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Regista (New York, 7 Luglio 1899 – Beverly Hills, Los Angeles, 23 Gennaio 1983) Scheda liberamente tratta da www.scaruffi.com
Nato da genitori ebrei di origine magiara entrambi avvocati e avviato per questo agli studi di legge perchè possa affermarsi nella stessa carriera, il giovane Cukor preferisce il mondo dello spettacolo diventando assiduo frequentatore di teatri. Non ancora ventenne, decide di seguire la propria vocazione: in breve passa da assistente di teatro a regista di testi importanti all’Empire Theatre di Broadway. La massiccia migrazione di voci da Broadway a Hollywood che seguì l’invenzione del sonoro coinvolse anche il giovane e già apprezzato regista, che nel 1929 entra ufficialmente nel mondo del cinema con mansioni di assistente e dialoghista. Nel giro di un anno impara il mestiere e dal 1930 la Paramount gli affida la versione cinematografica di alcune commedie di successo. La formazione squisitamente teatrale, i soggetti leggeri, lo sfarzo delle scenografie, l’attenta caratterizzazione dei personaggi femminili che ha appreso a Broadway e successivamente da Lubitsch lavorando al suo fianco nel 1931, fanno di Cukor un caso unico di fusione fra arte del palcoscenico e arte dello schermo. Le esperienze teatrali gli hanno insegnato come districarsi nella direzione degli attori senza bisogno di ricorrere a effetti particolari, sfruttando efficacemente i dialoghi e adeguando la tecnica cinematografica alle necessità narrative; la passione per le scenografie, poi, si traduce in minuziose ed eleganti ricostruzioni ambientali, cornici perfette dei suoi acuti e taglienti ritratti femminili che gli fecero guadagnare l’appellativo di maggior regista di attrici. “What price Hollywood” (1932) è la prova generale di uno dei temi più cari a Cukor: il mondo dello spettacolo con i suoi compromessi e le rinunce che bisogna accettare per percorrere la via del successo. Il film narra la storia di una cameriera, scoperta da un celebre regista, che vive due vite opposte: da un lato il rapporto coniugale con l’uomo che l’ha lanciata e che degenera di giorno in giorno, dall’altro l’ascesa fulminea al ruolo di star. L’uomo divorzia, fallisce, diventa un alcoolizzato, si suicida, mentre la sua creatura raggiunge la vetta. Lo stesso anno Cukor scopre uno dei più grandi talenti di Hollywood, Katharine Hepburn, e le affida la parte principale di “A Bill of Divorcement”. Con questo film i due formano uno dei sodalizi più riusciti di Hollywood. La depressione fa la sua comparsa fra le righe di “Dinner at eight” (1933), commedia tragica che si trasforma in critica sociale. Il film descrive i preparativi per una cena fra ricchi borghesi: un escamotage per smascherare la miseria morale dei protagonisti, il ritratto di una società corrotta e insipida colta mentre precipita nel baratro della stupidità. Dal 1933 al 1936 Cukor abbandona la commedia sofisticata per dedicarsi a quella di costume. Comincia con “Little women”, adattamento dal celebre romanzo ottocentesco per signorine, segue “David Copperfield”, altro adattamento dall’omonimo testo teatrale ed altro grande successo commerciale. Con “Sylvia Scarlett - Il diavolo è femmina” (1935), Cukor comincia anche a giocare con il tema dell’ambiguità ed affiorano, sebbene assai ben dissimulate, le prime tensioni omoerotiche nel sottotesto dei suoi film. Qui la Hepburne assume un’identità maschile (ma già aveva l’avevamo ammirata in un personaggio vagamente mascolinizzato in “Falena d’argento” nel 1933) che trae in inganno uomini e donne tanto da rendere promiscuo ogni rapporto tra impulsi incestuosi e omosessuali, sia maschili che femminili.
