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Scrittore, commediografo e regista (Roudnice nad Labem, Boemia, 1885 - Vienna 1967)
Destinato ad una carriera da ingegnere, divenne regista teatrale alla Neue Wiener Bühne, quindi esordì nel cinema con K. Frolich, come attore e aiuto regista (Im Banne der Kralle, 1921). Prigioniero di guerra, nel 1923, con un film influenzato dall'espressionismo allora dominante (“Il tesoro”, 1923), iniziò un'attività che dal 1925 (“La via senza gioia”) fino al 1931, lo pose alla testa del cinema tedesco nella sua tendenza realistica, denominata "neo-oggettività". Al realismo psicologico appartengono “I misteri di un'anima” (1926), basato sulle teorie freudiane, “Il giglio delle tenebre” (1927), “Crisi” (1928), “Lulù” (1928) e “Diario di una donna perduta” (1929), cui seguì nel 1929 la parentesi di un film di montagna, “La tragedia di Pizzo Palù”, con Leni Riefenstahl e la co-regia di Arnold Fanch. Al realismo più dichiaratamente sociale (già annunciato da “La via senza gioia”), si accostò nella trilogia sonora “Westfront 1918” (1930), “Die Dreigroschenoper” (da Brecht-Weill, 1931) e “La tragedia della miniera” (1931). Pabst raggiunse risultati diseguali fra compromessi produttivi e scelte artistiche e ideologiche non sempre coerenti, ma certo si distinse come ottimo direttore di attrici, da Asta Nielsen, a Greta Garbo, Louise Brooks e Brigitte Helm, che guidò anche in “Atlantide” (1932, in doppia edizione tedesca e francese). Fermatosi in Francia fino al 1939 (con un'insignificante parentesi a Hollywood nel 1934) vi realizzò film di mestiere, come “Don Chisciotte” (1933), “Mademoiselle Docteur” (1937) e “Il dramma di Shanghai” (1938); quindi, inaspettatamente, rientrò in Germania dove girò “I commedianti” (1941) e, nella Praga occupata dai nazisti, “Paracelsus” (1943). Nel dopoguerra dirige in Austria “Il processo” (1948) e in Germania il dittico antihitleriano “L'ultimo atto” e “Accadde il 20 luglio” (1955).
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Da "Le Garzantine - Cinema", testo di Debora Lovili
Figlio di genitori viennesi, muove in Austria i primi passi nel mondo dello spettacolo come attore teatrale ottenendo un buon successo. Trasferitosi in Germania per dedicarsi al cinema, esordisce dietro la macchina da presa con il cupo “Il tesoro” (1923), storia di ossessioni demoniache con chiari richiami all'espressionismo tedesco. Il film successivo, il drammatico “La via senza gioia” (1925), enuncia quelle che saranno le caratteristiche fondamentali della produzione di un regista estremamente eclettico e segna il passaggio a un più deciso realismo: l'interesse per le figure femminili, le soluzioni narrative di chiaro stampo melodrammatico, l'intento di polemica sociale, l'acuta analisi psicologica, la presenza di atmosfere dal fascino decadente, la capacità di valorizzare attrici dal notevole talento (da A. Nielsen a G. Garbo e L. Brooks). Il continuo desiderio di sperimentazione lo porta ad affrontare generi diversi mantenendo un eccezionale dominio dei mezzi d'espressione cinematografica. Nel 1926, avvalendosi dei consigli di due celebri psicanalisti e nonostante la fiera opposizione di Freud, gira “I misteri di un'anima”, opera ricca di dettagli che non vengono spiegati, la cui comprensione è lasciata all'intuizione dello spettatore. Successivamente si occupa della sfera sessuale con i melodrammatici “Lulù” o “Il vaso di Pandora” (1928), libero adattamento del dramma di F. Wedekind, e “Il diario di una donna perduta” (1929), in cui il sesso è visto come metafora della corruzione sociale, per poi passare a uno stile più sobrio e spoglio per il guerresco e patetico “Westfront” (1930) e il documentaristico “La tragedia della miniera” (1931), basato su un fatto reale. Dopo un'accesa polemica con B. Brecht che non accetta la sua messinscena visionaria e onirica, fortemente attenuata nel suo significato politico e sociale, di “L'opera da tre soldi” (1931), Pabst si reca all'estero in un volontario «esilio» vissuto quasi totalmente in Francia. Qui il suo genio creativo ha comunque modo di emergere e realizza, tra l'altro, l'estetizzante adattamento del romanzo di Cervantes “Don Chisciotte” (1933), gli esotici melodrammi a sfondo spionistico “Mademoiselle Docteur” o “Salonicco nido di spie” (1936) e “Shanghai” (1938), e la commedia psicologica “Ragazze in pericolo” (1939). Rientrato in Germania, rifiuta di dirigere film di propaganda e inizia una lenta parabola discendente, filmando opere di minor interesse, tra cui “I commedianti” (1941) sulle difficoltà del mestiere dell'attore. Nel dopoguerra il documentaristico “Il processo” (1947), lucida analisi del radicarsi dell'antisemitismo, e “L'ultimo atto” (1955) sulle ultime ore di Hitler, segnano la (tardiva) presa di distanza dall'ideologia nazista da parte del regista.
