquot de Nantes (Garage Demy, 1991)
23
Les cent et une nuits (Le cento e una notte, 1995)
24
L’univers de Jacques Demy (L’universo di Jacques Demy, 1995)
25
Les glaneurs et la glaneuse (Gli spigolatori e la spigolatrice, 2000)
FICTION
01
La Pointe Courte (La punta corta, 1954-55)
02
Cleo de 5 à 7 (Cleo dalle 5 alle 7, 1962)
03
Le bonheur (Il verde prato dell’amore, (1964-65)
04
Les créatures (Le creature, 1966)
05
Elsa la rose (1966-67)
06
Loin du Vietnam (Lontano dal Vietnam, 1967)
07
Lion’s Love (L’amore dei leoni, 1969)
08
Nausicaa (1970)
09
Daguerréotypes (1975-76
10
L’une chante l’autre pas (Una canta e l’altra no, 1976-77)
11
Documenteur (Documentaristi, 1981)
12
Sans toit ni loi (Senza tetto né legge, 1985)

 

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