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Musicista, strumentista e compositore (Woodbridge, Sussex, Gran Bretagna, 1948)
Brian Peter George St. John Le Baptiste de la Salle Eno, è uno dei musicisti inglesi che maggiormente hanno influenzato e influenzano la musica rock degli ultimi trentacinque. Nel 1971 fonda insieme a Brian Ferry i Roxy Music, un gruppo che è tra i primi a proporre una musica lontana da schemi e convenzioni tradizionali e ricca di sperimentazioni sonore. Due anni più tardi, lascia il gruppo per affiancare alla sua carriera da solista un’intensa attività di produttore. Eno è attratto dalla creazione di quelli che definisce i “paesaggi sonori”, basati su sofisticate manipolazioni degli echi e dei timbri, secondo uno stile che ne fa, alla fine degli anni Settanta, uno dei padri spirituali della musica new age. Negli anni, Eno intensifica la sua produzione, continuando a incidere dischi, fra i quali ricordiamo il terzo capitolo della sua “Music for Films” (1988), gli “Eno Box 1” e “Eno Box 2” (1993-94), e dedicandosi alla realizzazione d’installazioni multimediali accompagnate dalle sue composizioni musicali. Fra i molti artisti per i quali ha lavorato come produttore, vi sono David Bowie, gli U2 e i Talking Heads. Eno ha inoltre lavorato per il cinema realizzando e producendo numerose colonne sonore tra le quale “Fino alla fine del mondo” (1991), “Trainspotting” (1995), “Basquiat” (1996) e un suo brano è stato scelto dalla Microsoft per accompagnare la prima versione di Windows 95®.
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La figura che riassume una parte significativa della musica inglese d’avanguardia dagli anni Settanta agli anni Novanta, è senza alcun dubbio Brian Eno. L’importanza retrospettiva della sua opera cresce di anno in anno. Non solo Eno ha apportato rivoluzionarie innovazioni nel modo di concepire e realizzare una canzone di musica rock (a metà degli anni Settanta ha inventato la musica ambientale, destinata a diventare uno dei generi principali degli anni Novanta), ma con i suoi dischi e i suoi scritti, ha teorizzato un nuovo modo di fare e fruire musica. È probabile anzi che ci vorranno ancora molti decenni prima che la musica finisca di assorbire le sue intuizioni. Nel 1964 Eno, lasciato il convento cattolico dove riceve l’istruzione media, studia arti visive alla Ipswich Art School e due anni dopo è alla Winchester Art School: studia arte, scrive e s’interessa alla musica di John Tilbury e Cornelius Cardew. Forma egli stesso un gruppo di musica d’avanguardia (Merchant Taylor’s Simultaneous Cabinet) uno orientato verso il rock in cui improvvisa le parti vocali (Maxwell Demon), e da cantinaro, musica sperimentale a Winchester; apprende le tecniche radicali della musica concreta, aleatoria, gestuale, minimale ed elettronica (inventa persino una macchina sonora ad acqua piovana e registra un pezzo per percussione di lampada metallica). È il 1968 quando condensa queste esperienze nel libro manifesto “Music For Non-musicians”, nel quale propugna la figura del “non-musicista”. L’opera d’arte deve essere composta in tre fasi: concepimento del brano, esecuzione da parte di singoli strumentisti competenti e manipolazione finale dei nastri da parte dell’autore. Eno è interessato soprattutto alla terza fase. Dopo aver conseguito la laurea in Belle Arti (1969), Eno si guadagna da vivere lavorando come grafico per un quotidiano della capitale e al tempo stesso si offre come tecnico del suono al complesso rock Roxy Music. Presto la seconda attività prevale sulla prima e il tecnico del suono è promosso al sintetizzatore, strumento tramite il quale Eno inietta stranianti effetti elettronici sulle canzoni del gruppo. Abbandonato il gruppo dopo il secondo album (1972), nei due anni successivi Eno si dedica ad un’infinità di collaborazioni, sia come musicista sia come produttore. L’esordio creativo avviene per piccoli passi, ma fin dall’inizio Eno si muove lungo due binari paralleli. Da un lato l’approccio tecnologico, che consente al “non-musicista” di fare musica e che trasforma il compositore in programmatore di apparecchiature sofisticate (sintetizzatori, equalizzatori, unità di eco, unità di ritardo, registratori e monitor). Dall’altro lato si situa l’operazione del musicologo rock che ragiona sul rock stesso, riciclando stili e temi dejà vu in maniera opportunamente ricodificata secondo una prassi tipicamente post-moderna. Da un lato prendono corpo allora gli esperimenti ai nastri in coppia con Robert Fripp, mentre dall’altro Eno sconvolge la tradizione della musica rock con la tetralogia di HERE COME THE WARM JETS, TAKING TIGER MOUNTAIN, ANOTHER GREEN WORLD e BEFORE AND AFTER SCIENCE. Nel 1973 fonda e produce la Portsmouth Sinfonia (PLAY THE POPULAR CLASSICS e HALLELUJAH), orchestra semi-classica e semi-seria sotto la cui sigla si raccolgono molti bei nomi dell’avanguardia colta inglese. La provocazione (di questo si tratta, infatti) consiste nel riproporre brani “immortali” del repertorio classico (Beethoven, Schubert, Tchaikovsky, Bach, Strauss) con piglio da primo anno di Conservatorio, collezionando errori e stonature ad hoc con risultati esilaranti. NO PUSSYFOOTING è un album di “tipi musicali di suono”, ovvero frammenti di suono che sono associati mentalmente a strumenti o a forme note, anche se di per sé quei frammenti non sono musicali. Sia questo album, sia il successivo EVENING STAR, stratificano gli arabeschi chitarristici di Fripp sulle figure elettroniche di Eno. Per quanto l’intuizione sia foriera di sviluppi importanti, queste opere rimangono irrisolte, ripetitive, pedanti, tutt’al più atmosferiche. HERE COME THE WARM JETS è più che altro un tour de force vocale che culmina nel rocambolesco inno psichedelico a ritmo pellerossa di “Baby’s On Fire”. A una forma intellettuale di demenzialità si attengono le cantilene di “On Some Faraway Beach”, “Paw Paw Nero Blowtorch” e “Driving My Backwards”, private del caustico mordente del music-hall e immerse invece in una fredda razionalità armonica, erudite astrazioni dell’eccentrico e dell’assurdo. La produzione è ancora approssimativa e naif, con le chitarre alterate elettronicamente di Fripp e Manzanera a guastare invece che decorare, e la raccolta è un po’ dispersiva, come se fosse semplicemente un quaderno di appunti che si sono accumulati negli anni. Eno perfeziona l’idea con TAKING TIGER MOUNTAIN, forte dell’aiuto di Robert Wyatt alle percussioni e di Phil Manzanera alle chitarre. Splendido sia nell’accezione di desolata parodia (con l’ironia distaccata dei dandy) sia in quella di saggio postmoderno, di scombinato affresco senza capo né coda, castello superbo di rifiuti maleodoranti, puzzle indecifrabile di gesti futili e di scatti nevrotici, monumento all’intelligenza abnorme del quotidiano. Eliminando del tutto quello che era stato il punto debole dell’esordio, il disco si avvale del non plus ultra degli arrangiamenti, tanto da imporre uno standard per il sound degli anni Settanta. Concepito come musica per un balletto rivoluzionario cinese, il disco propone non una ma tre geniali revisioni del modo tradizionale di fare musica: un modo di dar veste intellettuale alle musiche del music-hall, l’idea di mescolare sonorità etniche agli arrangiamenti della canzone occidentale, e l’intuizione che le nuove tecniche di studio possono dar nuova vita al genere della novelty. Le gag sgangherate da avanspettacolo sono l’ultimo legame con il rock, ma persino il valzerone marziale di “Back In Judy's Jungle” (con simulazione elettronica di fisarmonica, coro di fischiettii e tintinnio isterico di organetto di strada) e il coraccio da pub della title-track, tradiscono un’altezzosità accademica che le situa in una dimensione meno goliardica dell’assunto. Il disco rigurgita poi di timbri e ritmi dell’Estremo Oriente. “Fat Lady Of Limbourg”, “Great Pretender” e “China My China”, sono altrettanti esperimenti di come una nenia giapponese, un gong, le bacchette cinesi o le nacchere, e in generale lo sterminato patrimonio delle musiche etniche di tutto il mondo, possano venir mescolate agli strumenti della musica rock. Alla fine a svettare sono però i primi capolavori in quella che è la specialità di questo periodo: la filastrocca a ritmo martellante, una forma nevrotica e schizoide di “singalong”. “Mother