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“SCONTARE L’INFAMIA” Da “Lo schermo velato” di Vito Russo |
Gli attori, soprattutto quelli che sono gay nella vita privata, hanno sempre interpretato malvolentieri parti di omosessuali, per paura di essere etichettati. Alcuni hanno anche addotto motivazioni morali contro l’interpretazione di questi ruoli. Come aveva scoperto tardi Louise Brooks, la sua parte in “Lulù” (1929) aveva fatto pensare a molta gente che lei fosse davvero lesbica.
Negli anni Sessanta e Settanta, quando l’omosessualità ricomparve al cinema, si ripresentò questo problema: gli attori non discutevano della loro sessualità, ma degli svantaggi di interpretare ruoli di omosessuali. Quando Beryl Reid partecipò al Jimmy Carson Show per presentare “L’assassinio di Sister George” dovette ripetere più volte che non era lesbica, perché i giornalisti puntavano le loro domande sulla sua sessualità più che sul film.
Angela Lansbury, cui Robert Aldrich si era rivolto in un primo tempo per la parte di Sister George, declinò educatamente l’offerta, ma il giorno dopo fece sapere quale era la sua posizione in una clamorosa intervista ad Earl Wilson. I suoi commenti, per usare una definizione di Aldrich, furono “piuttosto infelici”. Disse: «Oh, chi può aver voglia di interpretare questi personaggi?» ed espresse un grande disgusto per «quello che queste donne rappresentano». «Era un rifiuto totale del mio progetto» osserva Aldrich «ed era inutile. Nessuno la costringeva ad interpretare quella parte. Viviamo in un paese libero», La Lansbury, citata da Keith Howes su “Gay News” di Londra nel 1976, disse: «A quel tempo non volevo interpretare una lesbica. Non erano molte le attrici che nel 1968 avrebbero interpretato parti di donne apertamente lesbiche, e questo ha influito sulla mia decisione. Ora naturalmente penso che la verità stia emergendo per tutti noi, ma non credo che anche oggi interpreterei quella parte».
Susannah York, che ne “L’Assassinio di Sister George” era Childie, ebbe gli stessi problemi di Alice Roberts quando ballò il tango con Louise Brooks in “Lulù” nel 1929. Un anno prima che iniziassero le riprese del film, Aldrich andò a Dublino, dove la York stava girando un film, per discutere la sua parte con lei e spiegarle che, se avesse accettato, avrebbe dovuto interpretare la scene della seduzione esattamente come era scritta, perché era sua intenzione girarla seguendo fedelmente la sceneggiatura. La York accettò: «Sapeva che sarebbe stato difficile» racconta Aldrich «ma disse che ci aveva già pensato prima che io andassi in Irlanda, e ci lasciammo di perfetto accordo. Un anno dopo, il giorno in cui dovevamo girare quella scena, Susannah è venuta da me la mattina e mi ha detto: “Non ce la faccio”. E io ho risposto: “Susannah, io voglio fare quello che posso per te, ma quella scena tu devi farla oppure non lavorerai più”. Ora, questa non è una cosa bella da dire a qualcuno. Ma dopo tutto aveva avuto la sua occasione di dire no un anno prima in Irlanda. Così ha fatto la scena. È una grande attrice, capite, ma è stato terribilmente doloroso per lei. Era una tortura. Poi, quando abbiamo visto il materiale girato, mi sono reso conto che non era abbastanza erotico. Così ho detto: “Mi dispiace, Susannah. Non basta”. Questo l’ha depressa, ma quando ha visto il materiale girato, è stata d’accordo che non andava bene. Alla fine mi ha chiesto se poteva fare questa scena da sola, senza Coral Browne sul set. Così ho detto: “Okay, ma se non va bene, dovremo girare con Coral”. Ha funzionato. Lei è stata sensazionale. Ma è stato anche un atto di grande professionismo. C’è una resistenza diffusa a fare queste cose.»
