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Aggiornato Domenica 14-Feb-2010

 

I MARTIRI DI BARLETTA

Nota tratta da un articolo di Pier Michele Girola pubblicato su "Famiglia Cristiana" n° 44 dell’11 novembre 1973

 

(...) 11 settembre 1943. E’ un sabato. Dalla sera di mercoledì 8 settembre l’Italia ha cessato di combattere contro Stati Uniti, Inghilterra e Francia. La guerra adesso c’è ancora, ma con la Germania. Il re è a Brindisi, oltre centocinquanta chilometri più a Sud. Il giorno prima le ultime colonne corazzate tedesche hanno lasciato Barletta. Sembra davvero finita. Dal mare sono arrivate alcune piccole imbarcazioni con soldati italiani fuggiti dall’Albania. Dicono che laggiù la situazione è terribile, che le nostre forze sono in sfacelo, che i nazisti premono, assediano, chiedono la resa, spesso massacrano. Pochi li credono. Tutti hanno visto i tedeschi lasciare Barletta senza torcere un capello a nessuno, quasi amichevolmente. L’8 settembre soldati tedeschi hanno assistito sorridendo alle manifestazioni popolari di giubilo per l’armistizio.

Nella notte è suonato più volte l’allarme: in lontananza si sente il brontolio dei cannoni. "Gli inglesi sono vicini", si dice in giro. Poi in mattinata, arrivano terribili notizie. I tedeschi contrattaccano, resistono, paiono delle furie scatenate. Da Bari, poi da Foggia, poi dalla vicina Spinazzola, giungono voci di civili ammazzati dalle truppe germaniche ora in ritirata, ora in controffensiva. I pochi raggruppamenti dell’esercito italiano che tengono Barletta, sotto il comando del colonnello Grasso, si preparano a combattere. Poco prima di mezzogiorno si scatena un inferno.

UN EPISODIO OSCURO

I nazisti attaccano lungo le rive dell’Ofanto, lo passano e premono sulla città. Tre soldati italiani e due germanici cadono nei pressi della batteria 132 che difende Barletta sulla via del Camposanto. In via Andria, nella zona a sud ovest della città, accanto alle Casermette, gli italiani riescono a sistemare in tempo un mortaio. Accanto all’arma si piazza una piccola batteria comandata dal tenente Vasco Ventavoli. L’artigliere che spara è il sergente Guido Giandiletti. Compie una vera e propria prodezza: sei fra carri armati e blindati vengono messi fuori combattimento. Due tedeschi sono uccisi. Non sono giorni molto gloriosi per l’esercito italiano, abbandonato a sé stesso dal governo e dal suo Stato maggiore, ma a Barletta la sua guarnigione si fa onore.

Inutilmente, per tutto il sabato, i tedeschi cercano di sfondare (vogliono raggiungere il porto e il Castello Svevo, fondamentali punti strategici). Non solo. Subiscono scacchi piuttosto umilianti: alla fine dei combattimenti, nelle mani degli italiani ci sono settanta prigionieri e un carro blindato intatto, che viene nascosto nella galleria del teatro Curci.

C’è però un episodio, accaduto nel primo pomeriggio, intorno alle 15, che scatenerà la rappresaglia. Un gruppo di ufficiali in sidecar (la moto con il carrozzino) comandano le truppe germaniche che cercano di dare l’assalto alla famosa batteria 132. Uno viene ucciso, un secondo fatto prigioniero. Nel fuggire, gli altri tre, con la loro moto, finiscono per superare lo sbarramento difensivo italiano ed entrano in città. In via Roma scorgono un uomo che sta seguendo la scena dietro una persiana, e a mezze parole gli chiedono di indicare la via per l’ospedale. L’uomo tentenna; i tre se ne vanno ed entrano in piazza Roma.

Qui c’è un drappello di soldati italiani e dei civili. Scoppia una sparatoria. Il guidatore del sidecar viene colpito a morte. Degli altri due, uno ha fortuna e riesce a saltare su un’autoambulanza che passa in quel momento, diretta all’ospedale. L’altro cerca di fuggire, inseguito dai militari e da una folla inferocita. Si rifugia in una macelleria ma viene raggiunto. A questo punto l’episodio si fa più oscuro. Secondo una versione, un civile lo colpisce con l’accetta presa dal banco. Secondo latri, viene ferito a morte dai militari italiani.