Dopo “Romeo and Juliet”, Cukor dirige “Camille” (1937) affidando la parte della Signora delle Camelie alla splendida Greta Garbo che in questo film forse interpreta il suo personaggio meglio riuscito. Nel 1938 Cukor torna al teatro e alla coppia Hepburn-Grant con “Holiday”, adattamento di una commedia di Philip Barry. La tendenza all’introspezione dell’animo femminile manifestata in “Sylvia Scarlett - Il diavolo è femmina” e “Holiday” giunge al culmine con “Women - Donne” (1939), dalla commedia di Clare Boothe, un film interpretato (e sceneggiato) interamente da donne. La direzione di Cukor è maniacale (persino i cani, i gatti e gli uccelli sono di genere femminile) e la critica sociale di altri film qui sembra degenerare in vera e propria misoginia con le donne ridotte ad esseri stupidi e superficiali o bestie feroci, autentiche virago sprezzanti e ciniche, per poi tornare ad un’apologia della donna incompresa, sfruttata, che sopporta tutto e risorge. Il film è in realtà il solito gioco delle parti: ognuna appare in modo, ma nell’intimo è altro. Nel '39 Cukor è chiamato a dirigere “Via col vento” ma, per ragioni ancora oggi non del tutto chiarite, dopo tre settimane di riprese Selznick lo solleva dall’incarico affidandolo a Victor Fleming. “Philadelphia story” (1940) ripropone l’alleanza Cukor-Barry e la coppia Hepburn-Grant. Il personaggio della Hepburn è capovolto rispetto a quello in “Holiday”, ma anche in questo caso si mascolinizza divenendo un’arrogante, perbenista e capricciosa ereditiera che manda in fumo il matrimonio con Gary Grant a causa della propria frigidità e rigidità morale. Poi, messa di fronte a se stessa dal sensibile (femmineo?) James Stewart che la persuade a scoprire i piaceri della vita, rinsavisce, riacquista la sua femminilità e torna dal marito. Sullo sfondo il clan dell’aristocrazia di Philadelphia, come sempre preso di mira da Cukor. Sul tema della doppia personalità della donna, Cukor realizza due film diametralmente opposti. “A woman’s face”, dramma espressionista omaggio alla cultura europea, e “Two faced woman”, burlesque in cui Greta Garbo, una modesta casalinga, per riaccendere l’amore del marito, finge di avere una sorella gemella spregiudicata, e s’immedesima nella parte esibendo costumi da bagno, scollature e vestaglie al limite della censura. Il film è noto per essere il primo in cui la Garbo mostra la sua bella risata sullo schermo. L’interesse di Cukor si sposta sempre di più verso i temi legati al matrimonio e alla coppia che di lì a poco sarà magistralmente interpretata da Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Intanto li sperimenta in “Keeper of the flame” (1942), film dai toni insolitamente cupi per lui, che va dal giallo al melodramma passando attraverso la propaganda antifascista. L’ombra delle atrocità che si stanno compiendo in Europa alligna. Cukor presta servizio di leva per un breve periodo, ma nel 1944 è di nuovo a Hollywood a dirigere Ingrid Bergman in “Gaslight”, tratto da una commedia inglese, altro film della serie “europea” e altro giallo con chiare influenze hitchcockiane (interpreti e sceneggiatori sono in gran parte europei: ungheresi, austriaci, svedesi, tedeschi e inglesi), splendido ritratto femminile unito alla solita critica dell’aristocrazia di cui la protagonista è una stupida rappresentante, prigioniera del proprio pudore e vittima della propria fedeltà al matrimonio. Nel 1947 Cukor incontra gli sceneggiatori newyorkesi Garion e Ruth Kanin, coi quali produce un altro film sul doppio, “A Double Life”, storia di un attore che finisce per credersi realmente Otello, strangola per gelosia una cameriera e si suicida, ma questo film rappresenta anche il ritorno al teatro e, tutto sommato, al registro comico: la sceneggiatura, infatti, mette insieme versi tratti