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Regista (Salerno, 10 Febbraio 1875 – Cava de’ Tirreni, Salerno, 1946)
Elvira Coda, pioniera del cinema italiano dal 1906 al 1930. Con il marito Nicola Notari, pittore e fotografo, inizia l’attività cinematografica nel 1906 realizzando vari cortometraggi incentrati sulla vita quotidiana che vengono presentati dopo i film in proiezione nelle sale. Nel 1910 fonda insieme al marito la Film Dora che cinque anni dopo diviene la Dora Film. Dal 1911 iniziano a realizzare anche film a soggetto che la Notari scrive e dirige lasciando a Nicola i compiti tecnici (riprese, ecc.). Donna energica e di notevole cultura, intuisce le possibilità offerte al cinema dalla narrativa feuilletonistica dell’epoca nella sua versione partenopea e si mette a realizzare film su donne sedotte e abbandonate, su improbabili rubacuori spesso coinvolti in affari malavitosi o su madri di famiglia decise a difendere ad ogni costo l’onore delle famiglie. Spesso questi film forniscono una documentazione interessantissima sulle consuetudini e i costumi del popolo partenopeo e conoscono una grande diffusione nelle sale del Meridione come presso il grande pubblico degli emigrati nelle Americhe. Alla fine degli anni Venti i provvedimenti contrari alle culture regionali assunti dal governo fascista e l’avvento del sonoro costringono la Dora Film alla chiusura. I coniugi Notari si ritirano dall’attività ed Elvira si fa promotrice di una Scuola d’Arte Cinematografica.
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Da “Dolci sorelle di rabbia – Cento anni di cinemadonna” di Pino Bertelli
In Italia la prima donna ad impugnare una macchina da presa (ma la conoscenza etica del mezzo è altra cosa) è Elvira Notari (1875-1946). Insieme al marito (Nicola), fondano una casa di produzione, la Dora Films, che sarà attiva fino all’avvento del fascismo. Il primo teatro di posa napoletano nasce ai Ponti Rossi (nella loro casa di via Leonardo di Capua) nel 1912, e si deve al loro spirito artigianale se negli anni del cinema muto l’immagine popolare (forse fin troppo) di Napoli viene diffusa in Italia e all’estero (specie nelle Americhe). Sulla nostalgia dell’emigrante sono sempre state erette forche sanguinolente e mitologie votive di bassa levatura. La Notari gira, sceneggia, monta e qualche volta interpreta i suoi film. Per circa 25 anni organizza e anima una produzione di oltre 60 lungometraggi e un centinaio di cortometraggi e documentari. Era nata a Salerno. Le vengono attribuite (con grande “naturalezza” biografica) scuole normali (le magistrali), la professione di insegnante e la gioia per la danza. Nel 1902 si trasferisce a Napoli e sposa Nicola, ex pittore, fotografo e disegnatore di pellicole. Nel laboratorio del marito danno vita alla loro casa di produzione (la Dora Films). In principio sono cortometraggi di 10/20 metri, colorati a mano, fotogramma per fotogramma, avve¬nimenti napoletani e cineattualità che vendono come “Arrivederci” ed “Augurali”... cartoline visive insomma. Tutta roba che veniva acquistata con ardore dagli emigranti in odore di lacrime facili. Nel cinema italiano delle origini, la Dora Films assume un posto prestigioso. Produce diversi generi. Documentari, romanzi popolari, drammi di vita vissuta e rivisita anche (si fa per dire) la tragedia greca... accanto alla casa di produzione nascono il laboratorio di stampa, il teatro di posa e compartecipazioni della ditta con l’editoria, la pubblicità, le edizioni musicali... più di un’industria culturale in anticipo sui tempi, la Dora Films rappresentava un “artigianato della cultura” a Napoli e altrove. A fianco dei Notari c’è Miguel Di Giacomo (Michele) e per molti anni sarà il vero artefice della fortuna cinematografica dei Notari. Miguel, non era proprio uno sprovveduto. Fratello del celebre Salvatore Di Giacomo, è stato il vero “autore” di molte storie della Dora Films, che non solo saccheggiava dalla letteratura popolare ma era solito anche filmare, fotografare e montare questi film un po’ sgangherati e spesso “migliori” di quanto si leggeva sul lenzuolo a pezze della macchina delle meraviglie (il cinematografo). Nel 1914 Elvira Notari dirige un film piuttosto interessante, che conserva una struttura o un’intenzionalità filmica non banale, “Ritorna all’onda”. Si tratta di un’orfanella salvata da un pescatore durante una furiosa mareggiata. Il pescatore la porta nella sua casa e l’accoglie come figlia. L’orfanella cresce con i due ragazzi del pescatore e quando sono più grandi s’innamorano della sorella adottiva. I giovani litigano per lei, si picchiano, desiderano con forza l’amore