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Attrice (Cherryvale, Kansas, 14 Novembre 1906 - Rochester, New York, 8 Agosto 1985)
Mary Louise Brooks, attrice anticonformista, con un passato da ballerina, debutta nel 1925 in alcuni film di scarso rilievo finché “Capitan Barbablù” (1928) di H. Hawks non lancia il suo personaggio di femme fatale dal riconoscibile caschetto nero. Georg Wilhelm Pabst la preferisce a Marlene Dietrich per “Lulù - Il vaso di Pandora” (1928) tratto da due noti testi teatrali di Frank Wedekind. La sua carica di erotismo e apparente, sottile perversione si accentua ancora di più in “Diario di una donna perduta” (1929) di Pabst, torbido melodramma che critica duramente l’ipocrisia dei valori borghesi. Mal vista a Hollywood e scalzata dal ruolo di sex-symbol da altre attrici (Dietrich, Garbo, Harlow), negli anni Trenta deve accontentarsi di film minori e in seguito di qualche soap opera radiofonica.
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Da "Cinegay - L’omosessualità nella lanterna magica" di Pino Bertelli
Louise era figlia di un avvocato. Debutta a soli 15 anni come ballerina di fila nello spettacolo “George White’s Scandals” e l’anno successivo entra nelle “Ziegfeld Folies”. A 22 anni è già tra la “gioventù dorata” della città del cinema. Però non lega con l’effimero hollywoodiano e molti la considerano tanto bella quanto stupida. Nel 1925 appare in “Street of forgotten men”, di Herbert Brenon, poi è la volta di “The american Venus” (Il trionfo di Venere, 1926) di Frank Tuttle, con Ford Sterling, e ancora nel 1926, “A social celebrity” (Un barbiere di qualità), di Malcom St. Clair, insieme ai divi del momento, Adolphe Menjou e Chester Conklin. Fino al 1938 lavora in altri 21 film e con “Overlad stage raiders” di George Sherman, lascia il cinema e la celebrità. Ha solo 36 anni, la tentazione di esistere era stata più forte di una falsa seduzione di vivere in un mondo falso. La Brooks non è donna semplice. Si sposa due volte. Nel 1926 con Edward Sutherland, un rampollo di Hollywood... si lasciano dopo un anno e mezzo. Nel 1934 ci riprova con Deering Davis, si separano dopo pochi mesi. Dopo la “sindrome di Hollywood” si ritira a Wichita, nella casa patema. Nel 1943 si trasferisce a New York. In piena solitudine. Qui capisce subito che l’unica carriera ben retribuita che gli offrivano “in qualità di attrice fallita di trentasei anni, era quella della squillo” (Louise Brooks). Scrive brevi ritratti delle star che ha conosciuto: Greta Garbo, Lilian Gish, Marlene Dietrich, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Humphrey Bogart, Marion Davies... i suoi lavori vanno a comporre uno spaccato lucido e feroce della “fabbrica dei miti di celluloide”. Nel momento che si sceglie la strada della “verità” o della non genuflessione alla griglia delle idee dominanti, si viene espulsi dall’ordinario. Il rifiuto della propria inessenza è al fondo di ogni rottura, separazione, devianza da ogni legittimazione della sofferenza individuale e collettiva. Interrogarsi sulla propria esistenza vuol dire fare già i conti con le proprie paure, i propri terrori, i desideri di libertà (anche sessuale) che si scatenano oltre i terreni del sociale. Chi conosce la soddisfazione di vivere ha già risposto a molti interrogativi su perché viviamo. Il rifiuto del letame istituzionale (Dio, Stato, Famiglia, Esercito) implica conoscersi ed entrare nella vita non per ammazzare il tempo di un’umanità diminuita, predata, violata nel profondo della propria storia... ma per conquistare un tempo e un’esistenza misura d’uomo. “Amo gli omosessuali poiché da loro non nasceranno soldati” (Francis Picabia) o boia della ragione codificata. L’intera vita della Brooks fu attraversata da un senso spiccato per la verità, la libertà e la sessualità senza permessi di “buona condotta”. Le sue decisioni improvvise erano dettate da una certa inclinazione alla misantropia, supportata da una cultura finissima. Goethe, Proust, Schopenhauer scivolavano nei suoi scritti e l’accompagnavano lungo i crinali della solitudine che si era scelta. Amava queste parole di Goethe: “Un uomo è importante non per quello che lascia dietro di sé, ma per quanto agisce e gioisce, e induce gli altri all’azione e al piacere”. Le fece sue. Si allontanò da tutto quanto poteva parlare di lei. Uccise il mito e ritrovò la donna. Quando la Brooks apparve nel dittico di Georg Wilhelm Pabst, “Lulù” (Die büchse der Pandora) e “Il diario di una donna perduta” (Das tagebuch einer verlorenen, 1929), la sua “straordinaria e conturbante bellezza, il prototipo della donna seduttrice, l’incarnazione del sesso” (Gianni Rondolino) che le erano stati fabbricati addosso