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“IL CINEMA D'ANIMAZIONE” |
L’idea di creare in proiezione l’illusione del movimento è precedente al cinema: con il “prassinoscopio” (1876) e il “teatro ottico” Émile Reynaud l’aveva anticipata in Francia.
Precursore del cinema d’animazione può dirsi Georges Méliès, che con i suoi trucchi fantastici e visionari ne alimentò lo slancio; mentre un terzo francese, Émile Cohl, coi tratti semplicissimi del suo disegno e i suoi fantocci elementari, ne pose genialmente, nei primi anni del Ventesimo secolo, le fondamenta artistiche. Tuttavia il fenomeno si sviluppò soprattutto negli U.S.A., sulla base dei fumetti disegnati a strisce, e s’industrializzò con la potente e sempre più perfezionata macchina disneyana.
Il disegno animato classico, di marca hollywoodiana, con le sue diramazioni tradizionali e letterarie in Francia, U.R.S.S., Giappone, monopolizzò a lungo il campo; cosicché le sperimentazioni di altre tecniche e forme ebbero caratteri di nobiltà ma anche di rarità, quando non furono inglobate e banalizzate dall’industria. Nel 1926, con “Le avventure del principe Achmed”, la tedesca Lotte Reineger aveva già portato alla perfezione il sistema delle “ombre cinesi” con figurette ritagliate su cartoncini neri, ripreso molti anni dopo dalle silhouettes del connazionale Bruno J. Böttge.
Precorrendo l’animazione multiplanica poi adottata dagli stabilimenti Disney, Berthold Bartosch animò con l’ombra e la luce i disegni espressionisti di Franz Masereel disposti su piani di vetro paralleli (“L’idée”, 1931). Col suo “schermo a spilli” A. Alexeieff creò un affresco surreale in “Una notte sul Monte Calvo” (1933), visualizzando le composizioni di Musorgskij che servirono poi anche a Disney (“Fantasia”) e ai Giapponesi per saggi d’interpretazione grafico-musicale. Oskar Fischinger era stato il maestro delle sinfonie musicali astratte; l’inglese Len Lye fece danzare il lambeth walk a Hitler e ai suoi gerarchi (1941) alterando il ritmo di un cinegiornale d’attualità; il cecoslovacco Zdenek Miler suggerì l’impressione del movimento accostando tra loro disegni statici (“Il milionario che rubò il sole”, 1948).
Ma il procedimento più rivoluzionario, che pur tornava in parte alle origini e alle intuizioni del pioniere Reynaud, fu quello di disegnare e incidere le stesse immagini e il suono direttamente sulla pellicola, abolendo così non soltanto la ripresa fotogramma per fotogramma, tipica dei disegni animati, ma la cinepresa stessa. I primi esperimenti di questo tipo furono compiuti sul suono da Pfenninger in Svizzera e perfezionati da tecnici sovietici attorno al 1930; le prime prove con l’immagine risalgono a “Len Lye” (“The Colour Box”, 1935).
Tuttavia è alla scuola canadese, e al suo massimo esponente Norman McLaren, che si devono in tale campo i risultati più continui e audaci, le sintesi astratte più pure. Del resto, anche per reazione al figurativo imperante nella produzione corrente, l’astratto e l’informale si sono diffusi un po’ dovunque, così da trasformare il disegno animato di un tempo in una sorta di “pittura plastica in movimento”: in Canada George Dunning (The Flying Man, 1962) rappresentò la stessa forma nell’atto di autocrearsi e McLaren (“Mosaic”, 1965) toccò limiti difficilmente valicabili, mentre negli U.S.A. Stan Brackage e altri animarono i collages più folli, rinunciando alla “camera”, negando ogni tecnica tradizionale e mescolando le materie più inverosimili.
