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“BREVE STORIA DEL CINEMA”
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Nella scia della Resistenza il dopoguerra porta il neorealismo, fenomeno che mette il cinema all’avanguardia della cultura, non solo italiana. Praticamente senza produttori, con attori presi dalla strada, i film di Roberto Rossellini, di Vittorio De Sica, di Luchino Visconti esprimono della nazione ciò che il fascismo aveva umiliato e nascosto. Dire la verità diventa così un imperativo morale, come rendere protagonisti gli sfruttati, gli abbandonati, i deboli. Per la prima volta si vedono le cose al di là della facciata ufficiale. All’immediatezza di questa tendenza, che produce dovunque una scossa salutare, fanno riscontro, quali modelli di un’arte di élite, “Les enfants du paradis” (1943-45) di Carné, l’“Enrico V” (1945) di L. Olivier, “Ivan il Terribile” di Ejzenstejn. Si discute di una “terza via” del cinema, ma la via che s’impone è soprattutto quella della constatazione autocritica, dell’esame e della presa di coscienza dopo gli orrori che l’umanità ha sopportato.
Dopo la seconda guerra mondiale l’Europa cambia fisionomia: rinasce, o più sovente nasce, il cinema nei Paesi di nuova democrazia. Polonia, Repubblica Democratica Tedesca, Cecoslovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania, Iugoslavia, nazionalizzano la produzione e battono strade comuni nel privilegiare certi generi ritenuti secondari e resi impossibili dal profitto privato, come il film d’animazione, il film per ragazzi, il film di divulgazione scientifica; generi, d’altronde, sviluppatissimi in U.R.S.S. Alla Mostra di Venezia del 1947 la Cecoslovacchia ottiene i premi principali e c’è tra essi quello a J. Trnka, che si annuncia maestro mondiale del film di pupazzi. La Repubblica Democratica Tedesca, con W. Staudte e S. Dudow, inizia l’esame autocritico che la Repubblica Federale di Germania rimanderà fino agli anni Sessanta. La Polonia nelle rovine e nei campi di sterminio, la Iugoslavia nella guerra partigiana, l’Ungheria nel feudalesimo agrario e nella rivolta dei contadini, fissano i temi predominanti delle loro cinematografie. E tuttavia, nonostante le caratteristiche nazionali (Slovacchia, Bulgaria, Romania partono praticamente da zero), il comune stampo di realismo socialista influisce negativamente su uno sviluppo autonomo. L’U.R.S.S., infatti, conosce un momento di stasi e quasi d’impotenza a causa del soffocante “culto della personalità”. L’ultimo film di Pudovkin, “Il ritorno di Vasili Bortnikov” (1953), ha un valore di premonizione. Il 1956 e il XX Congresso del P.CINEMAU.S. sbloccano parzialmente la situazione, aprendo un periodo di disgelo in cui si affermano G. Cuchraj, M. Chuciev e gli anziani M. Kalatazov e M. Romm. La Polonia prima (con i film di A. Wajda, J. Kawalerowicz, A. Munk), la Cecoslovacchia e l’Ungheria successivamente, registrano i momenti migliori del loro cinema. Tra i Paesi occidentali europei, l’unico movimento nazionale è il neorealismo italiano. La Francia sembra imboccare la strada resistenziale con “La bataille du rail” di R. Clément (1946), ma rinuncia presto per un eclettismo in cui ciascuna individualità e ciascuna corrente coesistono, da R. Bresson a J. Becker, da C. Autant-Lara a Henry-George Clouzot. Mentre il magnate A. Rank tenta di gareggiare con Hollywood come già il suo predecessore A. Korda, la Gran Bretagna pulitamente allinea il filone shakespeariano, l’intimismo piccolo-borghese, l’umorismo nero di “Sangue blu” (1949, di R. Hamer) e del trasformista A. Guinness. Influenzato dal neorealismo, negli anni Cinquanta emerge dal letargo, con J. A. Bardem e L. G. Berlanga, il cinema spagnolo. Intanto la Danimarca vanta il suo Dreyer e la Svezia vara il suo Bergman. Nell’America Latina, il Messico ha goduto una felice parentesi coi film di E. Fernández fotografati da G. Figueroa, mentre nel 1950, con “Los olvidados”, l’esule Buñuel rientra sulla scena internazionale. L’Argentina prosegue i suoi robusti melodrammi tradizionali (talvolta a sfondo sociale) prima che L. Torre-Nilsson cominci a fare i conti con la sua borghesia. Il Brasile registra il successo di “O cangaceiro” (1953, di Lima Barreto), il tentativo della “Vera Cruz”, il ritorno in patria del suo cineasta più illustre, A. Cavalcanti, che aveva partecipato all’avanguardia francese e al documentarismo britannico. Nel 1951 Rashomon di A. Kurosawa vince il Leone d’oro alla Mostra di Venezia. Il cinema giapponese non è più un mistero per l’Occidente, che nei suoi festival laurea a più riprese Mizoguchi, Kurosawa, T. Imai, K. Shindo e altri. La Cina, che nella seconda metà degli anni Quaranta ha concluso il periodo pre-liberazione, nel 1950 è già in grado di presentarsi al festival di Karlovy Vary con le prime ardenti epopee della Repubblica Popolare. Sempre ai festival filtrano notizie e film di altre cinematografie asiatiche: l’indonesiana, la coreana, la vietnamita.
Da prima della guerra Hollywood ha introdotto il colore, che nel dopoguerra trova applicazione sempre più frequente dovunque, specie nelle costruzioni spettacolari e, s’intende, nel film d’animazione dove il predominio di Disney comincia a vacillare. Va però notato che ancora per diverso tempo (e in certi casi praticamente fino a oggi) i movimenti più avanzati, gli artisti più personali, le cinematografie dei nuovi continenti e quello che negli anni Sessanta si chiamerà il Nuovo Cinema internazionale rimangono in prevalenza fedeli al bianco e nero. Così i vari sistemi di schermo panoramico, dal cinemascope al cinerama, annunciano rivoluzioni che si risolvono regolarmente in arretramenti tematici e di gusto. Ciò vale anche per l’Unione Sovietica e per la Cina. La stessa produzione statunitense più seria, quella che riflette situazioni di emergenza, squilibri psicologici del dopoguerra e crisi generazionali, procede su binari modesti. In bianco e nero e formato normale sono non soltanto gli ultimi film di Flaherty e di Chaplin, ma tutti i migliori della pattuglia americana di punta (William Wyler, B. Wilder, John Huston, Edward Dmytryk, J. Dassin, Fred Zinnemann, E. Kazan, Robert Aldrich, N. Ray, R. Brooks e altri), nonché “Il sale della terra” realizzato nel 1953 con la più limpida audacia sociale da H. J. Biberman, uno dei Dieci di Hollywood imprigionati dal maccartismo. Si può affermare che il largo schermo, anche a colori, viene adottato per la prima volta con una certa funzionalità, per ospitarvi le nevrosi dei rappresentanti della gioventù bruciata (e della scuola di recitazione dell’Actors’ Studio) impersonati da M. Brando e J. Dean. Naturalmente i mezzi più spettacolari sono impiegati quasi subito per glorificare le ultime versioni dell’eterno femminino: B. Bardot, M. Monroe, le maggiorate fisiche italiane.
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