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Da "Storia del cinema", A cura di Gianni Rondolino (UTET, 2000)
Le vicende individuali - spesso circoscritte in pochi fatti significativi - e l’ambiente sociale, indagato con attenzione e a volte con acume, è riscontrabile nell’opera d’un regista che da parecchi storici e da gran parte della critica fu considerato l’artista più significativo del cinema tedesco di allora, Georg Wilhelm Pabst. Indubbiamente egli creò, in una serie di film di notevole valore, uno stile personale che influenzò direttamente parecchi registi di quegli anni, e soprattutto affrontò, con coraggio e spregiudicatezza, temi e argomenti che o erano trattati in termini generici e melodrammatici (la prostituzione, l’erotismo, la degradazione morale e sociale ecc.) o erano in larga misura vietati (l’antimilitarismo, il pacifismo, la critica sociale, ecc.). Influenzato contemporaneamente dall’espressionismo e dal Kammerspiel, ma attento soprattutto ai fatti quotidiani, ai drammi umani e sociali provocati dalle incertezze e contraddizioni della realtà tedesca all’indomani della sconfitta bellica, in un momento di difficile ricostruzione nazionale, Pabst tentò la strada del cinema sociale, realistico, non trascurando i problemi formali, anzi sperimentando con acume le varie possibilità espressive del mezzo cinematografico (e diventando in questo campo un «maestro di stile»), ma sempre in rapporto alla materia affrontata, ai contenuti evidenti di un’opera che voleva imporsi come documento di un’epoca, come critica interpretazione delle difficoltà del momento. In tal senso il suo cinema fu salutato ed esaltato quale modello nuovo e valido di indagine sociologica, non scevra da chiari intenti politici e morali: e i personaggi dei suoi film furono visti come protagonisti efficaci d’una realtà spettacolare che aveva tutti i connotati della realtà fenomenica. In una più distaccata prospettiva storico-critica si vide che il realismo di Pabst era fin troppo venato di romanticismo, e derivava da una visione non dialettica della realtà sociale. Il ritratto che egli ci diede della società tedesca degli Anni Venti era, in sostanza, meno critico e problematico di quanto non apparve allora: i suoi drammi, i suoi personaggi - pur nuovi rispetto a certa drammaturgia cinematografica coeva - non uscivano da un’interpretazione edulcorata della realtà, ed erano minati qua e là da certi compiacimenti formalistici, propri di un periodo in cui le questioni estetiche - nel cinema - spesso sopravanzavano quelle contenutistiche. Tuttavia alcuni film di Pabst si collocano, nel panorama generale della cinematografia tedesca, tra i risultati artistici più significativi e ad essi bisogna rifarsi per completare il quadro di uno dei periodi più fecondi dell’intera storia del cinema, che altrimenti rimarrebbe incompleto. Già il suo terzo film (egli era giunto alla regia cinematografica nel 1923 dopo un’intensa attività teatrale iniziata nel lontano 1905), “La via senza gioia” o “L’ammaliatrice” (Die freudiose Gasse, 1925), affrontava con chiarezza, in uno stile spoglio, oggettivo, il dramma della miseria e della prostituzione sullo sfondo di una Vienna triste e disadorna negli anni del primo dopoguerra. La banalità della storia - una prostituta che si sacrifica per l’uomo che ama, da un lato; una ragazza borghese che un ufficiale americano salva dalla prostituzione, dall’altro, in un parallelismo drammatico alquanto esile - era riscattata proprio sul piano dello stile, il cui rigore documentario consentiva di andare al di là dei fatti, di trasportare la vicenda e i personaggi sul piano dell’interpretazione realistica. Questo realismo, che fu definito psicologico per la cura con cui Pabst caratterizzava i suoi personaggi e ne rilevava la complessità dell’anima, fu sviluppato