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Da “Lo schermo velato” di Vito Russo
Quando nel 1974 Peter Adair ha avuto la prima idea di un documentario dal titolo “Word Are We?”, la sua intenzione era di rimediare ad uno squilibrio, facendo luce su una parte largamente ignorata dell’America gay. “Word Are We?” divenne in seguito “Word Is Out”, un insieme di ventisei conversazioni con lesbiche e gay, con il sottotitolo “Stories of Some Of Our Lives” ed è un film che ha segnato una tappa importante. “Word Is Out” ha cercato di rispondere alla domanda: chi sono queste persone diverse, e cosa stanno facendo qui? Usando più di duecento interviste registrate su videotape a gay di tutti gli Stati Uniti, Peter Adair, Lucy Massie Phoenix, Rob Epstein, Veronica Selver, Nancy Adair e Andrew Brown hanno trasformato la domanda iniziale di Adair in un brandello incandescente di storia. Ad ogni fase della realizzazione del film, le interviste erano proiettate a gruppi di gay in varie città, e i loro commenti e suggerimenti venivano incorporati nella realizzazione. Non sono solo parole astratte quando si dice che è stata la comunità gay a fare “Word Is Out”. Il film rivela un senso di rimpianto, una nostalgia per il tempo perduto, nelle conversazioni con i gay che hanno rotto il loro silenzio per parlare della vita gay in America. La diversità delle varie persone nel film è sorprendente. Whitey racconta che il suo psichiatra la mise ad una dieta di tre insalate al giorno per curare il suo lesbismo e di come, a diciott’anni, fu mandata in ospedale, dove trascorse otto anni, semplicemente perché era lesbica e i suoi genitori non sapevano cosa farne. (...) Pat Bond, una ex soldatessa del Women’s Army Corps, esprime nostalgia per il passato popolato di stereotipi del cinema americano. Dopo essere passata attraverso le cacce alle streghe nell’esercito a Tokyo negli anni Quaranta e le incursioni della polizia nei bar di San Francisco negli anni Cinquanta, dice: “In un modo o nell’altro, mi mancherà l’eccitazione del vecchio mondo gay, di appartenere ad un luogo segreto di cui nessuno conosce l’esistenza tranne te. Quello mi mancherà”. È normale provare nostalgia per il passato perduto del cinema, per quanto pieno di stereotipi. E questo accade anche più spesso fra i membri di una minoranza che nella vita reale era nascosta. Era della massima importanza essere ammessi a partecipare al mito: bastavano solo cinque minuti su quello schermo, che del sogno americano era lo specchio, per avere la conferma che si esisteva. Una fugace apparizione all’interno di questo sogno totalizzante era doppiamente preziosa, e sicuramente memorabile per quelle persone che non avevano mai detto ad alta voce il loro stesso nome. Gli omosessuali, isolati fra loro e dalla società, hanno trascorso una vita al cinema, accanto a parenti e a conoscenti eterosessuali. Il sogno era uguale per tutti, ma i gay apprezzavano più degli altri la battuta sessuale, perché conoscevano anche il lato nascosto del sogno. Molti imparavano dai film a passare per eterosessuali e a riconoscere i confini di quello che l’America considerava normale. Ma i film contenevano anche una verità alternativa: i primi stereotipi gay nei film erano segnali, dimostrazioni che altri esistevano in un’epoca in cui nessuno doveva saperlo. Era una realtà cinematografica che noi oggi ricordiamo con affetto, perché era un fenomeno che accadeva quando i gay non erano visibili, ed era destinato a finire, quando i gay avrebbero trovato la loro voce. (...) Pat Bond, ricorda anche l’ufficio di reclutamento a Davenport, nello Iowa, dove per la prima volta fu arruolata: “Ricordo che andai al Blackhawk Hotel, dove stava il sergente di reclutamento. Sembrava un mio insegnante di ginnastica travestito da donna. Calze, piccoli orecchini, capelli tirati indietro con una pettinatura così di gusto, che non si sarebbe detto che era una lesbica. Ma io lo sapevo. Ricordo che quando arrivai barcollando nella mensa ancora con la mia valigia, sentii una voce dire dalle baracche: “Buon Dio, Elizabeth, ne arriva un’altra!”. David siede su un prato di margheritine a Springfield, in Massachusetts, e racconta di quando disse al padre che era gay: “Gli chiesi se era pronto per una conversazione seria, e lui rispose: "Prima fammi prendere una sigaretta’. Gli dissi di prendere tutto il pacchetto”. Roger, un attore di Boston, parla dell’adolescenza gay negli anni Cinquanta: “Hanno combattuto nella seconda guerra mondiale, e poi hanno detto ‘Okay, abbiamo combattuto per queste cose, e voi dovete adeguarvi’. E poi sono diventati vecchi”. Linda è seduta su una veranda nel North Carolina, e ricorda i giorni del college: “Ero la figlia del sogno americano... capo majorette, reginetta dei balli studenteschi, studentessa-modello, presidentessa del circolo... ero infelice, odiavo tutto quanto”. Il viaggio di due ore di “Word Is Out” è pieno di punti di riferimento immediati per i gay: la gente nel film sottolinea l’esperienza, comune a tutti, di crescere gay in America, in un mondo eterosessuale. Elsa Gitlow, poetessa settantenne, dice: “Se mai ho avuto un problema per il mio lesbismo, è stata la solitudine, il fatto che non conoscevo nessun altro come me. Dove erano gli altri, se c’erano?”. George dice: “Era il 1952, ho preso un bus Greyhound per San Francisco, con trenta dollari in tasca. Ho incontrato un poliziotto e gli ho detto ‘Dove è un bar gay?’”. Whitey dice: “Avevo sentito parlare del Greenwich Village e mi avevano detto che là c’erano gli omosessuali. Così sono salita su un treno”. Queste vicende sono i fili di cui è tessuta la storia gay: insieme, raccontano come tante persone sconosciute si sono trovate l’un l’altra, e alla fine hanno trovato se stesse nel tentativo di formare una comunità. Quando per la prima volta sullo schermo, due uomini si sono baciati, l’accusa di Raf Vallone, “Ecco quello che sei!”, ha segnato a fuoco la coscienza di un invisibile pubblico gay. I film, pensarono allora i gay, avevano detto il loro nome. Perché quello che i gay hanno sempre cercato nei film, per lo più inutilmente, non erano gli attori o i personaggi gay ma l’idea dell’omosessualità. Ora, però, la decisione di portare allo scoperto la vita gay è irrevocabile, e alla fine i film dovranno riflettere la diversità dell’esistenza omosessuale. Il grande nemico è l’invisibilità, che ha impedito alla verità di farsi sentire, e continuerà a farlo, finché lesbiche e uomini gay che lavorano al servizio di Hollywood e della sua idea di omosessualità non usciranno allo scoperto. Nel 1975, un gruppo di produttori e registi, alcuni dei quali notoriamente gay “velati”, sono usciti da una proiezione del film “I ragazzi del coro” di Robert Aldrich, a quanto si dice per il suo linguaggio anti-gay. “Quei tipi che sono usciti” dice Aldrich “sono alcuni dei nostri registi più famosi. Ma se escono senza dire al pubblico perché sono usciti, non saranno di certo loro a fare i film di rottura sugli omosessuali. Non c’è neanche una fottuta via di uscita. Resteranno dentro la corrente e faranno film d’azione. E' la vecchia battuta: io sono in salvo, tira su la scaletta”. Non ci sono mai state persone gay o lesbiche nei film di Hollywood. Solo omosessuali.
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