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“CINEMA ITALIANO” |
Anche in Italia, come altrove, il cinema si affacciò quale documento d’attualità. Se le primissime proiezioni pubbliche a titolo sperimentale risalgono al 1896, soltanto col nuovo secolo esse si diffusero continuativamente da Torino a Napoli. A Torino il pioniere fu A. Ambrosio e il suo campo preferito, dal 1904, la cineripresa dal vero, in cui si distinse l’operatore R. Omegna (specializzatosi inoltre nel film scientifico). Il primo film italiano a soggetto, “La presa di Roma” (250 m), uscì invece nel 1905 dalla società romana “Alberini Santoni”, che l’anno successivo si trasformò in “Cines”. Subito l’“Ambrosio”, l’“Itala” e le altre si convertirono al nuovo genere.
Nel biennio della prima stabilizzazione industriale (1907-08) la sola produzione delle nove case di produzione attive al Nord e al Sud non bastava ad alimentare gli oltre 500 cinematografi già in funzione nella penisola, per cui si rafforzò, badando soprattutto a soddisfare la quantità, anche il noleggio. Gli italiani avevano raggiunto una particolare abilità nel concentrare in poche centinaia di metri di pellicola un numero inverosimile di accidenti. Così nacque il filone comico con protagonisti come Cretinetti e altri, che presto si esaurì dopo aver fatto intravedere i rudimenti di un dinamismo nuovo. Ebbe invece maggior fortuna il film in costume, fermo sui moduli del melodramma e del solo romanzo “popolare” esistente in Italia, quello d’appendice. I colossi storici (“Quo vadis?”, 1913, di E. Guazzoni; “Gli ultimi giorni di Pompei” (nella foto), 1913, di M. Caserini; ecc.), che nei primi anni Dieci conquistarono i mercati stranieri, riempivano in patria un vuoto che la letteratura non aveva colmato. Finché nel 1913-14, in “Cabiria” del ragionier Pastrone (ribattezzato Piero Fosco), avvenne ufficialmente il connubio con la cultura (didascalie di D’Annunzio), ma i meriti tecnici del grandioso spettacolo in movimento non legavano troppo con la magniloquenza del poeta. Oltre “Cabiria”, comunque, non fu possibile spingersi: tant’è che proprio nel 1913, mentre splendidamente si suggellava il filone eroico, si apriva (con “Ma l’amor mio non muore”, ancora di Caserini) quello piccolo-borghese, salottiero e divistico.
I trionfi del costume, da un lato, e del divismo, dall’altro, sconfissero le uniche possibili alternative culturali: i film regionalisti alla Elvira Notari o i film naturalisti e veristi d’impronta meridionale, che ebbero in “Sperduti nel buio” (1914) di N. Martoglio un modello senza futuro. Per quanto eccellente in “Assunta Spina” (1915), la diva Bertini non rappresentò la popolana, ma la donna fatale, ancora espressione di quella belle époque che affogava nel sangue della grande guerra.
Il conflitto riportò in auge il documentario con le cinecronache dal fronte di L. Comerio e accelerò il processo di disfacimento del cinema narrativo nelle sue correnti artificiose predominanti. Per singolari tocchi di eleganza, di intimismo crepuscolare o di eccentrismo, si potrebbero tuttavia salvare alcuni titoli (da “Histoire d’un pierrot”, 1913, di B. Negroni a “Il re, le torri e gli alfieri”, 1917, di L. D’Ambra) e certi esperimenti avanguardisti di A. G. Bragaglia (“Perfido incanto” e “Thaïs”, 1916), mentre un cenno merita E. Ghione che, col nomignolo di Za-la-Mort, fu l’eroe patetico e sinistro di avventure in serie (la più nota: “I topi grigi”, 1917) sul modello francese e statunitense. “La parabola di Ghione - scrisse M. Gromo - doveva quasi essere un simbolo di quella del nostro cinema muto, che si credette invincibile, diventò megalomane, e morì squallido”.
Nel 1919 l’U.C.I. (Unione Cinematografica Italiana), il trust dei produttori a cui rimasero estranei soltanto S. Pittaluga a Torino e G. Lombardo a Napoli, tentò invano di porre un argine all’invadenza di Hollywood e dell’U.F.A. tedesca, senza peraltro controllare l’esercizio che invece era apertissimo alla produzione straniera, d’altronde ben più efficiente, e crollò nel 1924 con l’ultimo supercolosso (un secondo “Quo vadis?”, girato da G. Jacoby e Gabriellino D’Annunzio), mentre gli Americani, ispirati dai mitologici nostrani, vennero proprio in Italia a girare il loro primo gigantesco “Ben Hur” (1926), finito a Hollywood da F. Niblo. Né lo Stato fascista si adoperò per arrestare la crisi, pago di curare la propaganda del regime attraverso i cinegiornali LUCE.
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