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L’affascinante ed energica Antonia (Willeke van Ammerlooy), rimasta vedova in seguito alla seconda guerra mondiale, fa ritorno con la figlia Danielle (Els Dotterman) al suo cattolico villaggio e si stabilisce nella vecchia casa lasciatele in eredità dalla madre alla cui morte fa appena in tempo ad assistere. Con l’aiuto di Danielle e del fattore Willem “lo scemo” (Jan Steen), inizia a coltivare l’aspro terreno osservando con scetticismo ed ironia, la rustica quotidianità della piccola comunità che ospita la sua anticonformista progenie: da Danielle a Thérèse (Veerle van Overloop) a Sarah (Thyrza Ravesteijn), nell’arco di quasi cinquant’anni e così assistiamo agli abusi sessuali del parroco, allo stupro subito dalla ritardata Deedee (Marina De Graaf), alle follie di “Madonna Pazza” che ulula alla luna la sua disperazione perché rifiutata dall’uomo di cui si è innamorata, e quelle di Letta, presa dalla frenesia di far figli a profusione tanto da morirne, alla proposta di matrimonio di Boer Bas (Jan Declair), vedovo e padre di tre figli maschi che la vorrebbe ricondurre al focolare, ma col quale instaura una disinvolta convivenza, al sanguinoso, collettivo regolamento di conti che li pareggia ma non li cancella, all'intensa amicizia con Dito Storto (Mil Seghers), filosofo pessimista e misantropo che cita Nietzsche, Schopenhauer, e che, dopo aver istruito sua figlia e le sue nipoti, esaurisce il proprio compito togliendosi la vita...
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«L’albero di Antonia, pizzicando tra commedia, farsa e tragedia, mettendo tra parentesi gli avvenimenti storici che sono noti, è divertente, piacevole, ben fatto e recitato da un cast autonomo di donne affiatate, che si vogliono bene e lo vogliono far sapere. Hanno facce non patite, antiche e scolpite, piene di chiaroscuri psicologici, con espressione fiamminga. La Gorris ci insegna, senza scomodare Bergson, che anche il tempo è un’invenzione e va a diverse velocità come accade nel cinema sensibile e civile simile al suo o a quello di Terence Davies. Gente che racconta in modo tradizionale, mette in primo piano la vita con le sue mille meraviglie, anche se anonima, rispetto alla cinepresa, anche se d’autore». (Maurizio Porro, “Corriere della Sera”, 15 Aprile 1996).
Recensione tratta da “Noi Donne”
Una sorpresa, un caso, un miracolo. Un Oscar al di là di ogni ragionevole previsione. Parliamo de “L’Albero di Antonia” ovvero della Genesi come non ce l’hanno mai raccontata perché Antonia generò Danielle, che generò Thérèse, che generò Sarah... Si poteva immaginare che l’Academy prendesse in considerazione un film olandese, tutto al femminile, diretto da una regista femminista che ha impiegato sei anni a trovare i finanziamenti, interpretato da attrici e attori bravi ma essenzialmente sconosciuti? Non si poteva. Eppure la scelta non è così strampalata. “L’Albero di Antonia” era il film più adatto, proprio perché in qualche misura più esotico, per prendere atto della sempre crescente presenza dell’altra metà del cielo, nel cinema, anche hollywoodiano. (...) Ecco donne capaci di autodefinire la propria identità a prescindere dal potere e dal volere dell’uomo. Madri allegramente nubili o lesbiche folgorate da un colpo di fulmine, artiste concentrate sulla loro opera o timide contadine in zoccoli, licantrope ululanti alla luna o studiose di musica e matematica. Antonia e le sue compagne non si lasciano sottomettere dal senso comune neppure in un villaggio bigotto nell’Olanda cattolica del dopo guerra, dove sono viste come una calamità naturale. E cancellano il “partorirai con dolore” per fare della gravidanza una piacevole religione di cui però si può pure morire. Ma attenzione, sono tutt’altro che ostili all’altro sesso, com’era ancora la vecchissima madre di Antonia, tenuta in vita dall’odio per il marito fedifrago. Semmai lo usano un poco, il maschio, ma gioiosamente. E sbaglia chi considera tutte negative le figure maschili del film, perché a guardare bene, accanto all’arrogante stupratore, sputtanato dalla matriarca ma poi punito da altri maschi, ci sono l’anziano contadino che riesce a capire il desiderio di Antonia di costruire una relazione al di fuori dagli schemi, l’intellettuale che sa trasmettere il suo sapere a due o tre generazioni di ragazze superdotate, lo scemo del villaggio che sa amare teneramente la sua bella. Ecco finalmente un film che ha una straordinaria, e sincera, forza di pacificazione, e che ci piace leggere come una proposta di armistizio nella interminabile - e non certo conclusa guerra - tra i sessi. Fonte: Lucrezia Marinelli
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Ritratto di una piccola comunità olandese, cattolica e contadina, della seconda metà del secolo scorso. Protagonista sotteso: il tempo. Linea narrativa: femminile, anzi matriarcale... Antonia che genera Danielle, scultrice lesbica che prima d’innamorarsi della maestra d’arte Lara (Elsie Brauw) decide caparbiamente e scientemente di generare Thérèse, bambina prodigio capace di calcolare all’istante la radice quadrata di qualsiasi cifra, da cui nasce la disincantata Sarah, somigliante alla bisnonna e compendio delle altre. Sullo sfondo e intorno gli uomini: abietti, fragili, perlopiù superflui, talvolta utili, spesso feroci, talora gentili - comunque altro. La voce narrante è affidata a Sarah, ma al centro dell’azione c’è lei, Antonia – ovvero la Dea Madre, linea di trasmissione di una sapienza antica e generatrice, tutta femminile. Per questo certa critica conservatrice non lo gradì. Un film che riappacifica con il cinema. Semplicemente bello - piaccia o meno a qualcuno. C. Ricci
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Oscar 1996 quale miglior film straniero. Meritatissimo. |