12 settembre. I tedeschi, vista l’accanita resistenza degli italiani, decidono un’azione di forza. Alle sette sbucano dal mare a volo radente, i "caccia" nemici. Sanno dove sono sistemate le batterie contraeree italiane e le colpiscono inesorabilmente. E’ un attacco a sorpresa. In pochi minuti gli aerei tedeschi distruggono la gran parte delle artiglierie del porto, del Castello, delle Casermette. Viene resa inutilizzabile anche la famosa 132 che il giorno prima aveva loro sbarrato la strada sulla via del Camposanto. Vengono colpite abitazioni, chiese ed altri obiettivi civili. Barletta resta praticamente indifesa. Alle 8 non c’è persona viva per le strade. Il silenzio è profondo, assoluto. Lo rompe soltanto, di tanto in tanto, il fragore dello scoppio di una bomba e il grido di chi ne è colpito.

Mezz’ora dopo carri armati e automezzi blindati entrano in una città che ormai non fa più resistenza. L’ultimo ostacolo che hanno dovuto superare è stato sull’Ofanto, dove una batteria italiana li ha costretti ad un duro combattimento. Ma sono superiori di numero e di mezzi e vincono lo scontro. Ci si accorge subito che i tedeschi sono cambiati, che la lotta del giorno prima e, soprattutto, l’uccisione degli ufficiali in piazza Roma li ha scatenati. Sono assetati di vendetta, decisi persino al saccheggio. E’ la prima volta che gli italiani li vedono così, ma non sarà l’ultima. Saccheggi, vendette, rappresaglie, terrore, in molte zone d’Italia incominceranno adesso e dureranno venti mesi.

Mentre la guarnigione si arrende (il colonnello Grasso e gli ufficiali saranno deportati in Germania), una colonna di tedeschi raggiunge piazza Roma. Sparano raffiche di mitra contro le persiane e le porte delle case, se hanno l’impressione che dietro ci sia qualcuno. Alcuni civili sono uccisi. In piazza Roma, dove il giorno prima c’era stato lo scontro con gli ufficiali, non trovano nessuno; allora si dirigono verso piazza Monumento, poche decine di metri più in là. Qui sull’angolo di via De Nittis con via Cappuccini, che sbuca nella piazza, c’è un piccolo ufficio al pianterreno di una vecchia casa. Due stanzette che fungono da comando dei vigili urbani.

In servizio, quella mattina, ne sono presenti dodici, compreso il maresciallo Capuano che li comanda. Con loro ci sono pure due netturbini rifugiatisi nell’ufficio quando sono scoppiati i bombardamenti. Gli altri vigili, con qualche scusa, sono rimasti a casa. Hanno fiutato il pericolo. I loro colleghi più scrupolosi pagheranno con la vita il loro senso del dovere. Alle 9 i carri armati tedeschi sbucano in piazza Monumento. I vigili nascondono le pistole. Quando una pattuglia nemica entra nell’ufficio li trova inermi e disarmati. Non c’è alcun motivo per accanirsi si di loro, ma i tedeschi hanno deciso. Vogliono vendicarsi della morte dei loro ufficiali e della resistenza incontrata il giorno prima. Li costringono ad alzarsi e a strattoni li fanno uscire sulla piazza. Vengono messi contro il muro dell’edificio che ospita la direzione delle Poste. Nell’ordine da sinistra ci sono i vigili Antonio Falconetti, Pasquale Del Re, Luigi Gallo, Vincenzo Paolillo, Gioacchino Torre (assunto quaranta giorni prima), gli spazzini Luigi Jurillo e Nicola Cassatella e poi ancora i vigili Pasquale Guaglione, Michele Spera, Francesco Gazia, Sabino Monteverde, Michele Forte e Francesco Falconetti. Il maresciallo lo lasciano andare.

