|
NEW QUEER & NEW DYKE CINEMA
|
Quest’espressione (New Queer Cinema) fu coniata nel 1992 dal giornalista B. Ruby Rich in un articolo sul “Village Voice”, nel quale si tiravano le somme della stagione cinematografica appena conclusa, particolarmente ricca di film a tematica omosessuale. Esso è uno dei prodotti più schietti e significativi della lotta e delle conquiste della comunità gay americana: trovò infatti linfa nel dibattito politico di quegli anni, acceso dalla militanza politica e da molti temi: la presa di coscienza, il pride, il coming out, l’Aids.
Il “New Queer Cinema” scaturì dunque dal desiderio impellente di quella comunità di uscire allo scoperto e di dichiarare la propria identità anche sullo schermo, riconoscendosi in prodotti finalmente differenti da quelli falsi hollywoodiani. Così, si è assistito alla nascita di una vera e propria cinematografia gay, con un sensibile aumento della produzione; contemporaneamente, sono proliferati i festival specializzati e la presenza di questi film è diventata sempre più caratterizzante, anche in quelli non immediatamente specifici (come il Sundance o i festival di Berlino o Rotterdam), col risultato di accaparrarsi delle valide distribuzioni anche in Italia. D’altra parte, una delle caratteristiche di maggiore novità del cinema indipendente degli anni Novanta è giustappunto il proporsi come rampa di lancio per il cinema mainstream (raggiunto il quale sarebbe augurabile non perdesse del tutto le proprie peculiarità). Ciò dipende dal fatto che questa new wave ha saputo conquistarsi una discreta popolarità anche presso un pubblico di massa, che mostra di gradire quelle vicende. Il che non toglie, naturalmente, che essa si rivolga innanzitutto al pubblico gay, il quale - conquistato dal fatto che l’omosessualità sia presentata senza false remore - ama identificarsi nelle storie e nei personaggi, magari chiudendo un occhio sul livello di artisticità dei film che, com’è tipico della produzione d’avanguardia o a basso costo, non è sempre apprezzabile.
Pur avendo immediatamente preso piede, la definizione di “New Queer Cinema” (queer è un termine, in origine spregiativo, ormai usato comunemente e senza alcuna connotazione negativa nella comunità gay) non ha in realtà al suo attivo caratteristiche ben precise, al di là della volontà di ridefinire, quando necessario - magari con nuovi linguaggi, che forzano o rivisitano quelli tradizionali - gli stili e i generi cinematografici in rapporto alle nuove esigenze. In effetti, non esistono qualità formali che accomunino i registi, molti dei quali, peraltro, sono essi stessi particolarmente poliedrici; dunque essa appare più come un segnale che una tendenza vera e propria.
Anche contestando l’esistenza di questa new wave, bisogna però prendere atto di una produzione dai requisiti indubbiamente originali, che nasce da una comune esigenza di provare strade mai esplorate, rileggendo la realtà circostante da un punto di vista gay. Una sensibilità differente, dunque, che si caratterizza per una nuova percezione della sessualità, che lascia molto spazio alla fisicità: un “cinema del desiderio” che, con uno sguardo e pulsioni gay, introduce un inedito linguaggio erotico del corpo, attraverso una macchina da presa avida di corpi, di primi piani, di sesso. Ha quindi ragione Todd Haynes quando afferma, a proposito del suo “Safe”, che il “New Queer Cinema” non è solo una questione di contenuto: “Il cinema omosessuale è caratterizzato non tanto dalle sue storie - che riguardano personaggi gay - ma dallo stile, che si vorrebbe innovativo e capace di veicolare nuove visioni del mondo e punti di vista differenti. In questo senso credo che Safe sia gay: la sua prospettiva non è quella dominante; è una visione del mondo non desunta dalla cultura mainstream” (“Babilonia”, n. 140).
Comunque sia, questa nuova tendenza trova i principali, incontestabili punti di riferimento in alcuni registi europei degli anni ottanta: Derek Jarman, Pedro Almodóvar, Rainer Werner Fassbinder e Chantal Akerman, per non citarne che qualcuno (d’altra parte il movimento interessa anche registi non americani, dal tedesco Michael Stock all’inglese Isaac Julien). Ma le radici si possono trovare anche nello stesso cinema americano, sia in registi insospettabili come Alfred Hitchcock, sia nell’underground: Kenneth Anger, Andy Warhol, Paul Morrissey, Gregory Markopoulos, Ron Rice, Jack Smith (...).