Ma queste punte estreme, che avvicinano il cinema d’animazione all’arte più spericolata, s’inseriscono in un contesto assai largo, che verso la fine degli anni Cinquanta travolse l’ipoteca disneyana aprendo la via a nuove e libere possibilità espressive. Un primo scossone si era avvertito negli stessi U.S.A. con il movimento “U.P.A.” capeggiato da Stephen Bosustow e illustrato dalle personalità di John Hubley e di Robert Cannon, ma fu in Europa che si raccolsero i frutti, sia per mano di Americani esuli (come lo stesso Hubley che vi sviluppò la sua visione “cosmica”), sia per il fiorire di forti individualità in molti Paesi e di vere e proprie scuole nazionali. Fra le tante scuole, sono da ricordare: la cecoslovacca con Jirí Trnka, il maestro del film di pupazzi, e Karel Zeman, autore della “Diabolica invenzione” (Gran Premio 1968 all’Esposizione di Bruxelles); la iugoslava con Dusan Vukotic (premio Oscar con “Surogat”, 1961) e Vatroslav Mimica; la polacca con Jan Lenica e Walerian Borowczyk, entrambi provenienti dal cartellonismo cinematografico migliore del mondo; e poi la romena con Ion Popescu-Gopo, la ungherese con Gyula Macskássy, la bulgara con Todor Dinov, ecc. Tutti Paesi che avevano nazionalizzato il cinema, come già l’U.R.S.S., consentendo al settore dell’animazione quelle cure statali sconosciute altrove (e parzialmente presenti solo in Canada, al National Film Board voluto da Grierson). Ciò ha favorito uno sviluppo e una continuità di cui non hanno goduto né la Gran Bretagna, dove pure si formò un cospicuo gruppo d’artisti (in prevalenza inglesi di adozione) quali le coppie John Halas-Joy Batchelor, Joan e Peter Foldes e il notevole trio George Dunning (autore nel 1968 del lungometraggio “Yellow Submarine” dedicato ai Beatles), Richard Williams, Bob Godfrey; né la Francia, in cui si ebbe fin dagli anni Quaranta il contributo di Paul Grimault (che firmò nel 1950 il lungometraggio “La pastorella e lo spazzacamino”) e dove nel 1973 si raggiunse un duplice vertice (animazione e fantascienza) con “Il pianeta proibito” di René Laloux e Roland Topor; né il Belgio che vanta Raoul Servais (“Pegasus”, 1973). Le condizioni oggettive, qui come in Italia, hanno sempre ostacolato (e continuano ad ostacolare) il lavoro così complesso, e niente affatto “minore”, in un campo che dovrebbe essere quello della libertà più completa (dall’ispirazione alla distribuzione); cosicché i “precursori” rimangono eternamente tali e, anche se ottengono stima internazionale come Bruno Bozzetto (“Allegro ma non troppo”, 1977), non possono abbandonare l’attività pubblicitaria se vogliono sopravvivere. Ben diverso è il caso, per esempio, della “scuola di Zagabria” che, dopo aver puntato sulla polemica civile, si è ingrossata al punto di poter scandagliare ogni dimensione dell’esistenziale e del surreale, del farsesco e del tragico, nell’opera di autori quali Ivo Urbanic, Ante Zaninovic, Vlado Kristl, Nedeljko Dragic, e più recentemente Aleksandar Marks (spesso in coppia con Vladimir Jutrisa, come nel film del 1976 “Incubo”), Zlatko Grgic e Zdenko Gasparovic. Similmente in Polonia si è avuta negli anni Sessanta e Settanta una fioritura eccezionale, imperniata sull’incisività grafica, la fantasia coloristica, l’umorismo spietato dei cortometraggi di Witold Giersz, Daniel Szczechura, Miroslaw Kijowicz, Stefan Schabenbeck, Ryszard Czekala. Nomi che dicono poco o niente al comune spettatore di casa nostra, ancora soggetto al monopolio Disney attraverso i prodotti confezionati con la sua sigla, mentre al pubblico adulto si riservano al massimo i cartoons erotici, come “Fritz il pornogatto” (1971) di Ralph Bakshi.