UN TRAGICO BILANCIO

Arriva un fotografo (1). La scena viene ripresa alcune volte, con tanta insistenza che i tredici, prima terrorizzati, incominciano a rassicurarsi. Pensano, forse, ad una montatura dei tedeschi per farli passare come dei prigionieri militari. Poi, all’improvviso, un ufficiale da ordine alle mitragliatrici, piazzate sul marciapiede opposto, di sparare. Le prime raffiche esplodono tra urla di dolore e di terrore. Uno dei vigili riesce a scappare, svolta l’angolo di via Cappuccini, ma qui viene inchiodato da alcuni colpi sparati con il mitra da un soldato. Michele Spera, seppur colpito alle gambe, attraversa con un balzo la strada e si butta contro gli aguzzini. Lo troveranno, tutto perforato di colpi, sdraiato su una delle mitragliatrici.

I tedeschi soddisfatti della strage se ne vanno subito, lasciando i cadaveri come sono caduti, "per dare un esempio". Così salvano la vita a Francesco Falconetti, il quale , colpito alle gambe, era crollato a terra tra i primi. I suoi compagni gli sono piombati addosso, coprendolo. Un po’ svenuto e un po’ cosciente, il povero vigile resterà, ferito, per quasi quattro ore sotto quel cumulo di cadaveri. Solo quando le mogli dei morti arriveranno, urlando e piangendo, con dei carretti per portarsi via i corpi dei mariti, il sopravvissuto potrà essere liberato e portato all’ospedale (è morto qualche anno fa, stroncato dalla malattia al cuore contratta quel giorno). I tedeschi restano a Barletta fino al 24 settembre, quando la città viene occupata dai soldati inglesi, canadesi e neozelandesi, preceduti da una motocicletta con due militari italiani.

(1) A scattare quelle fotografie furono i reparti tedeschi della “Propaganda Kompanien” che aveva il compito di documentare l’operato della Wehrmacht ad uso propagandistico interno. Così della Barletta del settembre 1943 si sono conservati, negli archivi tedeschi, dei reperti storiografici di eccezionale valore: le foto dell’esecuzione dei vigili urbani e dei netturbini, le foto di scene di vita dei soldati tedeschi a Barletta e le foto della resa dei soldati italiani del locale Presidio della 209° Divisione Costiera, agli ordini del Colonnello Francesco Grasso.

 


 

I MARTIRI DI BOVES

 

19 Settembre 1943. I soldati tedeschi erano arrivati da poco. Da appena una decina di giorni. Senza incontrare resistenza, avevano occupato ogni città, ogni contrada. Si erano impossessati delle caserme e, caricati su lunghe tradotte i militari, ex alleati, li avevano spediti nei campi nazisti. In testa a quelli che avrebbero martoriato il Piemonte occidentale c'era la 1ª Divisione Panzer SS "Leibstandarte SS Adolf Hitler" comandata da Theodor Wisch. A Boves, nel cuneese, le truppe naziste si erano però imbattute nei nascenti nuclei partigiani, che avevano avviato le loro primissime azioni subito dopo l'armistizio dell'8 settembre. L'ordine del comando fu perentorio: per rappresaglia, trucidare gli abitanti e poi dare alle fiamme il paese. Esecutore materiale della strage fu un luogotenente di Wisch, Joachim Peiper, uno che dal 1939 era stato nello staff di Himmler e aveva partecipato alla creazione del sistema concentrazionario dei Lager. Era il 19 settembre del 1943, e la città si conquistò il triste primato di teatro del primo atto di rappresaglia contro la popolazione civile. La lunga e crudele occupazione militare non valse, però, a piegare la Resistenza.

Proprio questa strage, secondo alcuni storici, portò alla nascita del movimento resistenziale in Italia. Ma la medesima ferocia si ripeté tra il 31 dicembre 1943 e il 3 gennaio 1944, con un secondo eccidio durante il rastrellamento per debellare gli attivissimi partigiani "colpisti" della zona: il paese fu nuovamente bruciato, e nuovamente si ebbero decine di vittime tra civili e partigiani.

