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“CINEMA ITALIANO”
DAL SONORO AL NEOREALISMO |
Una certa ripresa (non “rinascita” come allora fu definita) si ebbe soltanto all’avvento del sonoro, quando Pittaluga riuscì a riaprire la “Cines” (1930) e poi, con la direzione artistica di E. Cecchi, si poté dar esito all’interesse per il cinema avvertito da qualche anno negli ambienti intellettuali. I due registi che avrebbero caratterizzato il decennio, M. Camerini e A. Blasetti, realizzarono le loro opere migliori, rispettivamente “Gli uomini, che mascalzoni!” (1932) e “1860” (1934). Vennero invitati cineasti stranieri come W. Ruttmann e M. Ophüls, fu stimolato il documentario anche sociale (“Cantieri dell’Adriatico”, 1933, di U. Barbaro) e un film, “Ragazzo” di I. Perilli, venne vietato dalla censura. Si recepivano le lezioni stilistiche e perfino contenutistiche dall’estero: seppure a modo suo, Blasetti si era dimostrato attento ai Sovietici e Barbaro traduceva Pudovkin e altri saggi teorici innovatori. Ma il regime intervenne a “fascistizzare” il cinema, che parafrasando Lenin (“l’arte più importante”) Mussolini chiamò “l’arma più forte”.
Creata nel 1935 la Direzione generale per la cinematografia, al gruppo Pittaluga in liquidazione fu sostituito tra il 1936 e il 1938 un complesso parastatale di sale (monopolio ENIC), di studi (Cinecittà) e di produzione (la terza “Cines”). Nonostante tutto non si approdò al film “fascista” (nel 1937 “Scipione l’Africano”, di C. Gallone, naufragò nel ridicolo) ma ad una produzione, nei casi meno indegni, spettacolarmente evasiva (Blasetti) e tendenzialmente piccolo-borghese (Camerini), alimentando più la commedia dei telefoni bianchi che l’“epos virile” (cui sacrificarono A. Genina e G. Alessandrini). Anzi, il Centro sperimentale, dove insegnava Barbaro fiancheggiato e protetto da L. Chiarini, e le riviste “Cinema” e “Bianco e Nero” svolsero sostanzialmente un’azione estranea o di disturbo e finirono col preparare una generazione di antifascisti. La guerra radicalizzò la contraddizione: per evitare la propaganda diretta ci si rifugiò nel formalismo e calligrafismo letterario (M. Soldati, Alberto Lattuada, R. Castellani) o nel documentarismo d’arte (la coppia Emmer-Gras) e mentre C. Zavattini sceneggiava la flebile protesta della piccola borghesia (“Quattro passi fra le nuvole”, 1942, di Blasetti; “I bambini ci guardano”, 1943, di Vittorio De Sica, passato anche alla regia) e il comandante di Marina F. De Robertis si avvaleva d’interpreti autentici per cronache di guerra “obiettive” (la più genuina e sorprendente delle quali fu la prima: “Uomini sul fondo”, 1941), con “Ossessione” di L. Visconti, in nome del verismo e di un Paese reale, la pattuglia di punta lanciò nel 1942-43 una sfida di cui, sebbene impegnato da più drammatici problemi, perfino il regime non poté far a meno di accorgersi.
Resa inoperante e saccheggiata Cinecittà dai Tedeschi, l’Italia si trovò a edificare un cinema finalmente libero sulle macerie della guerra e sulla scia ideale unitaria della Resistenza nasce il neorealismo, fenomeno che mette il cinema all’avanguardia della cultura, non solo italiana. Praticamente senza produttori, con attori presi dalla strada, i film di Roberto Rossellini, di De Sica, di Visconti esprimono della nazione ciò che il fascismo aveva umiliato e nascosto. Dire la verità diventa così un imperativo morale, come rendere protagonisti gli sfruttati, gli abbandonati, i deboli. Un cinema che, per la prima volta, rivelava la nazione a se stessa, non tacendo né miseria né problemi, ma sottolineando dignità e diritti di un popolo che, divenuto protagonista della storia, lo fu anche delle vicende reali dello schermo. Il neorealismo è, dunque, da un lato confluenza e maturazione delle migliori istanze del passato, dall’altro apertura verso una società tutta da esplorare. Da “Roma città aperta” (1945) e “Paisà” (1946) di R. Rossellini a “La terra trema” (1948) di Visconti, da “Sciuscià” (1946) e “Ladri di biciclette” (1948) a “Umberto D” (1952) di De Sica-Zavattini, fu una stagione breve e gloriosa, qui ricordata nelle sue vette artistiche, ma alla quale partecipò a diversi livelli e in varie direzioni gran parte del cinema postbellico, affermando molte voci nuove. Trionfante sul piano mondiale, in patria il neorealismo ebbe un’intensa ma breve primavera. La diffusione di pellicole hollywoodiane, il mutato clima di restaurazione politica, lo esaurì nella denuncia, mentre all’inizio degli anni Cinquanta aveva successo un altro cinema, in parte proveniente dai suoi cascami sostituendo alla disperazione “due soldi di speranza”, all’esame critico “Pane, amore e fantasia”, ai problemi sociali le “maggiorate” fisiche, come promettevano gli stessi titoli. Un’errata politica avvilì anche il fervore documentaristico dei giovani, abbinando ai film con grande incasso i prodotti più conformistici, mentre la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, sorta nel 1932, subiva un continuo deterioramento. Venne a mancare un cinema idealmente e culturalmente compatto, mentre si affermò solo il cinema delle varie personalità (Rossellini o Germi, Fellini, Visconti o Antonioni) attraverso quelli che C. Lizzani ha definito nella sua Storia del cinema italiano (1953) “i film della crisi”. Lasciato a se stesso, ciascuno di questi registi (si potrebbero aggiungere lo stesso Lizzani, Alberto Lattuada, G. De Santis, L. Zampa, M. Monicelli, Mauro Bolognini e altri) percorse una propria strada isolata, sviluppando un proprio genere personale, talvolta non senza eclettismo come P. Germi, che dai temi sociali (“In nome della legge”, 1949; “Il cammino della speranza”, 1950) passò all’autobiografia familiare (“Il ferroviere”, 1956; “L’uomo di paglia”, 1958), per dedicarsi infine, da “Divorzio all’italiana” (1962) in poi, alla commedia di costume. Più coerente si è rivelato il cammino di F. Fellini, che, provenendo dal sodalizio con Rossellini, sembrò, specie con “La strada” (1954), dilatarne la componente mistica; mentre Visconti in “Senso” prefigurava nello stesso anno, ma con un vigore che non avrebbe più ritrovato, la scelta per lo spettacolo fastoso cui sarebbe approdato, dopo “Il gattopardo” (1963), alla fine degli anni Sessanta. Tenace, contrastato e difficile fu l’avvicinamento di M. Antonioni, da “Cronaca di un amore” (1950) a “Il grido” (1957), al proprio mondo, che doveva pienamente affermarsi nel 1960 con “L’avventura”: il mondo del privato e dell’incomunicabile che, già balenante in “Europa ‘51” (1952) e “Viaggio in Italia” (1953) di Rossellini, aveva caratterizzato la crisi del decennio e si sarebbe proposto in seguito a paradigma internazionale.
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