La resistenza era davvero diffusa. Produttori, registi, sceneggiatori e attori ripetevano di continuo che certi film non erano “in realtà” sull’omosessualità, ma sulla solitudine o sulle relazioni umane o su qualsiasi cosa di abbastanza universale da soffocare l’identificazione fra film e omosessualità. Le reazioni della stampa, l’atteggiamento del pubblico e soprattutto le autodifese degli autori sono istruttive a questo riguardo.
Anne Heywood, dopo avere interpretato Ellen March ne “La volpe”, ritenne opportuno dichiarare: «Ho interpretato delle assassine, ma non ho mai ucciso nessuno».
Cliff Gorman e Leonard Frey accettarono ruoli da omosessuali effeminati subito dopo il successo di “Festa per il compleanno del caro amico Harold”, Gorman in “Rapporto a quattro” e Frey in “Dimmi che mi ami, Junie Moon”. Da allora, hanno passato molto tempo, cercando di scrollarsi di dosso l’immagine gay. Gorman disse ai giornalisti: «Se interpreto uno psicopatico, non vuol dire che sono uno psicopatico». Gli attori tiravano fuori le foto dei figli, come se avessero dovuto difendersi da un’accusa.
Jane Wyman si lamentò del fatto che negli anni Sessanta le offrivano solo parti «di lesbiche o di assassine con l’accetta», e aggiunse: «Non interpreterò parti di lesbiche, caro. Non io».
Quando le note di programma per la produzione teatrale newyorkese del “Sottoscala” sottolinearono l’eterosessualità degli attori, “The Villager” commentò: “L’autore, il regista e i due attori sono sposati e ostentamente felici. Il fatto che i due attori non siano omosessuali aggiunge forza alla loro recitazione. Ci si rende pienamente conto che la loro è pura recitazione”. Quando un attore omosessuale interpreta un omosessuale, allora, non è recitazione, perché tutti gli omosessuali sono uguali e si possono interpretare solo come stereotipi. Quando un attore eterosessuale interpreta un personaggio eterosessuale, invece, sta recitando perché gli eterosessuali sono individui diversi e possono quindi essere interpretati come persone.
(...) Da Parigi, dove si stava girando il film “Quei due”, Liz Smith raccontò sul “New York Times” che Rex Harrison «ben noto per la sua scarsa tolleranza nei confronti della stampa, si era lasciato pazientemente sbranare da una banda di giornalisti popolari americani, impazziti all’idea che un divo del cinema, un vincitore di Oscar, interpretasse un invertito». Un membro di questa banda di giornalisti chiese a Richard Burton in che modo aveva deciso di «nascondere la sua voce meravigliosa per renderla omosessuale». Più tardi, Burton chiese a Liz Smith: «Ma si rendono solo vagamente conto del fatto che alcune fra le più belle voci del teatro appartengono ad omosessuali? Questa gente mi spaventa: loro dovrebbero essere gli intellettuali e improvvisamente mi rendo conto che in realtà rappresentano il pubblico di questo film. Per mia esperienza personale, chi se la prende tanto con gli omosessuali, di solito ha qualcosa che non va».
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I tempi sono passati, è vero, ma ancora vi sono sacche di resistenza
e ostracismo fortissime (dentro e fuori il mondo cinematografico) che condizionano
le scelte degli attori e degli autori. In questo senso non deve stupire che
artisti la cui omosessualità è ampiamente risaputa, evitino
ruoli omosessuali come la peste bubbonica e ancora ostentino un’eterosessualità
alla quale non credono più nemmeno i bambini. D’altronde non
è vero che viviamo in un’epoca “liberata” dai suoi
mali peggiori (l’ignoranza, la paura, l’intolleranza verso tutto
quello che è differente o troppo affine) - a parte poche isole felici,
il mondo è ancora un luogo dove si può essere uccisi in molti
modi e per molto meno di niente.
Cinzia Ricci