Una stima complessiva (non sappiamo se esatta o approssimativa), parla di 350 case incendiate, 235 civili e 58 partigiani uccisi.

Azioni di rappresaglia furono compiute anche a Castellar e nell'Ottobre del '43 alcuni reparti della 1ª Divisione Panzer SS "Leibstandarte SS Adolf Hitler" si resero protagonisti della prima seri di eccidi di ebrei in Italia sulla riva piemontese del Lago Maggiore, ad Arona, Meina, Stresa e Baveno.

 

BOVES, I TESTIMONI RACCONTANO

Liberamente tratto da "Storia dell’Italia partigiana" di Giorgio Bocca - Editrice Laterza 1980

 

«Salimmo di corsa sulle colline del Giguttin e vedemmo il paese in un mare di fuoco. Impossibile! Incredibile! Dire l'impressione di sgomento e di disperazione che era nei nostri occhi non si può. Forse dovrei paragonarla ai sentimenti e alle tragedie cosidette classiche e storiche».

Quel settembre «era buono per i funghi». Il padrone del caffè Cernaia imbottigliava il dolcetto arrivato da Dogliani; nella calzoleria Borello si preparavamo gli zoccoli, per i giorni di fango e di neve. Le cose di sempre in un villaggio piemontese che non aveva capito la guerra e neppure la confusione, dopo la disfatta; vissuto per secoli nel suo quieto sogno di alberi, di fontane, di vicende e di commerci minimi; costretto ora a esprimete in poche ore, in una luce rossastra, tutta la capacità umana di soffrire. Perché i tedeschi avevano deciso di impartire, a freddo, «una severa lezione ai ribelli». La lezione è affidata al maggiore delle SS Joachim Peiper che ha occupato Cuneo l'11 settembre con 500 SS dotate di carri armati e di autoblindo: tedeschi duri, di quelli che manovrano e sparano con uno stile inconfondibile, dove riconosci l'addestramento perfetto, ma anche il complesso di superiorità razziale. L'esperienza che sta per fare Boves non è nuova, è già stata fatta da molti villaggi dell'Europa occupata; ma quelli di Boves non sanno o non credono, nel loro sentimento si ritrova come denominatore comune, lo stupore.

Nei primi giorni i tedeschi hanno trascurato l'informazione sul ribellismo che nasce. Conoscono poco la lingua, i luoghi, non hanno ancora informatori fidati; e poi non devono credere a un ribellismo già organizzato, già articolato in formazioni diverse, certo non immaginano che in Italia possa essere nato in pochi giorni ciò che, altrove, ha richiesto mesi. Se fossero informati colpirebbero i gruppi politici, comunisti e azionisti, che sono il seme più forte della Resistenza. Invece attaccano a Boves un residuo dell'esercito, credono che a Boves siano rimasti reparti regolari, disponibili per la ribellione e impartiscono la loro lezione preventiva del terrore. Il giorno 17 due aerei tedeschi sorvolano le pendici della Bisalta e lanciano manifestini invitanti alla resa. La marea degli sbandati, dei rifugiati, è già in calo, restano, nelle frazioni, forse cinquecento uomini; ma il 19 settembre, al momento di combattere, sono ridotti a cento, in maggioranza valligiani: alla sinistra i bovesani Renato Aimo e Bartolomeo Giuliano, con i compaesani; al centro Ignazio Vian (1), veneziano, impermeabile chiaro e occhi chiari con i suoi soldati della guardia di frontiera; alla destra il cuneese Gino Renaudo. I ribelli sono armati di fucili 91, di mitragliatrici Breda, di mitragliatori; il gruppo Vian ha un cannone da 75: colpi in dotazione, uno.

Peiper manda un'avanguardia a Boves nel pomeriggio del 18, cinquanta uomini con due pezzi da 88. Si fermano sul piazzale della fornace Regia e tirano sulle borgate, su Roccasetto, Moretto, Sant'Antonio, Castello, senza preavviso; poi entrano in Boves, chi li comanda fa radunare la popolazione in piazza e dice: «Se non volete che fuciliamo gli uomini andate in montagna e dite ai ribelli che hanno quarantott'ore di tempo per scendere. Se consegneranno le armi saranno lasciati liberi». Qualcuno sale sulla montagna a informare i ribelli, ma ormai Aimo e gli altri del paese hanno deciso: «Meglio morire qui che darci prigionieri».

