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“BREVE STORIA DEL CINEMA” |
Negli anni Settanta la cinematografia degli Stati Uniti d’America conosce un profondo rinnovamento grazie alle produzioni indipendenti e ad autori come J. Cassavetes, D. Hopper, Robert Altman, Woody Allen, P. Bogdanovich, Francis Ford Coppola, Brian De Palma, S. Peckinpah, A. Penn, A. Pakula, William Friedkin, S. Pollack, Bob Rafelson, Martin Scorsese, Philip Kaufman, M. Cimino. Sono costoro a ricodificare profondamente i modelli della finzione cinematografica (ripensando e rielaborando inesauribilmente il cinema classico) e a mettere a punto complesse rappresentazioni della realtà contemporanea che risentono dell’influenza europea, istituendo inoltre un nuovo star system (A. Pacino, R. De Niro, D. Hoffman, Jane Fonda, R. Redford) che integra con abilità i maggiori attori delle generazioni precedenti (M. Brando, P. Newman, R. Mitchum).
Negli anni Settanta, quindi, si registra anzitutto, dopo un ridimensionamento strutturale, la piena ripresa del cinema statunitense, con i supercolossi affidati ai giovani emersi dalla contestazione e con i conseguenti riflessi sui Paesi nuovamente invasi dai suoi prodotti. Nella Repubblica Federale di Germania l’ondata dei nuovi cineasti (Herzog, Wim Wenders, Fassbinder) si trova all’avanguardia culturale e artistica in campo internazionale, mentre fatica ad imporsi in quello nazionale. Insieme con le ulteriori conferme dei grandi del passato, nomi inediti sono sbocciati: dopo la rivelazione del cinema svizzero, è esploso in Grecia il talento di Th. Angelopoulos e nuove fasi storiche si sono aperte in Portogallo e in Spagna, anch’essi liberatisi dalle rispettive dittature. Nell’area socialista un solido punto di riferimento continua a essere l’Ungheria, mentre interessanti sviluppi si sono avuti in Bulgaria e in Polonia (Wajda, Zanussi). Sul quadrante sovietico, da Mosca a Leningrado, rimaste le capitali tradizionali, l’interesse degli osservatori si è andato accentuando verso le repubbliche periferiche, meridionali e caucasiche in primo luogo. Emerge, riscuotendo enorme successo, il cinema australiano (Peter Weir, B. Beresford), che mostra subito alta qualità e professionalità. Per quanto riguarda l’Asia, nessun discorso unificante è possibile: tra Cina, Giappone e India le distanze sono abissali. Nella Repubblica Popolare Cinese si è tornati a produrre film dopo la parentesi della Rivoluzione culturale: ideologicamente accentuati quelli del periodo della “banda dei quattro”, più sfumati ma forse più eloquenti i “melodrammi socialisti” attuali. In Giappone l’esponente più prestigioso, Kurosawa, ha potuto risalire la china con l’aiuto sovietico (“Dersu Uzala”, 1975) e americano (“Kagemusha”, 1980); Oshima si è visto interdire in patria “L’impero dei sensi” (1976), prodotto con capitali francesi. In India si è invece raggiunto il record della produzione annua, con oltre 700 film: continua il magistero di S. Ray, cui si affianca M. Sen. Drammatiche voci si sono fatte udire dalla Turchia, dove l’attore-regista Y. Güney è incarcerato (Palma d’oro a Cannes con “Yol”, dopo una fuga avventurosa muore a Parigi nel 1984), e dall’Iran, prima della cacciata dello scià e anche dopo. Altrettanto meritoria la presenza, spesso militante come nei documentari palestinesi, di un cinema arabo che spazia dal Vicino Oriente all’Africa settentrionale; mentre anche il continente nero, nella sua battaglia contro il neocolonialismo interno e straniero, si è avvalso di film importanti, dal Senegal all’Etiopia, come di testimonianze girate tra l’emigrazione, specie a Parigi e a Londra.
In Italia gli anni Settanta vedono i grandi autori del dopoguerra dare ancora salda testimonianza della propria presenza: da De Sica (“Il giardino dei Finzi Contini”, 1971) a Rossellini che inizia a sperimentare programmi storico-didattici per la televisione; da Visconti (“Morte a Venezia”, 1971) a Fellini (“Amarcord”, 1973), ad Antonioni (“Professione reporter”, 1975), mentre giungono a maturità espressiva, sulla scia delle utopie liberatorie del decennio precedente, registi come Bertolucci (“Ultimo tango a Parigi”, 1972) e Ferreri (“La grande abbuffata”, 1973). Anche in campo internazionale, peraltro, continua l’opera di maestri delle generazioni passate come Hitchcock (“Frenzy”, 1972), Buñuel (“Il fascino discreto della borghesia”, 1972), Bergman (“Scene da un matrimonio”, 1974), Kurosawa (“Dersu Uzala”, 1975). Mentre in Germania si fa intanto largo una generazione di registi (Rainer Werner Fassbinder, W. Herzog, Wim Wenders, Margarethe von Trotta) che, nel solco dello Junger Deutscher Film, s’imporrà sul mercato internazionale con film dallo stile raffinato e metaforico e dal contenuto spesso duramente polemico nei confronti del sistema sociale tedesco, in Australia si mette in luce un gruppo di registi (P. Noyce, B. Beresford, F. Schepisi e Peter Weir) di solida professionalità.
Nella seconda metà degli anni Settanta in Italia si ha l’esordio di una nuova generazione di registi quali P. Avati, Nanni Moretti, P. Del Monte, G. Amelio, Salvatore Piscicelli, e all’inizio del decennio successivo quello di autori-attori per lo più provenienti dal cabaret e dalla televisione, come R. Benigni, C. Verdone, M. Troisi. Caratteristica comune di questa nuova cinematografia è il trovarsi ad operare in una realtà profondamente condizionata dalla proliferazione incontrollata dell’emittenza televisiva liberalizzata nel 1976, alla quale si deve sia la brusca contrazione del mercato, sia la notevole difficoltà degli spazi di sperimentazione, e ciò malgrado l’appoggio produttivo cui la RAI si era impegnata fin dagli anni passati.
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