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“BREVE STORIA DEL CINEMA”
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Il cinema ha innanzi a sé il problema del sonoro e del parlato. Esso era stato presente, come il colore, fin dalle origini, ma ora gli sviluppi della tecnica ne consentono la soluzione. Gli artisti, Charlie Chaplin in testa, sono riluttanti: sanno che l’“arte del silenzio” sta per perdere gran parte della sua espressività. I sovietici, in un manifesto del 1929, teorizzano il fonofilm in funzione asincronica rispetto all’immagine; e così lo impiegano i registi più coscienti, che non vogliono sperperare tutto d’un colpo il patrimonio del muto. Pur con qualche esitazione l’industria hollywoodiana si decide per prima al gran passo quando una casa minore, la Warner Bros., che già l’anno prima aveva realizzato con il “Don Juan” il primo film sonoro, nel 1927, col boom del “Cantante di jazz” (di A. Crosland), da cui trarrà le proprie fortune, la pone di fronte al fatto compiuto. Il crollo di Wall Street (1929) accelera il processo di ridimensionamento degli impianti; “Alleluia” di K. Vidor, che nello stesso anno porta al successo le canzoni dei neri d’America, favorisce la richiesta del “parlato e cantato al 100%”. Ad eccezione di Chaplin, dei sovietici e delle cinematografie sottosviluppate che tardano, più o meno a lungo, ad introdurlo, il 1930 è l’anno del sonoro per il cinema mondiale.
A cavallo tra muto e sonoro, quasi a convincere polemicamente che il nuovo mezzo non frena lo slancio del cinema più degno, fioriscono diverse personalità di registi mentre si accentua, anche per l’influsso sovietico, l’impegno sociale. Clair in Francia passa dal vaudeville (“Il cappello di paglia di Firenze”, 1927) al balletto anarchico (“À nous la liberté”, 1931), George Wilhelm Pabst in Germania dallo psicologismo sessuale (“Lulù”, 1928) alla trilogia della rivolta (“Westfront”, 1930; “Die Dreigroschenoper” e “La tragedia della miniera”, 1931), Vidor in America dal patriottardo “La grande parata” (1925) al quasi classista “Nostro pane quotidiano” (1934). Perfino nell’Italia fascista, in film di A. Blasetti e M. Camerini, e grazie a una parentesi intellettuale promossa da E. Cecchi alla Cines, si comincia a prestare attenzione alla gente comune e che lavora e a certe lezioni della storia (“1860”, di A. Blasetti, 1934). L’olandese J. Ivens, che viaggerà per decenni il mondo, dietro a tutte le rivoluzioni, crea con “Zuiderzee” (1930) e “Borinage” (1934) il documentario militante, mentre il francese J. Vigo in “Zéro de condite” (1933) e “L’Atalante” (1934) brucia il proprio ardore libertario e la propria vita, e dalla Spagna Luis Buñuel riporta un’implacabile testimonianza di desolazione e sottosviluppo (“Las Hurdes” o “Terra senza pane”, 1932). Intanto, in Germania, la Repubblica di Weimar agonizza. Rientrato nella patria d’origine, Sternberg scopre con “L’angelo azzurro” (1930) Marlene Dietrich e se la porta a Hollywood; Lang allude ai mostri incombenti in “M” (1931) e “Il testamento del dottor Mabuse” (1933); la denuncia del caos, degli squilibri sociali e dei veleni dell’“ordine” si fa più decisa non solo in Pabst, ma nell’intero movimento del realismo critico oggettivo (Ph. Jutzi, C. Junghans, V. Trivas, Léontine Sagan di “Ragazze in uniforme”, 1931); però S. Th. Dudow, col concorso di Brecht, è l’unico a professare un coerente antinazismo in “Kuhle Wampe” (1932), alle soglie dell’avvento di Hitler.
