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DOCUMENTARIO |
Il documentario nacque col cinema stesso, cioè con le riprese girate “dal vero”. Assurse ad arte creativa, con le opere di Vertov, Flaherty, Ivens, Grierson. Nella storia del cinema il documentario è stato sovente la forma più avanzata d’intervento culturale e politico e ha preceduto spesso le migliori tendenze del film a soggetto (verismo francese, neorealismo italiano, ecc.) o perfino la nascita di alcune cinematografie nazionali nei nuovi continenti (America Latina, Africa, ecc.). Decisiva fu la presenza anticipatrice del documentario militante nei “nuovi corsi” degli anni Sessanta in tutto il mondo. Dopo J. Ivens, precursore del cinema militante, tra i documentaristi sono emersi i francesi Rouch e Rossif, i canadesi Brault e Perrault, il cubano Álvarez, l’australiano Dunlop, lo statunitense Wiseman, l’italiano Quilici.
Negli anni Settanta, sotto l’influsso del film-inchiesta televisivo, si è registrata una svolta anche nell’estensione in termini di metraggio. Mentre i classici del documentario, da “Nanook of the North” (1922) di Flaherty a “L’uomo con la macchina da presa” (1929) di Vertov, a “Terra di Spagna” (1937) di Ivens, a “Tra i ghiacci dell’oceano” (1953) di Zguridi, a “Il mondo del silenzio” (1956) di Cousteau, a “Skopje 63” di Bulajic, non superavano le due ore, con “La hora de los hornos” (1968), degli argentini Solanas e Getino, si ebbe un duplice impulso verso la testimonianza militante e l’album geo-sociale e geo-politico, oppure antropologico, di vasta dimensione. Così l’atlante sovietico di “Roman Karmen” (1978) dedicato all’America Latina, le inchieste dei tedeschi orientali Heynowski Scheumann sulla tragedia del Cile e sul Vietnam, l’indagine storica in tre parti del film di montaggio “La batalla de Chile” (1973-75) del cileno Guzmán, ultimato a Cuba, il gigantesco affresco di Ivens sulla Cina, “Come Yukong rimosse le montagne” (1973-75, 12 film per complessive 11 ore di proiezione) e ancora, nel campo etnografico, le quasi 8 ore occorse all’australiano Dunlop in “Towards Baruya Manhood” (1973) per documentare i rituali di una tribù della Nuova Guinea. Un vero e proprio atlante sociale è quello realizzato, negli Stati Uniti, da F. Wiseman, che continua a svolgere un’intensa attività di controinformazione, mettendo sotto accusa, con rigore scientifico, le varie istituzioni. Il metodo dell’inchiesta di lungometraggio, talvolta con lunghissima permanenza in loco, è proseguito negli anni Ottanta consentendo ai dieci cineasti del gruppo giapponese capeggiato da Shinsuke Ogawa di realizzare (dopo aver trascorso diversi anni con i contadini, condividendone vita e lavoro) di arrivare al magnifico film di 4 ore “Il villaggio Furuyashiki”, presentato nel 1984 al Festival di Berlino. L’anno precedente, alla Mostra di Venezia, il francese Rouquier aveva portato il suo “Biquefarre” che, nella forma mista tra documentario e fiction, costituiva un altro monumento di cinema rurale. Su un piano più modesto “Nel mezzo della Germania” (1983) di Ch. Hübner e G. Voss era il frutto di tre anni di soggiorno in un paese minerario della Ruhr.
I problemi del mondo del lavoro, del movimento ecologico e pacifista, del Terzo Mondo e del rapporto Nord-Sud, del sistema economico occidentale o delle fabbriche di armi, continuano a essere al centro dei documentari che si fanno nel mondo capitalistico avanzato. Mentre la scuola canadese, sia quella francofona di Perrault e di Lamothe, sia quella anglofona di C. Low, privilegia l’uomo in rapporto alla natura, come quella dello straordinario documentarista armeno A. Pelesian (“Le stagioni”, 1975), altri si cimentano con la guerriglia, nell’America Latina (Nicaragua, Salvador) come in Africa (Angola, Mozambico), o si muovono clandestinamente nei Paesi sottoposti a dittatura. E appena torna la democrazia, escono bilanci come “La República perdida” (1983) di M. Perez che abbraccia mezzo secolo di repressioni in Argentina.
Vi è poi in tutto il mondo un vivacissimo segmento produttivo indipendente, al limite, spesso, del puro artigianato amatoriale, che con scarsi mezzi e una quasi inesistente distribuzione, produce centinaia di titoli che documentano non solo eventi legati al movimento GLBT, ma anche la vita di uomini e donne omosessuali volutamente dimenticati, ignorati nonostante, talvolta, abbiano contribuito a scrivere la storia sociale, culturale e politica non solo del loro paese.
Ci sono cineasti illustri, come Herzog, Delvaux, Schmid, Schroeter, che non trascurano il documentario. E, mentre in Italia la pratica documentaristica è, salvo rare eccezioni, quasi completamente sparita, negli U.S.A. è possibile scoprire l’altra faccia dell’America quasi esclusivamente attraverso il documentario di montaggio (come “Dialogue with a Woman Departed”, 1981, in cui L. Hurwitz ripercorre la storia dell’America progressista dalle origini indiane alle manifestazioni contro la guerra in Vietnam, o “Harlan County U.S.A.” di B. Kopple, che vinse l’Oscar del documentario nel 1977) e tende ad amplificarsi quella corrente che si ricollega alla memoria storica delle grandi lotte sociali e politiche, per agire con maggiore combattività sul presente.
Il documentario televisivo, simile a quello cinematografico, presenta alcune peculiarità, dovute all’immediatezza con cui può farsi portatore dell’attualità e a particolari possibilità tecniche, che ampliano il campo d’azione del documentarista, consentendogli di affrontare, secondo la formula del film-inchiesta, problemi e avvenimenti di interesse pubblico (politici, di costume, sociali, scientifici, ecc.).
Breve storia del cinema…
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