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REPUBBLICA DI WEIMAR
Il Cinema dalle origini all’avvento del nazismo |
Nata relativamente tardi in Germania, l’arte del film conobbe qualche precursore negli anni della Prima guerra mondiale; tra essi P. Wegener, attore e regista, che nel “Golem” (1914, prima edizione) anticipò il filone espressionista.
Nel 1918 sorse l’UFA, che garantì una produzione nazionale di rilievo economico oltre che artistico. Il teatro di M. Reinhardt influenzò le biografie in costume che ebbero in E. Lubitsch uno degli alfieri e sottoposero la storia a spregiudicate revisioni romanzesche, molto apprezzate anche all’estero. Il genere trovò la propria sublimazione nelle due parti dei “Nibelunghi” (1923-24) dei coniugi Lang (Fritz e Thea Von Harbou), e nella sua fusione di monumentalismo ed espressionismo. Tendenza quest’ultima che, sebbene arrivata in ritardo e di riflusso in confronto ad altre arti, caratterizzò tuttavia in senso specifico e formalmente rivoluzionario il cinema tedesco del dopoguerra.
Dal “Caligari” (1919) in poi, scenografia, illuminazione, recitazione stilizzata si posero al servizio di un universo magico, tardoromantico, demoniaco e stravolto, dove mostri e spettri (Golem, Mabuse, Nosferatu), ombre inquietanti e figure di cera esprimevano in modo allucinato un disagio spirituale comune. R. Wiene, P. Wegener, F. Lang, P. Leni, A. Robison, F. W. Murnau erano i registi più importanti; tra gli sceneggiatori H. Galeen, la già citata Thea von Harbou e C. Mayer, che fu però soprattutto il caposcuola del Kammerspiel, corrente sorta in opposizione a certi eccessi della tendenza espressionista, anche se ne conteneva non pochi elementi. Mayer elaborava i propri scenari per ambienti ristretti (un “gioco da camera”, appunto) e per pochi essenziali personaggi, strutturandone ferreamente i conflitti anche senza ricorrere a didascalie. “La rotaia” (1922) e “La notte di San Silvestro” (1923) di Lupu-Pick, “La strada” (1923) di K. Grune, “L’ultima risata” (1924) di Murnau sono i modelli, e il loro interesse per l’indagine dei caratteri fu preludio al realismo psicologico, o “neo-oggettivismo”, di film quali “Variété” di E. A. Dupont e “La via senza gioia” di Georg Wilhelm Pabst, che, usciti nel 1925, spinsero poi questi registi e altri ad accostarsi al freudismo (la “trilogia sessuale” di Pabst) e ai problemi della società. Contemporaneamente un notevole movimento di avanguardia astratta si esprimeva nei saggi sperimentali di V. Eggeling, H. Richter, O. Fischinger, mentre W. Ruttmann si segnalava anche quale esponente (“Berlino, sinfonia d’una grande città”, 1927) del cinema documentaristico di montaggio. Hollywood intanto iniziava la caccia ai maggiori talenti dell’UFA comprando registi e attori come Lubitsch, Murnau, E. Jannings, P. Negri e anticipando l’emigrazione massiccia causata poi dall’avvento del nazismo.
Attorno al 1930, nel periodo di passaggio dal muto al sonoro, si ebbe comunque l’apogeo artistico del film prehitleriano della Repubblica di Weimar, quando giunsero alla maturità Lang e Pabst e altri registi si rivelarono (come Ph. Jutzi) alla testa del cinema di denuncia. Mentre Dupont filmava in Gran Bretagna “Fortunale sulla scogliera” (1930) e Murnau nei Mari del Sud “Tabù” (1931), rientrava dagli U.S.A. von Sternberg per “L’angelo azzurro” (1930), Pabst realizzava (1930-31) la trilogia sociale di “Westfront”, “Dreigroschenoper”, “Kameradschaft” (o “La tragedia della miniera”); in un’altra trilogia meno conosciuta ma altrettanto straordinaria (“Nostro pane quotidiano”, 1927; “Il viaggio di mamma Krause verso la felicità”, 1928; “Berlin-Alexanderplatz”, 1931) Jutzi dipingeva il quadro agghiacciante della disoccupazione e della miseria nelle città; V. Trivas si dichiarava antimilitarista (“Terra di nessuno”, 1931), Léontine Sagan antiprussiana (“Ragazze in uniforme”, 1931), G. Lamprecht antiautoritario (“Emilio e i detectives”, 1931), mentre S. Th. Dudow innalzava una sinfonia operaia (“Kuhle Wampe”, 1932) e Lang in “M” (1931) e nel secondo “Mabuse” (1933) suggeriva che i mostri erano ormai alla porta di casa.
Nel 1933 l’industria cinematografica, depauperata dei suoi elementi di punta (compreso il produttore E. Pommer, espatriato), passò in blocco alle dipendenze del Ministero della Propaganda; ma Goebbels chiese invano ai cineasti tedeschi rimasti “un altro Potëmkin”. Nel settore ufficialmente al servizio del nazismo emersero soltanto gli splendidi documentari di Leni Riefenstahl, “Trionfo della volontà” (1936) e “Olympia” (1938) e, più tardi, i polpettoni biografici pseudostorici di V. Harlan e H. Steinhoff e le violente e sinistre cineattualità di guerra; la maggior parte della produzione si manteneva evasiva, operettistica e melodrammatica.
Alla mancanza totale di libertà non supplirono né la tecnica né il colore, sebbene una certa dignità formale sia riscontrabile in alcuni prodotti isolati, dovuti a G. Ucicky e, sul finire del conflitto e del regime, a H. Käutner.
Bibliografia storiografica
• E. Eyck, “Geschichte der Weimarer Republik”, Erlenbach-Zurigo-Stoccarda,
1954-56
• K. D. Bracher, “Die Auflölung der Weimarer Republik”,
Stoccarda-Düsseldorf, 1955
• G. Castellan, “L’Allemagne de Weimar, 1918-1933”,
Parigi, 1969
• M. Broszat, “Da Weimar a Hitler”, Bari, 1986
Bibliografia cinematografica
• R. Kurtz, “Expressionismus im Film”, Berlino, 1925
• H. H. Wollenberg, “Fifty years of German film”, Londra,
1948
• S. Kracauer, “Cinema tedesco (1918-1933)”, Milano, 1954
• L. H. Eisner, “Lo schermo demoniaco”, Roma, 1955
• H. Richter, “Il cinema d’avanguardia in Germania”,
Milano, 1961
• G. Aristarco, “Il cinema tedesco e il passato nazista”,
Monza, 1963
• R. Borde, F. Buache, F. Courtade, “Le cinéma réaliste
allemand”, Lione, 1965
• E. Leiser, “Deutschland Erwache - Propaganda im Film des 3. Reiches”,
Amburgo, 1968
• D. S. Hall, “Film in the Third Reich”, University of California,
1969
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