da celebri tragedie creando l’effetto alquanto grottesco di un collage. In “Adam’s rib” (1943), torna la coppia Tracy-Hepburn e tornano due temi cari a Cukor: il matrimonio e il femminismo. Il film è una verbosa schermaglia fra marito e moglie, entrambi avvocati, che si trovano a dover sostenere lui la causa di un uomo che la moglie ha tentato di uccidere, lei la difesa della donna (Judy Holliday) che ha agito per gelosia. Il concetto tradizionale del matrimonio (Tracy) e quello femminista (Hepburn) si scontrano prima in tribunale e poi a casa dove i due finiscono per riconciliarsi dopo una serie di colti e arguti battibecchi. “Born yesterday” (1950) è una parabola ancor più evidente di altre sulla donna-oggetto che si ribella al maschio sfruttatore, un uomo d’affari che decide di sposare una svampita (Judy Holliday) e l’affida a un giornalista affinché la istruisca e la renda accettabile in società. “The Marrying Kind” (1952) è un dramma intimista, storia di un uomo e una donna qualunque che si incontrano in un parco, si sposano, affrontano insieme le gioie e le disgrazie della vita e infine litigano quasi sino a divorziare. E’ forse il film più serio che Cukor ha realizzato sul tema della coppia, nel quale mostra la pericolosità delle piccole cose che messe insieme possono portare all’odio. Seguono “Pat and Mike” (1952), scritto da Garson Kanin e Ruth Gordon, un film minore, “The Actress” (1953) in cui Cukor studia il rapporto tra figli e genitori attraverso la vicenda e le aspirazioni di una ragazza che vuole entrare nel mondo dello spettacolo, e “It Should Happen To You” (1954), che oltre a riproporre i temi della coppia, della donna-oggetto e dello sdoppiamento, s’inserisce nel filone dei film sul potere dei mass. L’ambiguità e le insidie dello star system, tema che Cukor ha toccato fin da “What price Hollywood”, attraverso “Dinner at eight”, “Sylvia Scarlet”, “Double life”, “It should happen to you”, trova una nuova espressione in “A star is born” (1954, primo musical di Cukor, primo a colori, primo in cinemascope), ideale approfondimento del film girato nel 1932. Ambientato nella comunità di Hollywood, segue lo stesso andamento dell’originale, divenendo però una commossa riflessione sul gioco delle parti, sul dualismo realtà/finzione che dal palcoscenico si trasferisce nella vita quotidiana e sull’amaro destino dell’artista che dopo i fasti del successo deve accettare l’oblio. Dopo un kolossal, “Bhowani junction” (1956), sugli ultimi giorni della dominazione britannica in India, Cukor torna al musical con “Les girls” (1957), una rassegna di flash-back derivati dalle testimonianze rese in tribunale dai protagonisti e attraverso i quali si assiste sia ad un allestimento teatrale che alla storia d’amore tra una ballerina e un capocomico. Cukor dimostra una padronanza assoluta dei mezzi tecnici. I suoi film, leggeri e raffinati, indugiano nella squisita ricercatezza figurativa, nell’uso pittorico e dinamico del colore, nell’effettismo delle scenografie e dei costumi, ciò li rende talvolta un po’ artificiosi, così come forzate, di scarso valore e successo sono le pellicole girate per pura convenienza economica tipo “Wild is the wind”, un melodramma rurale con Anna Magnani, subito superata da “Heller in pink lights” (1959), sceneggiata da Dudley Nichols e con Sofia Loren come protagonista, ancora sugli infiniti compromessi che una compagnia di guitti deve fare per sopravvivere alle avversità e alle barbarie. Sullo stesso tema ambientato però nel music-hall del Greenwich Village, si ispira il terzo musical di Cukor, “Let’s make love” (1960). “The Chapman report” (1962), dopo molti progetti falliti, si presenta come un audace studio sulla sessualità, ed espone i casi esemplari di quattro borghesi californiane: una provinciale delusa