nei due film seguenti che, ancor più di “La via senza gioia”, tentavano una descrizione attenta e nuova della psiche umana. In “Geheimnisse einer Seele” (I misteri di un’anima, 1926), la storia di un professore di chimica con manie omicide, guarito poi da uno psicanalista, era quasi un pretesto per un conciso ed efficace trattato di psicanalisi applicata; e Pabst si servì della consulenza dei professori Sachs e Abraham, collaboratori di Freud. In “Giglio nelle tenebre” (Die Liebe der Jeanne Ney, 1927), dal romanzo di Il’ja Erenburg, il ritorno a una narrazione tradizionale, con aggiunta di «lieto fine» secondo le convenzioni dell’industria dello spettacolo, non impediva l’approfondimento psicologico del personaggio, quello di una ragazza francese innamorata di un comunista, in rapporto a una situazione ambientale colta nelle sue implicazioni drammatiche. Erano insomma le tappe di un’analisi sempre più attenta e meticolosa della complessità della psicologia umana condotta col mezzo «rivelatore» del cinema, impiegato da Pabst con sempre maggiore disinvoltura e coscienza delle sue possibilità espressive. Ciò si vide appieno nei tre film che comunemente sono uniti sotto la definizione di «trilogia sessuale» e che affrontano, partitamente, i temi della condizione della donna nella società borghese contemporanea, e i problemi relativi a una corretta educazione sessuale, strettamente connessa con nuove regole morali in una società retta da leggi meno rigide riguardo alla libertà dell’individuo. Si tratta di “Crisi” (Abwege, 1928), che descrive una crisi coniugale con lucido realismo e spregiudicatezza; di “Lulù” (Die Büchse der Pandora, 1928), tratto da due drammi di Frank Wedekind, che è il ritratto sfaccettato di una donna ninfomane che porta se stessa e gli uomini che incontra alla perdizione; e di “Il diario di una donna perduta” (Das Tagebuch einer Verlorenen, 1929), che è la storia di una ragazza violentata, la quale si prostituisce, dopo essere uscita dal riformatorio, e accetta la sua nuova vita passivamente. Soprattutto questi due ultimi film, interpretati da Louise Brooks (1906-1985) - un’attrice che fu, con la sua straordinaria e conturbante bellezza, il prototipo della donna seduttrice, l’incarnazione stessa del «peccato», e come tale assurse a simbolo di una femminilità non mai sazia, a modello di personaggi che il cinema successivo riprenderà in varie edizioni -, portarono alle estreme conseguenze il realismo analitico di Pabst. Considerati da alcuni critici essenzialmente «naturalistici», in particolare “Il diario di una donna perduta”, in realtà questi film sono continuamente pervasi da una tensione drammatica che carica e dilata i fatti rappresentati, i gesti, le azioni dei personaggi, sicché dietro queste storie, non prive di risvolti melodrammatici e d’appendice, compare lo sguardo lucido dell’analista, che proprio nell’insistenza dell’osservazione, nella «vivisezione» della realtà fenomenica e psicologica, raggiunge eccellenti risultati di documentazione critica. Dopo questa eccellente trilogia, in cui la donna, nelle diverse espressioni della sua femminilità, era al centro del dramma e costituiva una sorta di veicolo simbolico per una più ampia indagine dei conflitti psicologici prodotti da una determinata struttura sociale, Pabst, si avvicinò a problemi più specificamente sociali e politici, ma questa sua «apertura» ideologica (che lo fece considerare allora e in seguito uno dei registi più politicamente impegnati del cinema internazionale) denunciò apertamente i limiti della sua poetica, incapace di cogliere gli autentici problemi della realtà sociale e politica, che egli risolse su un piano sostanzialmente individualistico e genericamente umanitario. Questo umanitarismo generico si riflesse sullo stile, che perse in lucidità e in