della ragazza. L’orfanella però li ama come fratelli e così, disperata e sola, ritorna all’onda, cioè si affoga nel mare di Mergellina. Le venature moralistiche sono evidenti e come in tutta la produzione della Notari, sovente il bozzetto sostituisce la storia, anche con cadute espressive che rasentano il ridicolo... gli “sguardi” della macchina da presa sui corpi e sull’ambiente sono meno superficiali di quanto è stato scritto (per quanto involontari). La produzione della Dora Films è varia. Ci sono “ricostruzioni” dell’occupazione borbonica (“Gabriele il Lampionaio”, 1919, tratto da “Rosa la pazza” di Nicola De Lise) e “riproposte” della tragedia di Euripide, “Medea di Portamedina”. «Coletta Esposito, una trovatella cresciuta all’Annunziata, benché ami lo scrivano del Pio Istituto, Cipriano, è costretta a sposare un vecchio repellente. Con l’aiuto di una misteriosa benefattrice, riesce a fuggire con Cipriano. Quando poi Cipriano, che è un debole, si lascia sedurre da un’altra donna, la vendetta di Coletta è terribile: non solo uccide la rivale, ma anche la figlia avuta dall’infedele marito. E viene condannata alla decapitazione...» (Vittorio Martinelli). Il successo fu strepitoso. Sulla spinta di questo consenso al botteghino, la Dora Films sforna “Chiarina la modista” (1919), scippato a un romanzo di Carolina Invernizio. Il film ha degli intoppi produttivi, per una scena girata in “manicomio” e giudicata troppo cruda, la censura ne vieta l’uscita. I Notari accettano il taglio della sequenza incriminata e “Chiarina la modista” ottiene il visto per il circuito commerciale. Nel 1920 i Notari producono “‘A Legge”, “‘A Piedigrotta” e “A’ Mala nova”. Sono drammi ispirati alle canzoni di E. A. Mario (“‘A Legge”) o scenette che riprendono l’ambiente della malavita napoletana visto con occhi benevoli (“‘A Piedigrotta” e “A’ Mala nova”). Se in Italia il consenso di pubblico è legato a Napoli e poco altro, all’estero il successo della Dora Films è enorme, specie tra le comunità di emigrati negli Stati Uniti. La melassa visiva è dirompente. La nostalgia non sconvolge la bellezza, la uccide. Ciò che importa non è la verità ma il suo valore d’uso. Non si viene mai a capo di nulla quando le lacrime sono false e l’inchiostro delle immagini è una macchia senza colpa buttata sullo schermo per soffiare nei cuori soltanto la speranza commossa di una cartolina postale. Nel 1921 esce “Luciella”, anche questo film è ambientato nei bassifondi napoletani. Gli strali della critica cinematografica sono velenosi e alcuni giornalisti come Emilio Pastori, sulla rivista torinese “La Vita Cinematografica”, tacciano la Notari di leggerezza culturale nei confronti della malavita napoletana e si chiede che certi argomenti popolari potrebbero essere trattati in modo diverso. Più attinenti ai fatti. Non hanno del tutto torto. In effetti la Notari vede nella “guapperia” una nobiltà d’animo che proprio non sembra ci sia stata (ne c’è). Quando sotto la sigla della Gennariello Films, produce due pellicole che hanno per protagonista il figlio, con questi titoli: “Gennariello, il figlio del galeotto” e “Gennariello polizziotto” (con due zeta)... non è difficile comprendere quanto il senso spicciolo per gli affari dei Notari sia legato alla piaggeria, nemmeno troppo celata, con il micromondo per niente fantasioso della marginalità napoletana. Tra i film della Notari restano da ricordare almeno due produzioni, “‘A Santanotte”, “‘E Piccerella” (entrambi del 1922). Il primo viene tratto da una canzone di successo scritta da E. Sala, interpretato dal figlio della Notari, Gennariello (Eduardo) e Rosé Angione, l’altro è l’illustrazione della canzone di Libero Bovio e gli interpreti sono ancora Gennariello e Rosé. Nel 1923, con “Cor’e frate”, “‘O cuppè d’ ‘a morte” e “Sotto San Francisco”, la Dora Films riscontra un notevole consenso di pubblico. Nei primi anni del fascismo al potere, escono “‘Nfama!”, “A Marechiare ‘nce sta ‘na funesta” e “Così piange Pierrot” ma i tempi sono cambiati, le penne del regime attaccano la regista e considerano i suoi lavori della spazzatura che disonora il nome (l’immagine cartolinesca) del fascismo e l’Italia tutta. Racconta Eduardo (Gennariello) Notari: «Mia madre, contrariamente a quanto risulta da fonti storiche del tutto disinformate, diresse tutti i film della nostra produzione, dal primo all’ultimo, compresi gli oltre sessanta lungometraggi. Non solo, era anche l’autrice dei soggetti originali e degli adattamenti; in genere si trattava di storie che s’ispiravano a canzoni napoletane in voga allora, ma era sempre lei la vera autrice della trama. I titoli delle popolari canzoni