dal marito e caduta fra le braccia di un mediocre, una svampita snob alle prese con uno sportivo, una vedova frustrata (Jane Fonda), una ninfomane che si suicida per la vergogna (Claire Bloom). Si tratta quasi di una versione cruda e realista di “Women”, che sviscera dal di dentro l’universo femminile. Quattro adulteri, quattro vergogne, che si sublimano nella verginità restaurata di Jane Fonda e nell’episodio di violenza che Claire Bloom subisce per metà sconvolta a per metà consenziente. Il film, sgradevole e morboso, irrita Hollywood e la censura, che lo massacrano. In questo periodo Cukor riceve l’incarico di rimettere in piedi una sbiadita Marylin Monroe come aveva fatto otto anni prima con la Garland, e invece assiste al suo suicidio. “My fair lady” (1964), con il quale vince l'Oscar per la regia, nasconde le vergogne di Hollywood dietro la faccia da educanda di Andrey Hepburn, qui nella parte della fioraia che un pigmalione vuol istruire per farne una signora. Il musical, già in scena a teatro con grande successo, è affidato a Cukor che, a parte la solita ironia verso l’aristocrazia, non deve far molto per trasformarlo in un trionfo. Cinque anni dopo Cukor mette mano a “Justine - Rapporto a quattro”, riduzione cinematografica dalla tetralogia di Laurence Durrel, un’impresa poco adatta al suo stile. Il risultato è un film esotico e barocco, pieno di sesso (prostituzione, adulterio, omosessualità, incesto) e morti. Con “Travels with my aunt” (1972), da Graham Greene, Cukor torna alla commedia brillante. Poi è la volta di “Love among the ruins” in cui gli attempati Laurence Olivier e Katarine Hepburn, si incontrano da vecchi e decidono di unire finalmente i loro destini. “The blue bird” (1976), super-co-produzione sovietico-americana, è una fiaba per bambini tratta da “L’uccello azzurro” di Maeterlinck. Il virtuosismo stilistico di quest’opera-balletto per l’infanzia s’inserisce bene nel cinema senile dell’ultimo Cukor. “Ricche e famose” (da John Van Bruten), storia fine e intelligente dell’amicizia conflittuale (amore?) fra due donne di successo, dal college alla maturità, ricalca gli schemi di “Women”, dipingendo con eleganza e sottigliezza la giornalista affamata di uomini e la scrittrice di cinema, mettendo alla berlina i nuovi ricchi, gli attori di Hollywood e gli intellettuali di New York. È la sua ultima opera.
L’opera di Cukor si può raggruppare in cinque periodi: •
la commedia di costume (dal ‘33 al ‘36); I temi cari a Cukor sono: •
l’ambiguità e la spietatezza del mondo dello spettacolo; Infine… La società che compare nei film di Cukor è una trasposizione della comunità cinematografica di Hollywood. Lo scapolo Cukor ha sposato Hollywood accettandone tutte le regole e con lei si comporta proprio come un consorte bonario e brontolone: sviscera con ironia gli splendori e le miserie delle corti locali, senza mai rinnegarle. Cukor è stato il maggiore dei registi ortodossi di Hollywood, impossibile concepire il suo cinema senza tener conto dei rapporti collaborativi basati sulla totale fiducia che sapeva instaurare con tecnici, sceneggiatori e attori. All’interno del lavoro d’equipe, il ruolo del regista è di coordinamento: la sceneggiatura è una storia solida e di provata efficacia, un romanzo, una commedia, o un testo scritto appositamente da scrittori di calibro, il produttore condiziona e a volte decide il tema del film, il protagonista apporta i ritocchi del caso al suo personaggio. Il punto più alto di fusione dei temi cukoriani si ha quando l’attrice (Hepburn, Holliday o Garland) è il personaggio che deve interpretare. Allora l’ambiguità dello spettacolo e l’ambiguità della donna diventano cosa unica, tanto più se la storia coinvolge anche l’ambiguità di Hollywood.
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