Il giorno 19 Peiper manda a Boves due SS in automobile: soli, in un paese di cui si dice sia il centro della ribellione. Può essere la ricerca di un pretesto, o semplicemente l'ordine crudele di un comandante crudele, o anche il disprezzo per l'italiano smarrito e imbelle della disfatta. Alle 10 i due si fermano sulla piazza del paese e si guardano attorno, poi vorrebbero ripartire ma il motore si è guastato. Sono indaffarati a ripararlo quando arriva sulla piazza, mitragliatore sul tetto, un camion di ribelli, scesi per la corvée del pane. Non si spara neppure: i due vengono subito catturati, fatti salire sul camion, portati in montagna fra la gente che applaude. Poi la folla incomincia a diradarsi, dopo qualche minuto il paese sembra deserto. Le SS arrivano alle 12,30. Peiper va in municipio, cerca del podestà e del segretario comunale: sono già fuggiti in montagna. Si presentano il parroco don Giuseppe Bernardi e l'industriale Antonio Vassallo. «Andate lassù, fateveli restituire» urla il tedesco. «Risparmierà il paese?» chiede il prevosto. Peiper dà la sua parola. Il prete e l’industriale salgono da Vian al Castellar, in automobile, sventolando uno, straccio bianco. Dopo quaranta minuti tornano con i prigionieri; si è discusso fra Aimo, Giuliano e Vian, ma alla fine hanno deciso di dare ascolto al parroco: se vuole dica pure che i ribelli stanno sciogliendosi. Don Bernardi, ora che i prigionieri sono restituiti, non serve più, Peiper rompe gli indugi, la lezione del terrore comincia subito, come raccontano le testimonianze.

«Vedemmo le prime volute di fumo. Passò una donna gridando: "Hanno ucciso Meo! Hanno ucciso Meo!". Qualcuno dl noi scappò, io rimasi alla fontana per finire di lavare.»

«Avrebbero dovuto mantenere la parola, invece noi di dentro la trattoria sentimmo raffiche di mitraglia. Li per lì si decise di tornare a casa ma in quel momento entrò Beppe con la camicia insanguinata: "Sparano su tutti", disse».

«Erano vestiti di giallo e di marrone come i teli-tenda. lo ero con uno di Rosbella. Gridarono qualcosa che non capimmo, poi si misero a sparare. Il mio compagno ebbe un braccio spezzato al gomito».

«In piazza Italia un carro armato era fermo davanti l'osteria Cernaia. Vicino al carro c'era un giovane, lo riconoscemmo subito. Benvenuto Re di 17 anni. Visto che i tedeschi si erano allontanati e parevano non interessarsi di lui, lo esortammo a fuggire. Sorrise e rispose: «Am faran pa gnente ». Alla sera vidi il suo cadavere sulla piazza».

A un ordine del maggiore Peiper don Giuseppe Bernardi e Antonio Vassallo vengono fatti salire su una camionetta. «Fategli ammirare lo spettacolo a questi signor!», dice Peiper. Il sadismo non è casuale, nella lezione nazista del terrore. La camionetta percorre lentamente il paese in fiamme, perché il signor prevosto possa vedere che ne è dei suoi parrocchiani.

«Ero in casa, entrarono tre tedeschi e si misero a cospargere con un liquido i mobili del nostro piccolo salotto. Ma perché li rovinate? dissi. Uno mi colpì al ventre con un calcio. Dopo vidi tutto bruciare attorno a me».

Così in centinaia di case. Alla fine del giro, il parroco e l'industriale vengono cosparsi di benzina, colpiti da raffiche, dati alle fiamme mentre agonizzano.