Whale Eyeless” e “Burning Airlines” sono costruite su una ripetizione ossessiva in crescendo del ritornello, cantato a sua volta con nonchalance androide, sul quale la chitarra di Manzanera volteggia incendiaria. La struttura del brano deriva da una stratificazione rocambolesca di effetti. In “True Wheel” si succedono a rotta di collo: sintetizzatore schizoide e ritmo rock and roll, declamazione didattica da cabaret brechtiano e coro rivoluzionario, assolo pulsante di chitarra e raddoppio di ritmo per il gran finale. È in questi brani che si sublima l’idea di un rock che non è più rock, che rispetta le regole armoniche del rock ma ha perso i suoi contenuti emotivi. Eno mimetizza la musica. Alla canzone toglie il motore e lascia soltanto la carrozzeria. Attua organicamente un processo di demolizione della realtà che precede il processo di montaggio delle astrazioni. Nella contesa fra creatività e spettacolo Eno va tracciando la sua “strategia obliqua” all’insegna di una spregiudicata fusione di modi dell’avanguardia e di decadenza dozzinale che fa perno su una cinica retorica dell’ambiguità. ANOTHER GREEN WORLD prosegue il discorso con maggior consapevolezza, progredendo su tre piani paralleli: quello della qualità del suono, che è sempre più cristallino, quello dell’assimilazione dell’elettronica, che ormai è a pari livello degli strumenti tradizionali, e quello dello “straniamento” dell’atmosfera, che trasforma ogni canzone in un’astrazione sempre più complessa. In un certo senso questi tre piani si alimentano a vicenda: nella misura in cui aumentano la sua attenzione e la sua dimestichezza con le apparecchiature dello studio di registrazione diminuisce l’emotività della musica che Eno produce con tali apparecchiature. La prima logica conseguenza di questo processo è che il canto perde il suo ruolo guida e si fa largo poco alla volta la concenzione di una musica puramente strumentale. Persino lo svolgimento drammatico della canzone perde d’importanza, tant’è che proprio i brani strumentali tendono ad essere massimamente concisi. Gli strumenti (la chitarra di Fripp, la batteria di Phil Collins, la viola di John Cale) sono dosati in modo da stimolare l’immaginazione, trasformando gli spunti più innocenti in deliri metafisici. Siano ritornelli orecchiabili come “Golden Hours”, bizzarrie armoniche come “Sky Saw”, cadenze impossibili come “St. Elmo’s Fire” o esotismi dozzinali come “I’ll Come Running” e “Everything Merges With The Night”, le “canzoni” brillano di luce riflessa. Più allucinanti i brani (strumentali) che Eno esegue da solo, trincerato dietro palizzate di tastiere, alla titanica ricerca dell’aforisma sonoro capace di condensare in poche note le sensazioni più profonde. Il metallurgico clangore industriale di “In Dark Trees”, il mantra epico e cosmico di “The Big Ship”, il balletto africano di “Sombre Reptiles”, l’estasi celestiale di “Becalmed”, la suspence sinistra di “Zawinul Lava”, il lamento desolato di “Spirits Drifting” compongono un mosaico di paesaggi (naturali e mentali) che si spinge ben oltre i confini della musica rock. I riferimenti possibili sono sparsi su un fronte enorme: i balletti fauve, l’avanguardia dadaista, la muzak dei supermercati, le colonne sonore di Hollywood e soprattutto il rock psichedelico. Decantata e filtrata, la musica di TIGER si riduce a schizzi di “maniere”, ad un mosaico di “incompiuti”, ad una raccolta a seguire. Eno affida ora gran parte dell’orchestra al sintetizzatore, che è forse la vera voce del disco. Eno reinventa il ruolo dello strumento, conferendogli una preminenza e una libertà da strumento guida che soltanto chitarra e organo avevano goduto nel rock. BEFORE AND AFTER SCIENCE sigilla la stagione di questo “meta-rock”, fondendo le conquiste dei due dischi precedenti in un formalismo esasperato. La biologia sonora di Eno seziona e ricompone cellule di rock contemporaneo, e in quest’ambito la sua mano è ormai quella di un virtuoso. Concepito in gran parte in Germania, dove ha soggiornato in compagnia di Fripp e David Bowie e dove ha stretto amicizia con i Cluster, il disco proclama in copertina il debito verso le “strategie