minuzioso realismo quello che andava guadagnando in spettacolarità e formalismo. Basta osservare i tre film che impropriamente furono definiti della «trilogia sociale»: “Westfront” (Westfront 1918, 1930), “Die Dreigroschenoper” (L’opera da tre soldi 1931), “La tragedia della miniera” (Kameradschaft, 1931). Nel primo, il pacifismo e l’antimilitarismo risultano generici, non sono il frutto di un esame approfondito della realtà bellica, ma derivano dalla semplice descrizione - a volte efficace e non priva di un autentica suggestione drammatica - degli orrori della guerra; nel secondo, tratto liberamente dall’omonima opera di Brecht e Weill - e Brecht denunciò la manomissione del suo testo -, la satira antiborghese e la feroce descrizione dei vizi d’una società dominata dal denaro e dal successo mondano si stemperavano in uno spettacolo, certamente elegante e raffinato (ed anche geniale), ma infine privo di quel mordente che l’opera brechtiana possedeva; nel terzo, il dramma dei minatori francesi rimasti bloccati nel sottosuolo e salvati da una squadra di soccorritori tedeschi, pur essendo rappresentato in termini fortemente drammatici, attraverso quel realismo analitico caro al Pabst precedente, si risolveva in un generico appello alla fratellanza universale, alquanto retorico e di maniera. L’involuzione artistica di Pabst era insomma nel suo pieno sviluppo, e non erano certamente i temi sociali e politici a frenarla; anzi, furono essi, nella loro genericità, a metterla in maggiore evidenza. E se pure questi tre film non soltanto ebbero, al loro apparire, una accoglienza critica favorevole, ma costituirono anche un esempio interessante di cinema politicamente impegnato, almeno per la società europea occidentale, la cui cinematografia non era molto disposta ad affrontare problemi di chiaro significato ideologico e di intento polemico; essi confermarono quelle tendenze formalistiche del cinema pabstiano che già erano presenti, sia pure marginalmente, nelle opere precedenti. Ciò si accentuò in “Atlantide” (Die Herrin von Atlantis, 1932), in cui la storia fantastica della regina Antinea - tratta dal romanzo di Pierre Benoit - è risolta in uno stile figurativo e ritmico di grande suggestione spettacolare, ma sostanzialmente accademico; e nel successivo “Don Chisciotte” (Don Quichotte, 1933), girato in Francia, che trasforma la dolente avventura di Cervantes in un album di immagini eccellenti, montate secondo un ritmo epico-narrativo di grande vigore formale, ma privo di autentiche ragioni espressive, arido. Lo stile di Pabst si andava inesorabilmente mutando in maniera. I film che il regista diresse successivamente, prima in Francia, poi in Germania dov’era tornato nel 1939, risultarono, nel migliore dei casi, dei buoni prodotti d’artigianato, come “Mademoiselle Docteur” (1937) o “Il dramma di Shanghai” (Le drame de Shanghai, 1938); né migliori furono le due biografie storiche “ I commedianti” (Komódianten, 1941), sull’attrice tedesca Paroline Neuber, e “Paracelsus” (1943), sul medico e scienziato svizzero. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, Pabst parve tornare a certi temi umanitari e «politici» d’un tempo - in parte anche per riscattarsi dell’accusa di aver collaborato col nazismo, che gli fu rivolta -, ma ne “Il processo” (Der Prozess, 1948), che condannava esplicitamente l’antisemitismo attraverso la storia d’un pogrom accaduto in un villaggio ungherese alla fine dell’Ottocento, ne il dittico “L’ultimo atto” (Der letzte Akt, 1955) e “Accadde il 20 luglio” (Es geschah am 20. Juli, 1955), il primo sul crollo del Terzo Reich, il secondo sull’attentato a Hitler del 1944, uscirono dagli schemi del corretto cinema di consumo, molto curato sul piano formale quanto anonimo sul piano dei contenuti.
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