La lezione del terrore è distinta dalla repressione armata della ribellione: a Boves si incendia e si spara sui civili, prima e durante i combattimenti con i ribelli. Mentre Boves brucia, una colonna di SS sale verso il Castellar. I partigiani hanno piazzato il loro pezzo da 75 al ponte del Sergent: spara il suo unico colpo alzo zero e immobilizza l'autoblindo di testa; poi il fuoco partigiano mette in fuga quelli dei camion. Sul terreno, presso il ponte, c'è il primo morto ribelle, un marinaio. Stanno seppellendolo, quando i tedeschi ritornano in forze: una decina di carri armati arrivano all'altezza del ponte, girano a destra nel prato e si allineano come per una parata. Ignazio Vian ha ordinato ai suoi di non sparare. I cannoni tedeschi aprono il fuoco, terra e corteccia di castagni volano in aria, passano sibilando i proiettili delle mitragliere; quelli esplosivi danno l'impressione che qualcuno spari anche dall'alto. Quando i tedeschi salgono all'attacco, Vian si mette a urlare ordini a reparti inesistenti, e poi con i pochi che gli sono rimasti vicino, forse venti uomini, va al contrattacco lanciando bombe a mano. I tedeschi si ritirano.

Intanto i contadini in armi sulle colline vedono il fumo che sale dalla parte di Boves. Di sera una luce rossastra si allarga nel cielo pallido. Aimo e Giuliano scendono a vedere. Dirà Giuliano: «La cittadina pareva morta. Non vidi che cinque-sei persone. Le fiamme erano sole a regnare sovrane, tutto divorando. Le due piazze erano illuminate a giorno; ogni tanto qualche figura umana passava fra i bagliori. Quasi ovunque si sarebbe potuto leggere il giornale, benché fossero ormai le dieci. Davanti la calzoleria Borello trovai un tale. Aveva una bottiglia in mano. "Mah", diceva, "casa mia brucia e io sono qui. Mah, beviamo ancora una volta"».

Sulla montagna sono rimasti in pochi. Vian e i suoi sì spostano in val Vermenagna. A Boves, il giorno 20 si contano i morti e le case distrutte: ventitré morti fra i civili, centinaia di case bruciate, i raccolti persi, il bestiame soffocato nelle stalle. Arriva da Cuneo il viceprefetto, trova il carabiniere Vota, lo manda a cercare qualche impiegato del municipio. Il carabiniere ritorna con gli impiegati Stefano Pellegrino e Antonio Barale. «Perché non siete in ufficio? Che state facendo?». «lo», dice Pellegrino, «è da due giorni che faccio il pompiere». «Su, sbrighiamoci », fa il viceprefetto, «saliamo in municipio». Dirà il testimone Pellegrino: «Quando arrivò al primo piano rimase male. Non c'era più nulla, tutto era scomparso. Si vedevano solo le macchine da scrivere contorte. Assicurai il vice prefetto che i registri dell'anagrafe erano stati messi in salvo. «Va bene» disse lui con le labbra che gli tremavano. «Vuoi venire al cimitero?» gli dissi. «No», disse lui, «ai riconoscimenti pensateci voi». Se ne andò sconvolto, forse non aveva creduto di assistere a tanta tragedia. Andammo nel cimitero. A destra entro due piccole bare, don Bernardi e Vassallo. Sembravano due bambini tanto erano rattrappiti. Poi gli altri. Non posso dimenticare la smorfia terribile di Minicu du Siri. Era un mutilato di guerra.

(1) Ignazio Vian, nato a Venezia nel 1917, impiccato a Torino il 22 luglio 1944, maestro elementare e studente in Magistero, Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria. Tenente di complemento della Guardia alla Frontiera, l’8 settembre 1943 era in servizio a Boves. All’annuncio dell’armistizio, fu tra i primi ad attestarsi sulla Bisalta, la montagna che sovrasta l’intera zona, per apprestarsi a rispondere con le armi all’incombente minaccia tedesca.