oblique” elaborate insieme al disegnatore Peter Schmidt e si avvale di un’imponente schiera di collaboratori, da Fripp a Fred Frith, da Manzanera ai Cluster stessi. Eno avanza sia sul fronte del ballabile tecno-esotico (le sincopi stranianti e le cadenze caraibiche di “No One Receiving” e “Kurt’s Rejoinder”), sia su quello della cantilena rock and roll: in “Backwater” azzecca una delle sue singalong più accattivanti, una delle cadenze più demenziali e uno degli accompagnamenti di synth più trascinanti, e in “King’s Lead Head” si ripete con un rock and roll mozzafiato battuto sulle mani e dissonato sul piano, una corsa ferroviaria a tutta velocità con tocchi estrosi di synth. Scodella con raziocinio e restauro-mania filastrocche psicotiche masticate fino alla nausea da un cantante meccanico, ritmate in maniera paranoica, infarcite di arrangiamenti sofisticati e con il sottofondo metafisico delle tastiere elettroniche. Il catalogo di quadretti strumentali si arricchisce di due miniature geniali: “Julie With”, liquida, tenera e cristallina, e il lirico spunto pastorale di “Through Hollow Lands”. Chiude il disco il salmo psichedelico e cosmico di “Spider And I”. Con questo terzo capolavoro, si compie la trilogia del meta-rock. Eno ha cambiato per sempre la storia della musica popolare. Prima di tutto ha capito che è cambiato il modo in cui si produce la musica: l’artista non entra più nello studio di registrazione soltanto per immortalare la canzone che esegue dal vivo, ma agisce come un pittore che nel suo studio artistico reinventa il reale e l’immaginario, dipingendolo con i suoni. Brian Eno conferisce semplicemente statura artistica al ruolo del produttore, che dai primi anni Settanta aveva preso il sopravvento su quello dell’autore in innumerevoli casi. Ma con quest’opera compie anche un’operazione subdola sul “protagonista” della musica. La musica popolare strumentale esisteva da quando esisteva la musica popolare, ma nelle mani di Eno diventa qualcosa di diverso: tradizionalmente un brano strumentale era semplicemente una canzone senza canto. Ma era ancora fondamentalmente una canzone. Eno sottopone il formato della canzone ad un processo di progressiva spersonalizzazione: da un lato accentua la complessità dello “sfondo” strumentale su cui si muove il canto e dall’altro riduce l’interesse del canto utilizzando uno stile di cantilena infantile, un po’ robotico. In pratica rende sempre meno interessante la parte cantata e sempre più interessante la parte strumentale di una canzone, quella che lui chiama, con una similitudine nuovamente pittorica, il “paesaggio” di una canzone. Il passo successivo consiste nell’eliminare del tutto il canto, divenuto ormai inessenziale, e lasciare soltanto quel “paesaggio”, in tutta la sua complessità. Muore il compositore di canzoni e nasce il pittore di suoni. Il brano strumentale acquista un senso oltre il ritornello, per il semplice fatto di essere un paesaggio (sonoro) interessante. Nel complesso si ha l’impressione di un’opera di portata rivoluzionaria, ma non di un’opera monumentale; di un quaderno di appunti geniali, ma non di un solo grande capolavoro. Anche in questo si riconosce l’appartenenza di Eno alla generazione decadente, che ha ripudiato l’opus monolitica a favore del frammento. A questo punto Eno fonda l’etichetta Obscure, destinata a raccogliere intorno a sé vecchi e nuovi nomi dell’avanguardia e della sperimentazione musicale inglese (Gavin Bryars, Christopher Hobbs, David Toop, Michael Nyman, Harold Budd, Penguin Café Orchestra ed altri). Per vararne l’ambizioso programma si cimenta in prima persona coniando la DISCREET MUSIC. L’opera consta di un lungo brano programmato che si liquefa lento e seducente con piccolissimi interventi dell’esecutore, corrispondenti a minime variazioni del suono; una musica che si dipana per tocchi vellutati, per riverberi infiniti, per sovrapposizione di interferenze; una musica che può essere ascoltata e al tempo stesso “ignorata”, una forma “colta” della muzak in cui il compositore ha un ruolo piuttosto passivo. È l’esasperazione dei dischi realizzati con i Cluster. Eno cerca strutture minimali, lente e graduali, umili