contribuivano ad attirare il pubblico. I soggetti originali scritti da mia madre erano densi di vicissitudini drammatiche, di intrecci, di destini tragici. Il pubblico si identificava con i personaggi al punto che il cinema Vittoria di Napoli divenne proverbiale per uno spettatore che sparò alcuni colpi di pistola sullo schermo, per uccidere il “cattivo”. Sin da bambino lavoravo come attore in quasi tutti i film e mia madre mi creava il ruolo a seconda della mia età, ma il mio personaggio aveva sempre il nome di “Gennariello” che divenne il mio pseudonimo». I tempi di lavorazione, fino alla copia finale, non superavano mai le cinque settimane. Il successo dei film di Elvira Notari era popolare... il caso più vistoso fu “‘A Legge” (o “‘Nfama!”) che al cinema Vittoria di Napoli resse per 32 giorni con punte di 6000 presenze giornaliere: non c’è da stupirsi se si pensa che le programmazioni cominciavano dalle 9 della mattina e proseguivano fino a notte inoltrata... inoltre c’è da dire che la stessa copia del film passava attraverso due proiettori che la proiettavano in due sale attigue, così da rendere possibile l’accompagnamento musicale del film e le canzoni dal vivo in entrambe le sale contemporaneamente (naturalmente c’era un certo sfasamento del sincrono nel secondo schermo). Il cinema della Notari, registra comunque una cultura d’abbordaggio dove ciò che si trasporta sullo schermo è sempre contenuto in situazioni che finiscono per essere rassicuranti e consolatorie. Ogni chiusa è l’apoteosi del “miracolo napoletano”. Le Madonne dei marinai conservano la propria illibatezza per i giovani pescatori, le mamme piangono austere il figlio che torna dalla guerra, l’amore trionfa sulla fame quotidiana. Guappi e scugnizzi sono sovente una nota di colore. Sotto il sole di Napoli (ieri e sempre), l’ingiustizia sociale viene sapientemente celata nell’omertà o/e nelle pieghe dell’insignificanza mercantile. Il “lieto fine” non è stato inventato a Hollywood, ma a Napoli. Nella storiografia cinematografica italiana, il “cinema di Masaniello” assume però un’importanza culturale di non poco conto. Opere dialettali/napoletane come “Sperduti nel buio” (1914) di Nino Martoglio (dal dramma omonimo del 1901 e adattamento per lo schermo di Roberto Bracco) e “Assunta Spina” (1915) di Francesca Bertini e Gustavo Serena (tratto dal dramma omonimo di Salvatore Di Giacomo), restano lì a testimoniare un cinema di strada, realista in sé, tanto da suscitare le ire dei censori politici. (…) Il cinema muto napoletano raccontava più di quello che pretendeva. Il fascismo non poteva sopportare di essere iconizzato in pellicole B-movie che non idolatravano un popolo alla conquista dell’impero (come quelle di Elvira Notari). Così, nel 1928, una circolare della commissione di censura stroncava quello che rimaneva di un cinema artigianale con punte e tendenze autenticamente popolari: «rilevata la persistenza di alcune Case cinematografiche di lanciare sul mercato film aventi per soggetto scene ed ambienti napoletani che, se non ancora scomparse dalla vita di quella città, non rappresentano più la caratteristica di quella popolazione; considerato che siffatti film a base di posteggiatori, pezzenti, scugnizzi, di vicoli sporchi, di stracci e di gente dedita al dolce far niente sono una calunnia per una popolazione che pur lavora e cerca di elevarsi nel tono di vita sociale e materiale che il Regime imprime al paese; considerato, peraltro, che siffatti film sono eseguiti con criteri privi di qualsiasi senso artistico, indegni della bellezza che la natura ha prodigato alla terra di Napoli, è stato deciso di negare, in via di massima, l’approvazione dei film che persistono su cliches che offendono la dignità di Napoli e l’intera regione» (AA.VV. “Cinema & Film”). Con questa circolare, il “cinema di Masaniello” veniva cancellato dall’apoteosi del fascismo. I cinegiornali LUCE (Unione Cinematografica Educativa), il cinema dei telefoni bianchi e delle camicie nere e la polizia politica - la «pupilla del regime» (Benito Mussolini) - edificheranno la dolcificazione dell’intollerabile facciata del “ventennio nero” e insegneranno a un intero popolo il timore rispettoso per i propri boia. Da uno schermo multicolore, multietnico, senza confini, emergeranno un giorno le immagini di terre liberate dove una poetica della carezza restituirà la voce a chi non l’ha mai avuta... al fondo dell’intercultura tra i popoli c’è una tenerezza del “risveglio” che rende innocui i simulacri di idee che sono già morte nei cuori degli uomini e delle donne della società omologata.
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