 

LA STRAGE DI MEINA

Liberamente tratto da "Storia dell’Italia partigiana" di Giorgio Bocca - Editrice Laterza 1980

 

Meina è un villaggio residenziale sulla riva del lago Maggiore, luogo di rifugio, nel settembre del 1943, di famiglie israelite. Alcune hanno qui le loro ville, gli ebrei rimpatriati da Salonicco dopo l'occupazione tedesca abitano in albergo. Le famiglie Fernandez, Mosseri, Torres, Modiano ali hotel Meina dove è arrivata da Milano, la famiglia Pombas - in tutto, diciassette persone. Nei giorni dell'armistizio passano le punte motorizzate tedesche che vanno a chiudere i valichi con la Svizzera, ma il 15 settembre un reparto SS mette presidi nei centri rivieraschi e il Comando a Baveno. Sono SS reduci dal fronte russo, specializzate nella strage dell’ebreo. Lassù il massacro è finito, qui si può continuare, anche se, al confronto si tratterà di briciole.

Un plotone viene diritto all'hotel, cattura gli ebrei. Chi li ha indirizzati? Le voci corrono nel piccolo paese sulla riva del lago. Si dice che siano stati i Petacci, i parenti di Claretta l'amante di Mussolini, per vendicare le ironie e gli insulti del periodo badogliano. C'è chi parla invece di un cliente novarese: avendogli l'albergatore rifiutato una stanza, lo avrebbe denunciato come ebreo che favorisce gli ebrei. A fine guerra si racconterà di misteriosi giustizieri in divisa inglese (gli israeliani della VIII armata britannica?) venuti da Milano a regolare i conti. Ma non c'è niente di certo.

I diciassette ebrei dopo la cattura sono riuniti in un salone al terzo piano. Sentinelle davanti alla porta, proibizione di avvicinarsi, unica eccezione per una signora milanese «ariana» fidanzata di un Pombas. Alla notizia della retata c'è stato il fuggi fuggi degli ebrei dalla costa, ma qualcuno non ha potuto evitare la cattura. Trascorrono sette giorni: gli ebrei sempre chiusi nel salone del terzo piano gli «ariani» che riprendono la solita vita. Siamo in tempi di grandi egoismi e le SS si mostrano cortesi con gli «altri». Il 22 giunge da Baveno un giovane ufficiale di nome Krüger, riunisce gli «altri» e dice: «Vi avviso che stanotte trasporteremo gli ebrei in un campo di lavoro. Prego scusare se ci sarà un po' di disturbo». E agli ebrei tramite l'interprete, la signora Rosenberg: «stanotte partite per un campo di lavoro che è a duecento chilometri. Restano, per il momento nonno Fernandez e i suoi tre nipotini. Troveremo per loro un mezzo di trasporto più comodo».

Il viaggio notturno degli ebrei di Meina non è lungo duecento chilometri, termina appena fuori il paese, in riva al lago. I tedeschi li fanno scendere, ordinano agli uomini di togliersi la giacca (hanno una lunga esperienza, una tecnica precisa, evitano le fatiche inutili come quella di togliere le giacche ai cadaveri da affondare nel lago). Poi li uccidono a colpi di rivoltella alla nuca, gli legano dei pietroni al collo con funicelle di acciaio, li buttano in acqua. E' un lavoro notturno affrettato: le correnti del lago slegano i pietroni, l'indomani i cadaveri affiorano, i pescatori si avvicinano. Una barca ne traina due a riva mentre passa in bicicletta da Arona la signorina Galliani, frequentatrice dell'hotel Meina: «Ma li conosco» dice «lui è un Fernandez, lei è la signora Maria Mosseri». Arrivano i carabinieri. «Via», dicono, «lasciate stare. I tedeschi non vogliono che ci occupiamo di questa faccenda».

Nella notte fra il 23 e il 24 vengono trucidati il nonno Fernandez e i nipotini. Si odono gli urli dei bimbi, le implorazioni del vecchio, gli spari. La macabra pesca continua. Se affiora un cadavere, le SS lo raggiungono in barca e lo sventrano con le baionette perché si riempia d'acqua. Poi trovano un metodo più sicuro: li trascinano a riva e li bruciano con i lanciafiamme.

Negli altri paesi l'eliminazione avviene giorno per giorno.