e solenni, prive di sbalzi emotivi. La musica statica di LaMonte Young e i continuum di Ligeti ne sono gli antecedenti più noti, ma il punto di Eno è più radicale: il suo punto è l’“inutilità” della musica. La musica che l’ascoltatore fruisce non è necessariamente quella che il musicista compone: ad essa possono essere sovrapposti altri suoni, oppure semplicemente i rumori ambientali, e l’umore stesso dell’ascoltatore può a sua volta mutare l’effetto originale. Morale: tanto vale lasciar andare alla deriva un pattern anemico e monotono. In questo modo l’influenza degli elementi estranei sarà più evidente. Al limite questa musica “discreta” serve a far fruire i suoni che non sono stati registrati (quelli ambientali) e quelli che non esistono (la predisposizione dell’ascoltatore). Sul fronte rock Eno compie l’ultimo decisivo passo con la MUSIC FOR FILMS. Questo è infatti un collage di frammenti solamente strumentali, che idealmente salda il miniaturismo di GREEN WORLD con le intuizioni di più ampio respiro della musica discreta. Ognuna delle diciotto miniature che compongono il disco pulsa di vita propria, tesa a fabbricare un’identità sonora più che un’immagine precisa. MUSIC FOR FILMS segna la transizione dalle gag surreali dei primi tempi a un impressionismo contemplativo, quasi religioso. Il nuovo linguaggio musicale è fatto di atmosfere sospese, di quieti soprannaturali, di trasparenze oniriche, di nebbioline metafisiche, di vortici galattici, di fremiti impercettibili, sui quali domina uno spaventoso senso di vuoto. Una malinconia universale presiede alle lente, leziose evoluzioni di queste mini-sonate romantiche, che in certi punti ricordano le più dolenti romanze senza parole di Mendelssohn (“Slow Water”), in altri lambiscono i mantra (“Sparrowfall”, “Events In Dense Fog”, “Final Sunset”), e in altri ancora disegnano suspence cosmiche (“Alternative 3”). Per quanto eterogenea e occasionale, questa raccolta segna il punto di massima perfezione formale della sua versione minimale e romantica della musique concrete. In seguito Eno porta il concetto di “musica discreta” alle estreme conseguenze con la MUSIC FOR AIRPORTS. L’opera fa parte di un progetto di “musica per ambienti” nel quale Eno coinvolgerà altri sperimentatori (Harold Budd, Jon Hassell). Con essa Eno si pone alla testa di un movimento che intende dedicarsi alla produzione di musica di sottofondo, analoga alla muzak degli anni Cinquanta in quanto a metodologia d’ascolto (o meglio di non-ascolto, poiché questa musica è proibito ascoltarla con attenzione: dopo aver proibito al compositore di comporre, Eno proibisce anche all’ascoltatore di ascoltare), ma diversa nella costituzione. Eno la immagina colonna sonora della vita quotidiana tanto nei grandi padiglioni di un’esposizione, quanto nelle vaste hall degli aeroporti. Al di là del dichiarato rifiuto dei ruoli tradizionali del compositore e dell’ascoltatore, la musica per ambiente fissa i contorni di quel vuoto che s’intuiva in fondo alla musica discreta. Sia come sia in questo disco giunge a straordinaria maturazione l’emulazione dell’onirica weltanschauung di Robert Wyatt, dalla quale Eno era rimasto soggiogato fin dal tempo dei dischi miniaturisti. Ora, invece che agire sulla tonalità del canto, Eno diluisce i ritmi, li cancella del tutto, e sparge note di pianoforte al rallentatore. I sedici minuti del primo brano sono suonati da Wyatt in persona e sono i più trascendentali: ogni pattern pianistico solleva eleganti volute di riflessi sotto forma di frammenti di un estatico mantra elettronico. Il secondo brano è costituito dalle pulsazioni, dagli echi e dalle sovrapposizioni di un coro a cappella, le quali si susseguono metodicamente per otto minuti dando l’impressione di un rimbalzare inerte di galassia in galassia. Il terzo brano fonde piano e coro, ma, se il coro conserva il suo moto religioso ed astrale, il pianoforte ha ora un tocco più secco, procede per brevissimi scatti nervosi verso una disperazione più umana. In realtà il termine “ambient music” assume nel tempo almeno tre significati diversi. Con DISCREET MUSIC Eno si rende conto dell’importanza che l’ambiente