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“BREVE STORIA DEL CINEMA”
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Prima che di colore, nella storia del cinema si deve parlare di colorazione. Eseguita a mano fotogramma per fotogramma, con procedimenti empirici tra cui il viraggio, l’imbibizione, ecc., essa è presente fin dalle origini: Reynaud, Edison, Lumière, Méliès, Pathé, tutti hanno colorato o tinteggiato qualche loro film o qualche parte di esso. Dal caratteristico giallognolo delle pellicole Lumière si passò alla tinteggiatura in funzione spettacolare dei colossi storici come “Cabiria” (1914). Contemporaneamente, da diverse parti si studiarono i primi procedimenti meccanici, spesso tutt’altro che pratici, di cromocinematografia per sintesi additiva di due o tre colori essenziali. Dopo il Kinemacolor di G. A. Smith, uscito dalla “scuola di Brighton” e lanciato in commercio verso il 1910, dopo il Prizma Process dello statunitense W. Van Doren Kelley, adottato da J. Stuart Blackton per due grossi film in Gran Bretagna (1922-23), s’impose il procedimento Technicolor, sperimentato negli anni Dieci da Herbert e Natalie Kalmus e adottato nel decennio successivo col sistema bicromico non additivo, ma sottrattivo (come nel “Pirata nero”, 1926, di A. Parker con D. Fairbanks). La prima fase, dopo diversi musicals, si chiuse nel 1933 con “La maschera di cera”, di Michael Curtiz. La fase tricromica si aprì invece nel 1932 con le “Silly Symphonies” di Walt Disney e proseguì col mediometraggio “La Cucaracha” (1934) di L. Corrigan e con “Becky Sharp” (1935) di Rouben Mamoulian, film famoso per i suoi mantelli rossi e dal quale ebbe inizio la vera storia del film a colori.
Negli U.S.A. e in Gran Bretagna il sistema Technicolor dominò negli anni Quaranta e Cinquanta, fino a quando si reputò più pratico, almeno per la ripresa se non per la stampa, il sistema semplificante detto monopack (a negativo unico triemulsionato) che sostituì il vecchio tripack nei procedimenti Eastmancolor, Anscocolor e altri.
Negli anni Quaranta si affermò in Europa il procedimento tedesco Agfacolor, prima in Germania e poi, modificato e perfezionato nel Sovcolor, in U.R.S.S., dove anche S. Ejzenstejn girò a colori la sequenza del banchetto nella “Congiura dei boiardi”. Sono inoltre da citare il Kodachrome, il Gevacolor belga e, per l’Italia, il Ferraniacolor, che ebbe impiego su larga scala a partire dagli anni Cinquanta.
Sotto il profilo estetico, il cromofilm subì nei primi tempi una crisi qualitativa analoga a quella del fonofilm: la ricerca del cosiddetto colore “naturale”. L’influsso della pittura (l’“Enrico V” di L. Olivier aprì nuovi orizzonti nel 1945), del mondo favolistico (“Il fiore di pietra”, 1946, sovietico), della fantasia richiesta dal film d’animazione e del gusto figurativo e compositivo espresso da grandi registi come Ejzenstejn, A. Dovzenko, V. Pudovkin, J. Renoir, L. Visconti, Michelangelo Antonioni, certi giapponesi ecc., ha stimolato il superamento della fase naturalistica della cartolina illustrata in tricromia, sollecitando l’impiego del colore in funzione creativa, alla stessa stregua di altri elementi fondamentali.
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