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“BREVE STORIA DEL CINEMA” |
Gli anni Sessanta sono caratterizzati da un autentico interesse per l’emergere di nuove cinematografie, da quella indiana (che vanta autori come S. Ray e M. Sen), a quella cubana (con registi come T. G. Alea e J. G. Espinosa), a quella cinese (dal vastissimo mercato sin dagli anni Trenta e Quaranta), mentre talune novità interessanti provengono dall’Africa, laddove la cinematografia sta compiendo i passi iniziali (il primo lungometraggio è del 1955 e del 1963 è il notevole “Borom Saret” del senegalese U. Sembene). Tra i paesi arabi si segnala soprattutto l’Egitto con registi come Y. Chanine, S. Abu Seif, T. Salah, mentre in Turchia, dove emerge A. Yilmaz, la cinematografia è presente sin da prima della guerra.
Andando verso gli anni Sessanta, quindi, diventa impossibile confinare la storia del cinema ad un limitato numero di grandi Paesi: lo scacchiere mondiale non è più controllabile da un solo storico, fosse pure uno come G. Sadoul. Giappone, India, la sola città di Hong Kong sfornano annualmente più film di Hollywood, la quale, del resto, subisce un processo di graduale ridimensionamento sia per la concorrenza della televisione, sia per l’ascesa di molte altre “centrali” (tra cui anche Cinecittà), sia per l’affermazione di un nuovo e assai più libero modo di far cinema. Tramonta dunque in America, come anche a Tokyo, la dittatura delle major companies, anche se i capitali di Wall Street o dei finanzieri giapponesi trovano egualmente il loro impiego remunerativo: ad esempio nel filone sexy-avventuroso o solamente sexy che un po’ dovunque ha alimentato il cinema capitalistico.
La storia del cinema tende anche a farsi storia di singoli cineasti, di “mostri” più o meno sacri: Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti in Italia, R. Bresson e Alain Resnais in Francia, Ingmar Bergman in Svezia, Luis Buñuel in Messico, Francia e Spagna.
Ma gli anni Sessanta vedono anche la confortante svolta del cinema d’animazione, sottratto definitivamente all’ipoteca figurativa più deteriore; la nascita di nuove cinematografie a Cuba, in Algeria, nell’Africa nera, in Bolivia; l’affermazione delle repubbliche meridionali e asiatiche dell’U.R.S.S.; la turbinosa crescita del cinema d’intervento, contestazione o guerriglia. Vedono soprattutto, e quasi universalmente, il successo del Nuovo Cinema sotto varie denominazioni e scuole: la nouvelle vague francese, la più generazionale e reclamizzata; il free cinema inglese, che convoglia gli “arrabbiati” del teatro, del documentarismo e della letteratura; il cinema nôvo in Brasile che si presenta come cinema della fame, del sottosviluppo e della rivolta; la nová vlna cecoslovacca, che esprime la “primavera” di Praga; la Neue Wege tedesco occidentale, autocritica sul passato che guarda dietro la facciata del miracolo economico; il New American Cinema e l’underground negli Stati Uniti. E anche senza bandiere o definizioni precise una potente scuola nazionale si impone in Ungheria, una contestazione assai vivace fermenta in Iugoslavia, la corrente “politica” italiana ripropone un impegno civile, personalità eterodosse (come A. Tarkovskij, S. Paradzanov) si affermano in U.R.S.S., il cinema “diretto” (cinema-vérité) affronta i problemi del Canada francese, uno stile egiziano si precisa, linguaggi autonomi affiorano in Romania, Bulgaria, Finlandia, Spagna, Portogallo; mentre dall’Argentina si volge al Terzo Mondo il modello di film militante (“L’ora dei forni”, di F. Solanas e O. Getino), mentre in Giappone perfino il film di sesso e di violenza è incorporato nel dibattito ideologico, mentre la Rivoluzione culturale cinese rimette in discussione anche il cinema più alto e progressista del passato. Questo nuovo cinema ha avuto spesso vita breve, travagliata, o bruscamente spezzata (Brasile, Cecoslovacchia); talvolta si è esaurito in se stesso (Francia) o è stato assorbito da altri (Gran Bretagna), ma comunque ha caratterizzato un periodo del cinema mondiale in modo irreversibile, apportando anche vere rivoluzioni di linguaggio (Jean-Luc Godard, M. Jancsó, N. Oshima, J. M. Straub, Andy Warhol) e uno sguardo inedito, lucido e senza miti sulla realtà.
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