riveste per l’ascolto: per esempio lo stesso disco può essere ascoltato con uno stereo funzionante o con uno stereo difettoso, e i risultati sono drasticamente diversi. L’alea di John Cage viene qui trasferita dal processo compositivo a quello di fruizione. In questa accezione non ha senso fare musica “sensazionale”, cioè una musica che sorprenda e attragga l’ascoltatore, mentre è interessante fare musica neutra, che scorra senza emozioni, eventualmente anche per ore. Musica ambientale è poi quella che è concepita per un ambiente ben preciso (film, aeroporto, supermercato, galleria d’arte), la muzak dell’era tecnologica. Anche questa da ignorare più che da ascoltare. E infine musica ambientale è quella che trae lo spunto da un ambiente (anche con suoni concreti) e quindi indirettamente lo descrive. In pratica la musica ambientale di Eno non è nessuna di queste tre, in quanto il non-musicista non si ferma qui. La graduale progressione verso il movimento (dell’armonia e delle sensazioni) prosegue infatti con i due dischi successivi, che introducono elementi psicanalitici e coniano di fatto una sorta di musica “psico-ambientale”. Ogni brano conserva comunque la caratteristica di staticità, quel meccanico ripetere all’infinito il proprio geroglifico sonoro oscillando nell’intorno della posizione di equilibrio. Le principali differenze sono di umore (dal mistico-trascendente allo psico-drammatico) e soprattutto di durata: il pattern melodico/ritmico/armonico non è ripetuto all’infinito ma si arresta dopo quattro-cinque minuti. Proseguendo il programma di MUSIC FOR FILMS, AMBIENT FOUR - ON LAND è un mosaico di otto evocazioni rallentate spazzate da languidi soffi di sintetizzatore. Abolito il ritmo, Eno scava fra un quanto e l’altro del suo spazio discreto, dove, dicono i testi della Fisica Teorica, il nulla è una fluttuazione casuale di onde. La musica non è più che un coacervo di echi e vortici dilatati nel tempo: gli uragani lontani impercettibili di “Lizard Point”, la cupa frequenza cosmica di “Lost Day”, i lugubri fruscii e stridori di “Lantern Marsch”, i bagliori di chitarra dissonante di “Denwich Beach”, i riverberi di versi di animali della jungla di “Unfamiliar Wind”. Ogni composizione si replica ad libitum riciclando in innumerevoli variazioni il proprio “tema”. È un suono scarno, imploso, involuto, prodotto per decantazione elettronica e concepito per evocare l’infinito attraverso stasi e ipnosi, per simulare moti impercettibili della natura, per dar suono a pure immensità astratte, per alimentare paure e incubi, per comporre sinfonie di palpiti e bisbigli. La quiete ossessiva di queste lente e perenni fluttuazioni è violata dai disturbi organici, pulsanti, in ebollizione, di “Tal Coat” e dalla suspence di “Shadow”, un campo di cicale battuto dal soffio arcaico e orientale della tromba di Jon Hassell. La musica ambientale diventa musica-thriller, musica da brivido, musica-suspence, musica di presagi sinistri, di terrori irrazionali, di disordini interiori. La natura (l’ambiente di turno) è una presenza malvagia, che incombe minacciosa. Tutti i pezzi sono tetri, e la loro immobilità aggiunge al senso di disagio un’attesa spasmodica del “qualcosa” che sta per succedere. Di ambiente in ambiente Eno arriva anche agli spazi siderali: APOLLO - ATMOSPHERES & SOUNDTRACKS, che è la colonna sonora di un documentario di Al Reinart sulla missione Apollo della Nasa e vede il contributo Daniel Lanois e di Roger Eno, tenta il viaggio stordente dentro l’infinito. Anche questa è musica psico-ambientale: dato il paesaggio, trovare gli effetti sulla psiche umana (in altre parole il tema è: cosa prova un uomo nello spazio? quali sono le sue sensazioni mentre fluttua senza peso, mentre osserva la superficie terrestre alla deriva, mentre si inabissa nel ventre buio delle profondità siderali?). Non si tratta di descrivere il paesaggio reale, ma il suo effetto sull’immaginazione dell’uomo comune. I sessantuno minuti di TRURSDAY AFTERNOON costituiscono invece la prova più radicale di musica discreta. Ma più tipici del periodo sono i video-affreschi “Fifth Avenue” e “Mistaken Memories Of Medieval New York”, sorta di