Nell’U.R.S.S. l’aspra lotta ideologica e la dura dirigenza politica aprono, ben più del sonoro, problemi ai cineasti maggiori. Dalle cine-verità Dziga Vertov passa alle sinfonie del lavoro. Ejzenstejn, criticato per “Ottobre” (1927) e “La linea generale” (1929), si reca in Europa e in America, tenta l’avventura messicana, che si risolve nella “cattedrale incompiuta” di “Que viva México!” (1930-32) e, di nuovo a Mosca, si rifugia nell’insegnamento alla scuola del cinema, la prima fondata nel mondo. Pudovkin, dopo aver girato “La fine di San Pietroburgo” (1927) e “Tempeste sull’Asia” (1929), e Dovzenko, autore di “Arsenale” (1929) e “La terra” (1930), affrontano il sonoro con risultati meno cospicui. Ma, dopo questi grandi, emergono altre figure. G. Kozincev e L. Trauberg, provenienti dall’esperienza eccentrica del F.E.K.S. di Leningrado, dedicano alla Comune di Parigi un gioiello del muto, “Nuova Babilonia” (1929); B. Barnet dalle gustose commedie sulla N.E.P. approda ad un classico, “Okraina” (1933); F. Ermler invece retrocede dal problematico “Frammento d’impero” (1929) al didascalico “Contropiano” (1932); un giovane, N. Ekk, esordisce con Il cammino verso la vita (1931) che alla prima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, nel 1932, fa risuonare dallo schermo le note dell’Internazionale. Tuttavia occorre un critico americano, H. A. Potamkin, per scoprire in U.R.S.S. l’allucinante documentario di M. Kalatazov “Il sale della Svanezia” (1930), mentre A. Medvedkin deve sospendere, coi suoi viaggi sul “treno del cinema”, le incursioni nel vivo della realtà del Paese.
A Hollywood il sonoro sviluppa il genere gangster (ora il crepitio dei colpi si sente) e dà il via a nuovi filoni come il film rivista, imperniato sulle rutilanti coreografie di B. Berkeley, e la commedia sofisticata, in cui, oltre a Lubitsch che è anche il mago dell’operetta viennese, ottengono i maggiori successi F. Capra, venuto dalle gags comiche, e H. Hawks, reduce da “Scarface” (1932). Si modernizzano nel frattempo le vecchie correnti: a S. Laurel e O. Hardy, della scuola di H. Roach succeduta a M. Sennett, si aggiungono i fratelli Marx, comici surrealisti e verbosi; i primi horror (“Frankenstein”, 1931, di J. Whale, e “King Kong”, 1933, di E. B. Schoedsack e M. C. Cooper) si sublima nella poesia di “Freaks” (1932), di T. Browning; il poliziesco, quando non si scatena agli ordini del direttore del F.B.I. J. E. Hoover (“Sterminateli senza pietà”, 1935, di G. Marshall), assume vesti letterarie (“Delitto senza passione”, 1934, di B. Hecht e C. MacArthur) e venature ironiche (“L’uomo ombra”, 1934, di W. S. Van Dyke). Mentre l’aggressiva Mae West scandalizza, soprattutto a parole, con i suoi inviti al sesso, procede imperturbabile il melodramma d’amore, talvolta in costume, con il predominio della “divina” Garbo e della barocca Marlene, affidata al pigmalione Joseph von Sternberg. Ma la medaglia ha anche qui il suo rovescio, nelle tematiche incisive che affiorano in conseguenza della crisi economica e, ancora una volta, degli influssi europei. A parte Chaplin, che in “Luci della città” (1931) e in “Tempi moderni” (1936) si accosta ai drammi del capitalismo, opere come “All’ovest niente di nuovo” (1930) di L. Milestone o “Io sono un evaso” (1932) di M. Le Roy annunciano il parziale mutamento di rotta del periodo rooseveltiano che, in contrasto col divismo imperante del sex-appeal, onora un tipo di attore che di questo non ha bisogno per imporsi.
