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“BREVE STORIA DEL CINEMA” |
Con gli anni Ottanta il panorama internazionale del cinema si allarga ulteriormente e si fa più complesso. Nuovi Paesi si affacciano (dal Camerun al Costa Rica, dalla Nuova Zelanda all’Islanda), il cinema fiorisce in luoghi di libertà limitata (Filippine, Corea del Sud) e si prende una rivincita dove s’accendono barlumi di democrazia (Argentina, Brasile). Scompaiono purtroppo grandi nomi, come Huston, Buñuel, Losey, Tarkovskij, Fassbinder, Truffaut, Rocha, il ricordato Güney; Bergman apparentemente si congeda con “Fanny e Alexander”, ma proseguono trionfalmente decani come Oliveira (Francisca), Bresson (L’argent), Kurosawa (Ran). In Italia, si riconfermano autorevolmente Fellini, Scola, Rosi, i fratelli Taviani. In campo europeo insieme al cinema francese, risorto (con Rohmer, Malle, ecc.) dalle ceneri della vecchia nouvelle vague, il cinema britannico ha ritrovato ottima salute; il cinema tedesco ha con Wenders i massimi successi (Leone d’oro con “Lo stato delle cose”, Palma d’oro con “Paris Texas” e “Il cielo sopra Berlino”). Tra i Paesi dell’Est europeo, l’Ungheria conserva nel corso degli anni Ottanta la “tenuta” più costante; nell’Unione Sovietica, che ha in N. Michalkov il suo più noto cineasta, viene finalmente liberato Paradzanov (nuovi sviluppi si attendono ora dal processo di democratizzazione che, dopo aver investito sul finire del decennio tutti i Paesi dell’Est europeo, è culminato nel 1991 nella disgregazione stessa dell’U.R.S.S.). Tuttavia il dato di fondo più rimarchevole è il ritorno, su tutti i mercati, del cinema statunitense, con colossali spettacoli (Spielberg, Coppola), ma è in ascesa anche il movimento degli indipendenti, mentre Woody Allen si conferma grandissimo regista.
Il cinema off Hollywood rafforza una nuova ondata di cineasti dal linguaggio personale, a volte grottescamente estremo altre più intimo e realistico. Tra i primi ad emergere David Lynch, Sam Raimi, i fratelli Coen, Abel Ferrara, mentre gli anni Novanta si aprono con l’esplosione del talento Quentin Tarantino. Dall’altro lato del fenomeno si situano autori dalla pratica più appartata come Hal Hartley e altri provenienti dal cinema più impegnato come Gus Van Sant e Gregg Araki.
Tra i generi trionfano la commedia e l’horror, con cineasti (D. Cronenberg, W. Craven, J. Carpenter, T. Hooper) in grado di suggerire e sottolineare malesseri ben più generali. In Europa, nel generale declino dei mercati nazionali, si affermano personalità dai percorsi estremamente individuali ed originali, come lo spagnolo Pedro Almodóvar, il polacco Krzysztof Kieslowski prematuramente scomparso, il finlandese A. Kaurismaki, lo iugoslavo Emir Kusturica, gli inglesi Ken Loach, Peter Greenaway e Mike Leigh, l’italiano Nanni Moretti, il danese Lars Von Trier, il finlandese Aki Kaurismaki, il portoghese João Cesar Monteiro, per non parlare della vivacissima scena francese, sempre ricca di nuovi talenti (André Techinè, Leos Carax, Olivier Assayas, Mathieu Kassovitz, François Ozon).
Nomi nuovi arrivano anche dall’Oceania, che non rinuncia ad esportare esempi di ottimo cinema, di buon livello qualitativo anche nel caso delle produzioni più commerciali, come fanno fede le opere di emergenti come Rolf de Heer e Scott Hicks in Australia e soprattutto come Jane Campion e Lee Tamahori in Nuova Zelanda. Per quanto riguarda il cinema di Hong Kong e quello di Taiwan l’offerta è articolata: dall’action movie – con registi-produttori come Tsui Hark e autori come John Woo, vivacissimi innovatori nella fedeltà alla ricchezza visionaria di padri nobili come Kung Hu – agli esponenti di un cinema di grande raffinatezza drammatica, come Hou Hsiao-Hsien o Tsai Ming-Liang, che si avvicinano in qualche modo alle ispirazioni e alla pratica dei primi autori postmaoisti provenienti dalla Cina, Zhang Yimou e Chen Kaige. Mentre il Giappone non riesce a rinverdire i fasti della sua ammirevole tradizione narrativa, anche se non vanno dimenticate le digressioni noir di Takeshi Kitano e i deliri horror di Shinya Tsukamoto, si affermano dall’Iran due personalità di valore assoluto, che propongono profondissime riflessioni sul rapporto tra il mezzo e la verità dei contenuti: si tratta di Abbas Kiarostami e di Moshen Makhmalbaf, così come da Israele si fa sentire la lezione di Amos Gitai. Poco di nuovo è presente nelle produzioni brasiliane, argentine e cubane, così come ancora scarsamente significativa nel suo complesso appare la scena africana, nonostante la ammirevole abnegazione con cui i cineasti - tra cui si deve citare almeno Idrissa Ouedraogo del Burkina - si dedicano alla realizzazione dei loro progetti, mentre le cinematografie maghrebine ed egiziane, sembrano segnare il passo.
In Italia gli anni Novanta portano numerose scomparse, Federico Fellini (1993), Massimo Troisi (1994), Giulietta Masina (1994), ma allo stesso tempo confermano una netta ripresa del cinema con autori come Gabriele Salvatores (“Mediterraneo”, Oscar come miglior film straniero, 1992), il già citato Nanni Moretti (premio per la migliore regia a Cannes per “Caro diario”, 1994), Mario Martone (“L’amore molesto”, 1994), Carlo Mazzacurati (“Il toro”, 1994). Una ripresa che ha, comunque, coinvolto tutta l’Europa: il cinema inglese con J. Sheridan (Orso d’oro al Filmfest di Berlino per “Nel nome del Padre”, 1994), il cinema francese con P. Chéreau (“La regina Margot”, 1994), il cinema spagnolo con P. Almodóvar (“Kika”, 1994), il cinema tedesco con W. Wenders (“Così lontano così vicino”, 1992).
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