un anno prima da Howard Hawks in “Capitan Barbalù” (“A girl in every port”, 1928), irruppero nel perbenismo inquietante di quegli anni stupidamente folli. La Brooks divenne l’oggetto del desiderio (maschile e femminile) delle giovani generazioni. La raffigurazione del meraviglioso, del diverso e del trasgressivo che si aprono al mondo del sogno e festeggiano la trasfigurazione dei divieti nel cinema e oltre il cinema. L’iconografia di donna perversa, androgina, libertaria che la Brooks ha debordato dallo schermo alla vita e dalla vita alla storia... sarà rivisitata dai fumetti di John Striebel, apparsi sui giornali americani dal 1926 al 1966. Guido Crepax penserà alla malizia conturbante della Brooks, quando disegnerà l’eterea e peccaminosa Valentina. Lulù finirà nei giocattoli, nelle sfilate di moda, negli spettacoli canterini dei transessuali, negli arredi salottieri della sinistra sofisticata... nella giungla massmediale dell’immaginario collettivo la nidificazione del fac-simile non è solo un quadro di costume ma il vessillo di un’epoca. L’immoralità di Lulù è quella di sempre. Il destino (suo e di tutti quelli che si chiamano fuori dalle strutture del pensiero legiferato) è “dare scandalo e inciampare nel groviglio delle leggi che proliferano con arbitrio selvaggio. Le autorità sono ragni in agguato in una rete sottilissima di regolamenti, e rimanere intrappolati in quelle maglie è soltanto una questione di tempo” (Joseph Roth). Ciascuno è artefice della propria mediocrità servile come della propria intelligenza eversiva. “Lulù” era la trasposizione cinematografica dei drammi teatrali di Frank Wedekind, “Erdgeist” e “Die büchse der Pandora”, ispirati alle turbolenze anarchiche di una donna che aveva scosso i drappeggi moralistici di fine secolo, Lou Andreas-Salomé. La singolarità della sua intelligenza, le sue idee sul “libero amore” affascinarono uomini come Friedrich Nietzsche e Paul Rée (con la quale convissero dando pubblico scandalo) ed anche Sigmund Freud sostenne che la Salomé era stata una delle sue migliori allieve. Rilke (il poeta degli angeli) la amò profondamente e le dedicò pagine indimenticabili. Questo simbolo dell’erotismo trasgressivo, perverso, omosessuale... restò vergine fino a 33 anni. Se poi non è vero, fa lo stesso. L’erotismo scabroso che la Brooks portava sullo schermo, incendiò molti pregiudizi. In qualche modo contribuì anche a disvelarli o a farli crollare. In “Lulù”, la sequenza lesbica tra Alice Roberts e la Brooks (la prima senza veli nella storia del cinema), fu così riuscita che piacque a pochi... in molti paesi la tagliarono per indecenza... eppure si trattava solo di un ballo tra due donne e l’intesa dei loro sguardi equivoci, sensuali e straordinari (resi indimenticabili dall’intelligente dal montaggio incrociato di Pabst). Qui, più che altrove, l’erotismo si risolve come metafora e oltrapassamento dei limiti, rottura del divieto. Qualcuno ha confuso l’erotismo con la perversione e ha scritto che Lulù/Brooks “rappresentava la quintessenza degli impulsi sessuali femminili, e dotata di una carica fisica ossessionante e aggressiva, Lulù aveva come unica spinta vitale il tentativo di placare i suoi insaziabili istinti, e il maschio come unico mezzo possibile di soddisfarli... Era incapace di comprendere la propria degenerazione... Priva d’interessi nella vita e non sul piano del sesso, puerile nel suo egoismo e nelle sue determinazioni, Lulù era l’essenza della gioventù, della bellezza e del fascino: non poteva finire che in modo violento, distrutta dalle stesse passioni” (Paul Rotha/Richard Griffith). Alle sentenze facili, ai crismi della “buona società” coatta, alla terribilità del sistema mercantile del pensiero, preferiamo l’humour noir di tutte le sessualità liberate. Dietro i “buoni sentimenti” c’è sempre la garrota. Come nei romanzi a puntate, nei telefilm o negli sceneggiati televisivi... la morte liquida la trasgressione. Cancellata l’anomalia, ritorna la decenza e vengono ripristinate regole e comportamenti. Il finale di “Lulù” è tra i più belli della storia del cinema. È la vigilia di Natale, in una nebbiosa strada di Londra, Lulù che si guadagna la vita facendo la puttana, adesca Jack lo Squartatore e firma la sua condanna a morte. Per la Brooks anche la pubblicazione dei suoi saggi sui semidei di Hollywood era ancora uno stare dentro la “macchina dei simulacri” e in una cartolina a Lotte H. Eisner annoterà: “Non scriverò più. Scrivere la verità per lettori nutriti dalle sciocchezze della pubblicità è un esercizio senza senso” (Louise Brooks). Questa era la donna “tanto bella quanto stupida” che ha incarnato sullo schermo la perversa innocenza di tutta un’epoca (C. Ricci).