Di segno adulto, corrosivo e sarcastico, è tutta l’arte del cinema d’animazione moderno, le cui doti di sobrietà, laconicità, rarefazione segnano un ritorno quanto mai indicativo alla semplicità e alla icasticità dei primi sperimentatori. In America come in Giappone, in Europa come nel Terzo Mondo, perfino nell’U.R.S.S. dove la lezione illustrativa del decano I. Ivanov-Vano (“La battaglia di Kerzence”, 1971) è approdata alle brillanti satire di Fëdor Chitruk (“L’isola”, 1973; “Icaro e i saggi”, 1977), oggi si tende a reagire alle favole per bambini o al dignitoso moralismo didattico di un tempo, che pure predomina tuttora sugli schermi e sui teleschermi italiani. È un’arte, quella proveniente dal Canada o dall’Est europeo, ma anche dal Vicino e dal Lontano Oriente, dalla nouvelle vague svizzera o dalla nuova avanguardia tecnologica statunitense, la quale ritrova un’immediatezza e una forza polemica che sembravano travolte dal meccanismo e dal virtuosismo. Allargando l’uso dei materiali, tornando a tecniche antiche o ricorrendo all’impiego del computer, essa si avvale di oggetti e di uomini, di grafismi mai visti, di diagrammi e di modellini, di sogni e di fonti scientifiche; di materie insolite come la polvere o la sabbia; dopo che Ernest e Gisèle Ansorge, in Svizzera, hanno “animato” la polvere a partire da “I corvi” (1968) in suggestivi ricami filosofici, negli U.S.A. Caroline Leaf si è basata sulla sabbia, opportunamente rischiarata dal basso, per restituire in “La metamorfosi del signor Samsa” (1976) il mondo kafkiano; e così ha fatto il canadese Hoedeman, appunto in “Castello di sabbia” (1977). È un’arte che propone nuovi dinamismi ma non disprezza l’immobilità, aggredisce colori e suoni, confonde e rimescola i linguaggi. Un’arte che riflette insomma, con sarcasmo o con pietà, le suggestioni, i drammi e le stravaganze di un universo dominato dalla tecnologia, le cui comunicazioni saranno totalmente mutate dall’elettronica.
Intanto, mentre avanguardie creative hanno ricercato con notevole capacità critica nuove vie tra tecnologie avanzate e la fiction narrativa – da ricordare nell’ambito dell’animazione applicata al computer i lavori di John Lasseter: “Luxo jr.” (1986) e, in coppia con William Reeves, “Tin Toy”, Premio Oscar 1989 –, la fine degli anni Ottanta ha segnato, oltre all’affermazione personale di Don Bluth che sotto la supervisione produttiva di Spielberg ha realizzato i fortunati “Fievel sbarca in America” (1987) e “Alla ricerca della valle incantata” (1988), il trionfo su scala mondiale di “Chi ha incastrato Roger Rabbit”, regia di Robert Zemeckis, uno dei più grandi successi di tutti i tempi nell’ambito del cartone animato e del cinema in genere: una coproduzione Spielberg-Walt Disney a tecnica mista e con le straordinarie animazioni realizzate da Richard Williams.
Tra i film d’animazione dei primi anni Novanta segnaliamo “Zio Paperone alla ricerca della lampada perduta” (1990) di Bob Hathcock, “Hook Capitan Uncino” (1991) di Steven Spielberg, “La morte ti fa bella” (1992) di Robert Zemeckis, esempio di cinema in cui la tecnica mista tra computer e fiction narrativa ha trovato una perfetta coniugazione, “Tom e Jerry” (1992) di Phil Roman, “Aladdin” (1993) di John Musker e Ron Clements e “Il Re Leone” (1994).
Oltre allo sviluppo di tecniche d’animazione mediante il computer, va anche segnalato il recupero dell’uso di pupazzi o materiali concreti animati a passo uno. In questo senso, i risultati più eccellenti sono stati ottenuti da Danny Elfman, che, con l’ispirazione di Tim Burton, ha firmato un eccellente “Nightmare Before Christmas” (1994), e dal britannico Nick Park, creatore della pluripremiata (con Oscar) serie di “Wallace & Groomit” (1989). Dal Giappone arriva il fenomeno “Manga”, cartone animato destinato ad un pubblico adulto per i suoi contenuti spesso violenti quando non erotici, che ha espresso animatori e creatori di classe assoluta, specialmente nel sottogenere dedicato alla fantascienza (Katsuhiro Otomo con “Akira”, 1989; Mamoru Oshii con “Ghost in the Shell”, 1996).
Negli Stati Uniti nasce una nuova serie di cartoni animati i cui protagonisti sono cinici, volgari, razzisti e usano un linguaggio violento e scurrile. Si tratta di “South Park” (1998), cartone scritto, disegnato e diretto da Matt Stone e Trey Parker.