Il favore del pubblico, gay e non, ha contribuito da parte propria a quel fenomeno, già notato, dello slittamento verso generi consolidati. In sé il “New Queer” non privilegia nessun genere, amando spaziare con disinvoltura dall’uno all’altro: dalla commedia al prodotto militante, dal noir al drammatico, dai film sull’Aids a quelli sulla prostituzione, in un pot-pourri che unisce lesbiche e trans, il camp e il punk. Ma, nonostante questa vivacità, non si può non essere d’accordo con Vito Russo sul fatto che in generale i più recenti film indipendenti “sono meno battaglieri o con un tono non rigorosamente didattico”. Senza dubbio, bisogna dire che in generale molti film hanno abbandonato quegli spunti politici e sociali tipici dei decenni passati per slittare su in un discorso più personale e meno rivendicativo, che però ha ampliato l’orizzonte su ogni ceto e su ogni razza, esplorando con curiosità culture e sotto culture mai prese prima in considerazione. Inoltre, la ricerca sperimentalista è diminuita rispetto al passato, in particolare nei lungometraggi, e con essa la stessa voglia di trasgressione (il che non toglie, naturalmente, che vi siano moltissimi prodotti di avanguardia incredibilmente forti, in particolare in campo lesbico, sia dal punto di vista formale sia per le scene di sesso particolarmente spinto).
(...) Tutti i registi più interessanti dell’attuale cinema gay rientrano nel “New Queer”, da Gus Van Sant a Rose Troche, da Gregg Araki a Todd Haynes, da Tom Kalin a John Greyson. Vincitori di molti premi ai festival, essi sono quanto mai eclettici, propugnatori di poetiche quanto mai differenti che rendono particolarmente variegata la tendenza e che mostrano compiutamente differenti realtà del sentire gay.
A posteriori, molti riconoscono il primo film “New Queer” in “Mala Noche” (t.l. “Cattiva notte”, 1985) di Gus Van Sant, un regista al quale sono legati alcuni dei film più stimolanti della new wave, prima di essere stato cooptato da Hollywood. (...)
Tra i registi affermati del “New Queer” vi sono i canadesi John Greyson e Bruce La Bruce (raramente usciti dai circuiti dei festival specializzati) dei quali il primo è uno dei registi in assoluto più legati alla militanza politica (“Act Up”), impregnato come pochi altri di cultura e sensibilità gay, e il secondo è in assoluto quello più vicino a un cinema underground del quale conserva la violenta trasgressività, perennemente ai confini del pornografico.
In campo lesbico molti film hanno sfruttato il favore tributato a “Go Fish” con risultati magari non sempre convincenti, ma che tuttavia hanno indotto qualcuno a parlare di “New Dyke Cinema” (dal nome attribuito ad una vivace comunità lesbica di Chicago). È il caso di “Bar Girls”, “The Watermelon Woman”, “Due ragazze innamorate”, “My Father Is Coming”, “She Must Be Seeing Thing”, “Kamikaze Hearts” e molti altri fra i quali l’originale “Ho sparato a Andy Warhol”.
Mentre i prodotti di fiction tendono a confluire sempre di più nei generi propri del cinema commerciale, l’altra anima del cinema indipendente gay, quella militante, prosegue invece senza tentennamenti il suo discorso; questo solo raramente fa incursione nei lungometraggi, trovandosi più a proprio agio nei medio e nei cortometraggi, per definizione terreno ideale per la sperimentazione, e nei documentari. In campo lesbico non si può non ricordare Barbara Hammer, autrice di una cinquantina di opere e, nel 1992, di un lungometraggio semi-documentaristico: “Nitrate Kisses” (t.l. “Baci al nitrato”), toccante ed energico nello stesso tempo. (...)
I documentari variano molto, sia da un punto di vista contenutistico sia formale. Si va da quelli biografici - spaziando da Rock Hudson a Paul Bowles, da Paul Monette a Greta Garbo - agli storici, nei quali si cerca di ricostruire una memoria altrimenti persa, fino a quelli più schiettamente politici o ideologici, che cercano di costruire le basi per un’identità e una lotta comune.
Tra i documentari alcuni sono particolarmente significativi. “Paris Is Burning”, che volle cinque anni di lavorazione, è un vivido ritratto della comunità nera e latina gay di New York. “Forbidden Love – The Unashamed Stories Of Lesbian Lives” è una brillante ed intelligente ricostruzione della realtà lesbica canadese degli anni Cinquanta e Sessanta. “Changing Our Mind: The Story Of Dr. Evelyn Hooker”, che ebbe una nomination all’Oscar, è un accurato documentario sulla storia un po’ dimenticata della psichiatra Evelyn Hooker, il cui lavoro negli anni Cinquanta contribuì a espungere l’omosessualità dal numero delle malattie mentali.