rock-verité che nobilita ad arte, e arte di grande suggestione, il medium appena nato della videocassetta. In questa direzione risultano essere altrettanto interessanti tutta una serie d’installazioni suono/luce che Eno ha proposto in ogni parte del mondo (due volte anche in Italia). Eno ritorna alla canzonetta con WRONG WAY UP, che è però un disco prevalentemente di John Cale. Eno vi contribuisce soprattutto attraverso la musichetta esotica alla Penguin Cafè Orchestra di “Lay My Love” e il funky con canto e arrangiamento da synth-pop di “Spinning Away”. Nella maniera ambientale escono anche THE SHUTOV ASSEMBLY, avanzi di studio di registrazione accumulatisi fra il 1985 e il 1990, e NEROLI, un’ora di musica ambientale ultra-statica. A dimostrazione che MY LIFE IN THE BUSH OF GHOSTS era un parto di David Byrne più che di Eno, questi in MY SQUELCHY LIFE, disco abortito e poi uscito con il titolo NERVE NET, smanetta come un principiante con reperti funky (“Fractal Zoom”), soul (“The Roil The Choke”), new age (“Decentre”), rap (“Ali Click”) e industriali (“My Squelchy Lite”). Ora Eno produce i suoi capolavori in un periodo denso di avvenimenti dal punto di vista organizzativo, ma pressoché nullo dal punto di vista creativo, dedicandosi sempre più intensamente alla collaborazione con altri artisti della Obscure e alla scoperta di nuovi talenti americani (padrino fra l’altro degli Ultravox, dei Talking Heads, dei Devo e della no-wave), contribuendo anche in questo modo, con il suo marchio di produzione, a gettare le basi per la musica del futuro. Negli anni Ottanta Eno gode di un carisma consolidato. Approfittando della sua fama ed un’autorevolezza certamente meritata, si stacca con il suo management dal gruppo EG e fonda una propria agenzia artistica, la Opal, che nel 1989 attiva un’etichetta discografica legata al gruppo Werner. Al nuovo cenacolo artistico fanno riferimento una serie di artisti da tempo legati ad Eno: dal fratello Roger a Laraaji, da Harold Budd a Daniel Lanois, da Michael Brook al pittore Russell Mills, grafico ufficiale di Eno e con lui responsabile dello splendido volume More Dark Than Shark (Faber & Faber, 1986), raccolta integrale dei testi con illustrazioni. Tra le prime opere del catalogo Opal si distingue MUSIC FOR FILMS, VOL. III, sorta di “manifesto” degli artisti più vicini a Eno con l’inatteso contributo di John Paul Jones, l’ex tastierista degli Zeppelin attratto anch’egli nell’orbita della musica post-ambientale. In catalogo anche un LP di John Gale, WORDS FOR THE DYING, con tre composizioni scritte dall’ex Velvet Underground con Eno. Da Segnalare infine il contributo di Eno a MARRIED TO THE MOB, con una cover di un vecchio pezzo dei degli anni Sessanta; è la prima canzone registrata dall’artista a undici anni da BEFORE AND AFTER SCIENCE. Gli anni Ottanta e Novanta, quindi, lo vedono impegnato a 360°: dischi, libri, produzioni, collaborazioni, fotografia, cinematografia. Del 1994 è il progetto in coppia con Jah Wobble (ex Public Image Limited), SPINNER, nato in seguito alla registrazione di Eno di una colonna sonora per un film di Derek Jarman (Glitterburg), in cui Wobble reincide parti strumentali e remixa il tutto, conferendo sonorità jungle e fortemente ritmiche. Altra collaborazione di rilievo è quella di ORIGINAL SOUNDTRACKS 1, dove con tutti i componenti degli U2, con Luciano Pavarotti e Howie B, cuce un lavoro sperimentale ma dai radicati stilemi pop, progettato come colonna sonora di film per la maggior parte non ancora realizzati. Della prima metà del 1997 è infine THE DROP, lavoro che ribadisce i concetti musicali di Eno, fra l’altro trasferitosi con la moglie a San Pietroburgo nell’ex Unione Sovietica. Del 1996 è il libro A Year With Swollen Appendice (Faber), raccolta di riflessioni giornaliere, mentre dello stesso periodo è la pubblicazione del CD-Rom GENERATE MUSIC (pubblicato da Sseyo/Opal). Eno ha talvolta assunto l’atteggiamento di un ideologo del rock, di un messia itinerante del jet-set musicale (soprattutto newyorkese), che bada innanzitutto a tener ben desta l’attenzione dei media su di sé e ad attrarre il maggior numero di talenti nella sua sfera