Negli anni Trenta il cinema, ormai assurto al rango d’arte, non solo si stabilizza superando presto lo sconvolgimento del parlato ma estende la propria vitalità a nuove zone e nuovi continenti. Sotto la guida di J. Grierson, che tra l’altro permette a R. Flaherty di realizzarvi “L’uomo di Aran” (1934), la Gran Bretagna sale finalmente alla ribalta come scuola del documentario. Inoltre a Londra A. Hitchcock crea il thrilling; il produttore A. Korda, che in gioventù aveva lavorato per la Repubblica dei Soviet ungherese, rivaleggia con gli Americani nel colosso storico; gli attori inglesi esprimono il proprio magistero anche in patria sebbene, prima o poi, destinati a prendere o riprendere la via di Hollywood. Centro europeo diviene Praga che, dopo lo shock prodotto a Venezia dalla donna nuda di “Estasi” (1932, di G. Machatý), ospita nei propri studi troupes straniere. K. Plicka fa conoscere il folclore slovacco; M. Fric l’eroe “Jánosík” (1936); gli artisti di cabaret J. Voskovec e J. Werich satireggiano il fascismo e il naturalismo boemo si afferma, dopo Machatý, nei film di J. Rovenský e O. Vávra. In Egitto si assesta, tra melodrammi danzati e cantati, il cinema nazionale; e così in India, dove i cineasti bengalesi cominciano a far valere le istanze sociali. Nell’America Latina si registrano i primi tentativi d’indipendenza culturale (Brasile, Argentina). In Asia (Giappone, Cina) emergono le forti personalità dei giapponesi K. Mizoguchi, Y. Ozu, T. Uchida e del cinese Tsai Chu-sheng; a Shanghai la Lega di sinistra guidata da Lu Hsun inserisce anche nel cinema i suoi scrittori progressisti che, sotto il Kuomintang, varano una corrente neorealista ante litteram. Tali cinematografie sono, all’epoca, praticamente sconosciute in Occidente, dove però la Mostra d’arte cinematografica di Venezia e, nel 1935, il Festival di Mosca ne esibiscono i primi esemplari. La rassegna internazionale moscovita (poi abbandonata fino al 1959) ha anche il compito di celebrare l’ascesa del realismo socialista: “Ciapaiev” (1934) dei Vasilev e “La giovinezza di Massimo” (1935) di Kozincev e Trauberg si dividono il primo premio precedendo i film concorrenti di Clair, Vidor, J. Feyder. La nuova tendenza, postulata da Gorkij e, con una certa diversità d’accenti, da Zdanov e ribadita nel congresso dei cineasti che mette sotto accusa Ejzenstejn per la sua ricerca troppo personale, esordisce infatti a un livello elevato mantenendo per tutto il decennio un’indubbia consistenza artistica. Tuttavia il male è alla radice dei principi ideologico-teorici e si chiarirà più tardi: bisogna attendere gli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra e affidarsi ancora a Ejzenstejn perché l’ombra del demiurgo, con la mediazione di “Ivan il Terribile” (1944, e “La congiura dei Boiardi”, 1946-48), appaia sullo schermo in una luce inquietante, prima di essere definitivamente avvolta nel mistico alone della trilogia staliniana di M. Ciaureli (“Il giuramento”, 1945; “La caduta di Berlino”, 1950, e “L’indimenticabile” 1919/1952). Quasi nulla del realismo sovietico filtra in Italia durante il fascismo. Né il compito di supplire alla modestia della produzione nazionale può essere assunto dalla propaganda nazista o dalle deboli commedie viennesi o ungheresi. Il ruolo tocca invece al verismo romantico e pessimista francese, che arriva d’oltralpe con le firme di Julien Duvivier e M. Carné e con il volto di J. Gabin. Meno bene si conosce la carriera di Renoir, il cui realismo poetico è il più legato al clima del Fronte popolare e le cui opere maggiori rimangono in Francia. Del resto, se Hollywood manda i disegni animati di Walt Disney (Topolino, Paperino, Biancaneve, ecc.), le comiche di Stanlio e Ollio (che un doppiaggio ingegnoso rende familiari), la musical comedy di F. Astaire e G. Rogers, o le rosee commedie democratiche di Capra, niente si sa del documentarismo rigoroso del gruppo di P. Strand, né dopo “Il traditore” (1935) e “Ombre rosse” (1939) si vede “Furore” (1940) di John Ford, né si conosce “Citizen Kane” (o “Quarto potere”, 1941) di Orson Welles, né ovviamente si proietta “Il grande dittatore” (1940) di Chaplin. Eppure negli ultimi anni del fascismo e della guerra qualcosa si muove in Italia. Luchino Visconti con “Ossessione” (1942), Blasetti con “Quattro passi tra le nuvole” (1942) e Vittorio De Sica con “I bambini ci guardano” (1943) preludono ad un cambiamento.
Gli altri capitoli…
L’avvento
del sonoro |
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