Un rapporto dei carabinieri del 30 settembre dà queste cifre di ebrei uccisi e gettati nel lago: Arona 4, Meina 12, Stresa 4, Baveno 14. La cifra esatta è cinquantaquattro, ma non è questo che conta. L'ordine di uccidere è arrivato a Baveno da Milano, dal capitano Saewecke.

LA LEZIONE DI MEINA

La strage degli ebrei sul lago Maggiore dà agli italiani del settembre la lezione agghiacciante del genocidio. Lezione diretta, inequivocabile, che dovrebbe mettere fine alle mormorazioni, ai dubbi. Ma l'incredulità è tenace, l'italiano, come gli altri occupati, come il mondo, non vuole credere a un delitto cosi fuori di misura. Da noi le voci sulla persecuzione sono arrivate da alcuni anni; poi il sospetto del massacro, portato dai nostri soldati, reduci dal fronte russo o dai Balcani. Tutti quegli ebrei deportati; gli altri usati come schiavi; e dietro qualcosa di spaventoso, di inconfessabile.

“Un ebreo vestito di nero correva agitando un bastone; allontanava i bambini dalla tradotta, sapeva che i tedeschi sparavano senza pietà. Una ragazza passando lungo la nostra tradotta senza mai sostare, con voce calda, lontana, ripeteva in latino una preghiera: chiedeva pane. Era un'ombra, sembrava uscita da un mondo di bestie” (da “La guerra dei poveri” di Nuto Revelli).

Il diarista italiano che vede e scrive in una stazione polacca, nell'estate del 1942, arriva a immaginare un mondo di bestie, non lo sterminio burocratizzato e scientifico delle camere a gas. I reduci come lui raccontano, ma nell'Italia del 1943 l'opinione pubblica non può pensare la «soluzione finale», cioè lo sterminio di un popolo intero, donne vecchi e bambini. Non ci pensano neppure gli ebrei italiani, anche se ospitano dei correligionari austriaci, cecoslovacchi e francesi sfuggiti al massacro. Nessuno ha visto con i suoi occhi, tutti pensano che «qui non succederà». Molti israeliti italiani non ci credono neppure dopo Meina, neppure nei primi mesi della repubblica fascista. Ce ne sono che si rivolgono al ministro fascista Buffarini Guidi per sapere se è proprio vero. La guida politica della comunità ebraica italiana è mediocre, ferma su posizioni di prudentissima rassegnazione.

Dopo Meina si dà la caccia all'ebreo in tutte le provincie italiane, negli stessi giorni si fa la retata degli israeliti francesi riparati nella valle Gesso, vicino a Cuneo, al seguito della IV armata. Sono circa 900, ne vengono catturati 493, solo 25 sopravviveranno alla deportazione. Caccia ai 55.000 ebrei fra locali e forestieri che si trovano in Italia. I tedeschi occupanti non hanno bisogno di una istruzione particolare: il generale SS, Karl Wolff ha partecipato alla strage in Polonia; il suo braccio destro generale Wilhelm Harster ha eliminato giudei in Olanda; a Trieste c'è Odilo Globocnik, colui che ha insegnato a Adolf Eichmann, il grande organizzatore dell'eccidio, come si possono usare le camere a gas.

Dal diario di Rebecca Behar, Becky, sopravvissuta alla strage di Meina quando aveva poco più di tredici anni, morta a Milano il 16 Gennaio 2009: «Era la camera 410, ultimo piano. Noi eravamo sei: i miei genitori, mia sorella, i miei fratelli. Ci spinsero dentro e c’erano altri sedici ospiti dell’albergo, sprangarono la porta con una sentinella dietro. Cedemmo i materassi agli anziani. C’era chi piangeva, chi pregava, i grandi provavano a farci coraggio. Fuori si sentivano urla, ordini, un gran via vai di tedeschi. Dopo due giorni un SS, nemmeno ventenne, mi prese da parte e mi chiese: "Come ti chiami?" - Becky, risposi. E lui: "Tu sei ebrea, un giorno ti sposerai, farai dei figli ebrei e saranno tutti nemici della grande Germania"».

 


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