di influenza. La sua fama ha fatto si che alcuni dischi in cui la sua funzione è stata praticamente soltanto quella di produttore siano stati co-intestati anche a lui, oltre che al legittimo autore (Robert Fripp, Cluster, Jon Hassell, Harold Budd, David Byrne, Roger Eno, John Cale). La partecipazione di Brian Eno ad un disco è diventata un trucco per fargli vendere qualche copia in più. Il filo contorto dell’esperienza musicale di Brian Eno segue in realtà un percorso coerente che dal consumo porta all’avanguardia. Eno rifiuta l’appellativo di “musicista” e preferisce quello di “manipolatore di sistemi”. La ragione sta in una radicale revisione del concetto stesso di musica che, parafrasando le sue stesse parole, può essere spiegato con questo paragone: alle origini era convinzione comune che la fotografia servisse soltanto ad ottenere ritratti a prezzi economici, e infatti i fotografi pasticciavano le fotografie in maniera tale che alla fine il loro lavoro assomigliasse a quello di un pittore, degradando volutamente la fedeltà del loro mezzo. Analogamente i primi film erano commedie teatrali e, di fatto, un film non era altro che la versione itinerante di una commedia. In musica qualcosa di simile accadde quando venne inventato il disco: il potere commerciale del disco consisteva nel fatto che tutti potevano ascoltare Caruso senza doverlo andare a sentire alla Carnegie Hall. In tutti questi casi gli operatori del settore impiegarono del tempo prima di rendersi conto che il loro mezzo poteva anche essere usato in maniera peculiare alla sua struttura, sfruttandone appieno le potenzialità. È proprio ciò che sta accadendo nella musica: oggi si possono registrare delle musiche che non solo non hanno nulla a che vedere con ciò che è eseguito dal vivo, ma addirittura musiche che non potrebbero mai essere eseguite dal vivo, musiche che in natura non possono esistere. La “musica” è in realtà qualcosa di molto diverso da ciò che si è inteso finora: è quella “scatola nera” che sta fra lo studio di registrazione dell’“autore” e l’hi-fi dell’“ascoltatore” (ammesso che questi termini abbiano ancora senso). Parte integrante del progetto è la teoria “ologrammatica” della musica. Il fatto suggestivo dell’ologramma è che, se lo si spezza, ogni singolo frammento conserva l’immagine completa (anche se meno precisa), a differenza della fotografia che perde una parte d’immagine se se ne strappa un pezzo. Nell’ologramma l’intera immagine è scolpita sull’intera superficie, cosicché la parte più minuscola contiene ancora l’informazione del tutto. Osservando un dipinto di pittura astratta si ha la stessa impressione: ogni frammento produce la stessa sensazione dell’insieme. Così anche con le commedie dell’assurdo (Beckett): ogni singola scena, al limite ogni singola battuta, convoglia lo stesso messaggio dell’intera pièce. In entrambi i casi non cambia nulla se si toglie un frammento a caso. Eno applica la stessa strategia alla musica: ogni brano, al limite ogni pattern, dovrebbe contenere l’informazione dell’intero disco. E a questo punto poco importa quali e quanti brani o pattern vi sono registrati. Con la figura del “non-musicista” Eno ha in realtà inventato la figura del compositore elettronico moderno. Ha modificato lo standard del compositore in maniera che possa essere una persona qualunque e ha reso il sintetizzatore artisticamente rispettabile. Eno è anche importante in quanto rappresenta l’epitome dell’artista indipendente: non ha un complesso, non tiene concerti, non cerca scritture con le case discografiche, lo strumento di cui è virtuoso è il tape-recorder, lavora da solo nel suo studio di registrazione privato. Tutta la musica indipendente discende da lui. Partito da fonti tanto lontane fra loro quanto la psichedelia, il musichall e la musique concrete, Eno è pervenuto ad una sintesi storica e geniale di avanguardia e sottocultura pop. Dalla world music alla new age non c’è genere dell’avanguardia che non debba qualcosa (o tutto) a lui.
Approfondimento tratto ed ulteriormente arricchito dall’ottima “ENCICLOPEDIA DELLA MUSICA NEW AGE” di Piero Scaruffi
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