Tra i film d’animazione più recenti si ricorda “Anastasia” (1998), di Don Bluth e Gary Goldman.
IL DISEGNO ANIMATO
Film di corto o lungo metraggio a disegno animato (detto anche, con traduzione fonetica dell’inglese cartoon, cartone animato) che, in proiezione, risultano animati per il fenomeno della persistenza delle immagini sulla retina.
Il procedimento “immagine per immagine”, tipico del disegno animato, ha preceduto la stessa invenzione del cinema e ne ha illustrato i primi passi artistici. Tuttavia, nonostante il valore intrinseco dei molti pionieri dell’animazione in varie parti del mondo (Francia, U.S.A., Gran Bretagna, Germania, Russia prerivoluzionaria), il disegno animato è stato sempre considerato, almeno fino a Walt Disney che seppe imporlo sul piano industriale, un prodotto minore rispetto al film con attori. Attività sporadiche, spesso misconosciute e talvolta condotte con aspri sacrifici, ne hanno costellato l’ascesa nei primi decenni; negli anni Trenta Disney monopolizzò il genere, passando dalle brevi pellicole di “Topolino” al lungometraggio di “Biancaneve e i sette nani” (1937) e fondando un vero e proprio impero personale; quindi anche l’U.R.S.S., il Canada e, nel secondo dopoguerra, le democrazie popolari passarono al disegno animato con una produzione continuativa.
Adottato all’epoca dei primi shorts sonori quale riempitivo dello spettacolo (sostituendo la comica finale del muto), il disegno animato ha più volte tentato col lungometraggio l’affermazione autonoma, raramente ottenuta a causa degli altissimi costi di produzione. Ne consegue che i migliori artisti del disegno animato, talora raggruppati in vere e proprie scuole (quella di Zagabria, la canadese, la polacca, ecc.), continuano prevalentemente ad esprimersi in pochi minuti di proiezione. Negli ultimi decenni la tecnica e la storia del disegno animato hanno teso a confluire in quelle più vaste e varie del cinema d’animazione in genere.
I PUPAZZI ANIMATI
Settore del cinema d’animazione che, invece di disegni, “anima” pupazzi, fantocci o marionette di varia specie, con un lavoro tecnicamente assai più complesso di quello dei cartoons, in quanto il movimento non si può ottenere in giustapposizione, ma va realizzato progressivamente all’atto stesso della ripresa.
Tra i pionieri del procedimento S. de Chomón (“Hotel eléctrico”, 1905), J. S. Blackton (“The Haunted Hotel”, 1907), E. Cohl (“Le tout petit Faust”, 1910), che animarono oggetti tridimensionali anche con trucchi. Ma il vero iniziatore fu il russo di origine polacca L. Starevitch che dal 1911 nella Russia zarista e negli anni Venti in Francia perfezionò artigianalmente il genere coi suoi film su animali (tra cui il lungometraggio sonoro e parlato “Le roman de renard” (Una volpe a corte, 1928-38), creando in seguito anche il pupazzo “umano” Fétiche.
Al 1935 risale in U.R.S.S. i nuovo “Gulliver” di A. Ptusko, al 1936 “The Birth of a Robot” di L. Lye in Gran Bretagna, al 1938 “Barbe-Bleue” di J. Painlevé e R. Bertrand in Francia, al 1939 “Aladino e la lampada magica” dell’ungherese G. Pál (poi attivo negli U.S.A. con “Tubby the Tuba”, 1947) in Olanda, dove il suo seguace J. Geesink realizzò dal 1941 una serie di film spesso premiati ai festival internazionali (“Big Four”, 1947; “Galaconcert”, 1951; “Kermesse fantastique”, 1951) insieme con quelli del norvegese I. Caprino e di altri volonterosi di diversi Paesi. Ma tutti questi furono sempre tentativi parziali o sporadici. Solo in Cecoslovacchia, grazie alla tradizione marionettistica e alla nazionalizzazione del cinema (e di questo particolare settore), il film di pupazzi trovò nel secondo dopoguerra sviluppo industriale, si elevò ad arte completa e offrì al mondo, con l’opera di J. Trnka e di K. Zeman, i suoi primi poeti.
Breve storia del cinema…
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