Ottimo è il contributo dato dai documentari per ciò che concerne l’Aids. “Voices from the Front” (t.l. “Voci dal fronte”, 1990) di Robyn Hutt, Sandra Elgear e David Meieran, è uno dei più belli: mette a fuoco con energia la lotta di alcuni gruppi militanti, come Act Up, contro l’inefficacia e l’inazione del governo a combattere la malattia e la stessa passività della stampa. La cosa migliore mai fatta sull’Aids è però senza dubbio “Common Threads: Stories from the Quilt” (t.l. “Trame comuni: storie della coperta”, 1989) di Robert Epstein e Jeffrey Friedman. È un commovente, a volte straziante, ritratto di cinque persone che simboleggiano le tante vittime della malattia ricordate attraverso le coperte dell’Aids Memorial Quilt, che, nato nel 1987 su un’idea del militante Cleve Jones, unisce idealmente persone di tutto il mondo. Le vite e gli amori dei cinque (fra di essi, Jeffrey Sevcik, il compagno di Vito Russo, e Tom Waddell, l’ideatore dei Gay Games) vengono ricostruite attraverso interviste ai loro compagni e ai parenti e grazie a ciò che sopravvive di loro - oggetti, fotografie e filmati con molta emozione, senza retorica e però in maniera ugualmente struggente, che fa capire come la loro memoria sia ancora ben salda nel ricordo delle persone care.
Proprio gli stessi Epstein e Friedman hanno mostrato l’indispensabilità del cinema indipendente gay quando nel 1995, festeggiando così a modo loro i cento anni del cinema, produssero e diressero “The Celluloid Closet – Lo schermo velato”, un film di montaggio ispirato all’omonimo saggio di Vito Russo.
Naturalmente la maggior parte della produzione trova la sua origine in Europa, da sempre pioniera nella ricerca di nuove forme espressive, ed anche qui c’è un vistoso scollamento fra il cinema commerciale e quello indipendente. Il primo ha trovato da qualche anno la sua strada più fortunata e banale nella commedia, che alligna soprattutto in Germania, Francia e Spagna seguita al successo di film come “Peccato che sia femmina” che hanno imposto una raffigurazione dei gay e delle lesbiche simpatica e a proprio agio nella società. Parimenti il cinema indipendente è ricchissimo e vivido, realmente controcorrente rispetto alle esigenze mercantili.
Al di là di questi casi estremi, che trovano molte analogie con la situazione americana, Il cinema europeo offre comunque un panorama di magnifica vitalità, per molti versi più stimolante di quello oltreoceano. Tralasciando il nostro paese (imperituro ostaggio del potere e dei dogmi cattolici) che, purtroppo, è un caso isolato, a sé stante, poco rappresentativo e interessato ad aprirsi costruttivamente alle istanze, alla creatività e alle tematiche GLBT*, il messaggio di alcuni grandi registi europei degli anni Sessanta, Pasolini e Fassbinder su tutti, ha trovato molti proseliti. In prima fila c’è il cinema inglese, che ha sfornato un considerevole numero di titoli interessantissimi, trascinato sia dalla debordante personalità di Jarman, sia dalla singolare disponibilità di capitali creatasi nel cinema e nella televisione (quest’ultima con risultati sorprendenti e davvero inattesi).
Nel panorama europeo spiccano anche la cinematografia francese, la spagnola, che vede in primo piano Pedro Almodóvar, e la tedesca. Ma non si possono dimenticare alcuni titoli eccellenti provenienti da paesi di più ristretta tradizione, quali la Grecia, l’Olanda e il Belgio (“L’albero di Antonia”).
L’inesauribile energia del cinema indipendente, pieno di idee, fa dunque ben sperare per il futuro, soprattutto quando imbocca percorsi inediti, a volte contraddittori ma vivi e non privi di interesse.
Certamente, si può affermare che il cinema commerciale europeo appare molto più proclive di quello americano ad analizzare con profondità le vicissitudini e i sentimenti di chi è omosessuale in contesti reali e verosimili. Ciò che sta accadendo ora negli Usa potrebbe però rappresentare una svolta significativa, se non addirittura epocale. Ma - se lo sarebbe probabilmente domandato anche Russo - Hollywood sarà capace di ripudiare finalmente quei canoni ormai inveterati? Personalmente ne dubito. La mia sensazione è che l’apertura attuale - qualcuno ha parlato addirittura di un “genere gay” - altro non sia che un’ennesima variazione, comunque non disprezzabile, di quei canoni. Credo che ancora una volta l’American Dream abbia fagocitato i temi omosessuali, plasmandoli a suo piacimento, per rispondere a propri bisogni (dettati dal bisogno di consensi, riscontri commerciali e, perché no?, anche da una certa carenza di idee). D’altra parte, probabilmente l’industria hollywoodiana non può concedere più di tanto, poiché i suoi limiti sono intrinseci quanto invalicabili, frutto di uno spettacolo di massa creato per una società dominata da una visione eterosessuale sostanzialmente omofoba e razzista. Bisogna dunque forse contentarsi dei progressi, comunque notevolissimi, che essa ha offerto nel suo primo secolo di vita e, magari, sperare per il meglio da qui ai prossimi cento anni.
(Attenzione: le frasi di colore blu sono miei inserimenti)