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Da “Le dive del silenzio” di Vittorio Martinelli
Nella piazza grande di Bologna, qualche estate fa, è stato proiettato, restaurato e con accompagnamento orchestrale, il film tedesco “Die Büchse der Pandora” (1929); quando sullo schermo è apparsa Louise Brooks, l’interprete del film, dagli spettatori che gremivano il parterre s’è levato un brusio di approvazione che, moltiplicato per quattro o cinquemila - tanti erano i presenti - è diventato un boato. Omaggio a un’attrice che non è un personaggio contemporaneo, non è il mito creato artificialmente dal martellante star-system o dall’invadenza televisiva. I pochi film che vennero illeggiadriti dalla presenza di Louise Brooks sono stati girati alla fine degli anni Venti, quando la quasi totalità degli spettatori oggi trascinati da quell’ondata di entusiasmo non era nemmeno nata. Aveva ragione il conservatore della Cinémathèque Française, Henri Langlois, voce allora “clamans in deserto”, quando affermava che la Garbo, la Dietrich e tutte le altre erano donne, Louise invece era un’apparizione arcana, una magia vivente, benedetta da una personalità eccezionale e da una bellezza senza tempo, provocante e ribelle, il più bel volto del mondo. Chi è stata in realtà Louise Brooks? Innanzi tutto un’eterea danzatrice nella compagnia di Ted Shaw e Ruth Saint Denis, quella da cui sono uscite le Duncan Sisters e Martha Graham; fu poi con Ziegfeld ed infine venne scritturata dalla Paramount per filmetti di serie B. Sarà solo quando viene prestata alla Fox per “A Girl in Ev’ry Port” (1928), regia di Howard Hawks, che ci si accorgerà del potenziale erotico sprigionante da questa vivace fanciulla del Kansas; i moguls della casa con la montagna stellata la affidano allora a William Wellman per “Beggars of Life” (1928), dove Louise recita per buona parte del film en travesti, e poi all’eclettico Mal St. Clair per “The Canary Murder Case” (1929), prima versione cinematografica di un giallo di S.S. Van Dine. Frattanto “A Girl in Ev’ry Port” è giunto in Europa; in Germania diventa “Blonde Mädchen - Blaue jungens”. Pochi gli spettatori, ma tra questi v’è il regista Georg Wilhelm Pabst, il quale non vi nota alcuna “blonde mädchen”, ma la corvina zazzeretta di Louise Brooks, ravvisandone l’ideale interprete che andava da tempo cercando per “Die Büchse der Pandora”, dall’opera teatrale di Frank Wedekind. Quando Louise riceve l’invito di Pabst, sulle prime pensa a uno scherzo. Poi si imbarca per il vecchio continente; ad Amburgo prende il treno per Berlino, dove alla Station Am Zoo c’è Pabst ad attenderla con un gran fascio di fiori. È il 14 ottobre del 1928: qui comincia l’avventura del più bel regalo che Hollywood possa aver fatto all’Europa. Mentre si prepara a saccheggiarlo dei migliori attori e registi, l’America ripaga ampiamente il cinema europeo, cedendogli - senza rendersene conto - uno dei personaggi destinati a diventare una leggenda. Pabst è un regista spietato; la stessa Brooks, nel ricordare la sua trasferta tedesca, lo paragona ad un “animal tamer”, ma lo giustifica: sta raccontando la storia di Lulù, una donna perduta che semina la distruzione tra gli uomini che l’avvicinano e alla fine troverà a sua volta la morte per mano di Jack lo Squartatore. Secondo pannello erotico è “Das Tagebuch einer Verlorenen” (1929), sempre di Pabst, dove la protagonista Thymian attraversa le più sordide esperienze senza lasciarsi profanare; quindi Louise è l’interprete di “Prix de beauté” (1930), diretta dall’italiano Genina, in versione muta e poi sonorizzata. Anche qui sono tragedie: sia Genina che Edmond T. Greville, all’epoca addetto a tradurre alla Brooks il francese, lamentano nelle loro memorie le intemperanze dell’attrice, perennemente ubriaca, la quale però, dinnanzi alla macchina da presa, ridiventava il personaggio che, ancora oggi, dopo oltre settant’anni, magnetizza gli spettatori. Magnetismo tanto più misterioso se si pensa che i film suddetti ebbero scarsissima circolazione, sia perché vennero presentati nel momento della transizione tra il muto e il sonoro, sia perché vennero massacrati dalle varie censure o rifiutati del tutto da numerosi paesi europei, Italia in testa, che accettò solo “Prix de beaute”, facendolo uscire però con cinque anni di ritardo e in piena estate. La riscoperta di Louise Brooks data agli ultimi anni, e il suo mito ha raggiunto vette da capogiro. Quasi tutta la storiografia cinematografica la considera oggi la più significativa attrice del periodo muto. È indubbio che Louise, ogni qualvolta vengono riproposti i suoi film, irradia una bellezza, una giovinezza, una freschezza senza tempo: è forse «la bellezza del diavolo», di cui tanto si è parlato senza mai riuscire a spiegarne il senso, ne il mistero.
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FILMOGRAFIA ESSENZIALE
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