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«Un’ospite
perfetta e incredibilmente sicura di quello che fa.
Tre vite che attraversano un secolo. Tre donne infelici, sofferenti, accomunate dalla somiglianza psicologica con la protagonista del romanzo di Virginia Wolf, “Mrs. Dalloway”, si fondono in un’unica storia. Primi anni Venti. Campagna di Richmond, Inghilterra. Virginia Woolf (Kidman) combatte la depressione trasferendo le sue melanconie, le sue ansie e desideri in “Mrs. Dalloway”, la protagonista del romanzo omonimo che sta scrivendo e che si accinge a dare una festa. Terminato il romanzo si suicida. Anni Cinquanta. Los Angeles. Laura Brown (Moore), moglie depressa, madre di un bambino, Richard, affezionatissimo a lei, in attesa del secondo figlio, sente il peso insopportabile di una vita che non le appartiene, di un matrimonio e di un ruolo nel quale non si riconosce, di un marito che non ha alcuna pietà della sua infelicità perché, semplicemente, non la vede. Come Mrs. Dalloway deve dare una festa per il compleanno del consorte ma ad un passo dal suicidio, confortata dalla lettura del romanzo di Virgina Woolf, trova la forza di lasciarsi tutto alle spalle. 2002, New York. Clarissa Vaughan (Streep), incarnazione moderna di Mrs. Dalloway, è un’editrice di successo depressa e piena di rimpianti. Vive con la compagna Sally, con la quale ormai dorme soltanto, ed ha una figlia, Julia (Danes). Sta organizzando un party per festeggiare Richard (Harris), uno scrittore omosessuale malato di AIDS che ha vinto un importante riconoscimento e del quale è stata innamorata quando erano ragazzi. Poco prima della festa Richard si suicida e Clarissa si rende finalmente conto di essersene servita per non guardarsi dentro, per non aprirsi alla vita e all’amore...
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«Non si può trovare la pace sottraendosi alla vita…»
Ormai sappiamo che trasporre cinematograficamente opere letterarie complesse e cospicue è impresa quasi impossibile: “The Hours” ne è l’ennesima conferma. Tuttavia il film trova un suo equilibrio ed una sua ragion d’essere che va oltre le capacità e forse le intenzioni degli autori. Se di meriti possiamo parlare, dobbiamo riferirci alla convincente interpretazione delle attrici protagoniste (Orso d’argento al Festival di Berlino per tutte e premio Oscar come migliore attrice protagonista alla Kidman, davvero straordinaria), alla bella ricostruzione ambientale (scenografia, attrezzeria, costumi, fotografia, musica, trucchi – anche se il naso posticcio della Kidman ha, almeno in una scena, un colore diverso rispetto all’incarnato del viso - insomma, si sfiora l’eccellenza ma visti i mezzi sarebbe da stupirsi del contrario), all’intreccio ben congegnato e all’ottima regia che ha saputo amalgamare ciascun contributo creando il giusto grado di tensione emotiva e narrativa, seppur con tutti i limiti (e le censure) ai quali le grandi produzioni statunitensi ci hanno abituati. Tanta lodevole profusione di buone intenzioni non solleva però dalla responsabilità di non aver voluto indagare il malessere profondo di queste donne, di averle solo tratteggiate affidando alla bravura delle attrici il compito di definirle e allo spettore più sensibile la possibilità di capirne le ragioni. E allora facciamolo noi il lavoro sporco, gratis… Laura Brown è, a nostro giudizio, il personaggio più enigmatico e perciò più attraente del film. Posta al centro del racconto, fa da trait d’union tra Virginia, della quale conosciamo il travaglio interiore in quanto realmente esistita (in questo senso gli autori si sono potuti ingiustamente permettere di non approfondirlo), e Clarissa, della quale comprendiamo abbastanza facilmente la vicenda perché più chiaramente descritta – ma Laura? Per quale astruso capriccio abbandona tutto accettando di essere considerata per il resto della sua vita una moglie ingrata e una madre degenere? È l’omosessualità, crediamo, o per meglio dire la repressione della propria omosessualità, che induce le tre protagoniste, ognuna a suo modo, a costruirsi o ad accettare il compromesso di vivere in latenza. L’omosessualità, quel male terribile che ancora si ha timore di nominare e che il film si è ben guardato dall’esplicitare pur sottintendendola con evidenza. Queste donne baciano sulla bocca altre donne, lo fanno con disperazione (Virginia), empatia (Laura) o sollievo (Clarissa), ma tutte affidano alle proprie labbra inattese il compito di affermarle, dire quello che non si può: “Io sono anche questo”. Tre donne sempre sul punto di scoppiare o, più probabilmente, implodere. Ma solo Virginia, donna e poeta, così come avvenne nella realtà, pone fine drammaticamente alla sua vita e prima di farlo salva il suo alter-ego letterario, Mrs. Dalloway (la cui omosessualità irrisolta è nota), offrendo in questo modo un’alternativa agli altri due personaggi “letterari” (cioè non esistenti, frutto d’immaginazione) del film: Laura, che pur di sopravvivere abbandona tutto, e Clarissa, che accetta di vivere quando non ha più pretesti per non farlo. «Perché qualcuno deve morire?», chiede Leonard (Dillane) a Virginia, e lei: «La morte di qualcuno dà agli altri la possibilità di apprezzare la vita…». Chi deve morire? «Il poeta deve morire, il visionario…», muore lei, infatti, e Richard, scrittore oppresso dal ricordo di una madre sin troppo amata (Laura) che lo ha abbandonato ancora bambino senza volerne sapere più nulla, soffocato dalle attenzioni dall’amica di sempre, Clarissa/Dalloway, che se ne serve per non fare i conti con se stessa. E Laura, aprendosi a Clarissa dopo il suicidio del figlio: «Sarebbe bello poter dire che ho dei rimorsi, sarebbe un aiuto – ma che senso può avere provare rimorso di qualcosa quando uno non ha avuto scelta? (…) Nessuno riuscirà a perdonarmi, ma lì c’era la morte – io ho scelto la vita…». In quello che “velatamente” le loro parole e i loro baci significano vi è la più importante chiave di lettura e forse l’unica bellezza del film. «Guardare la vita in faccia, sempre. Guardare la vita in faccia e conoscerla per quello che è. Alfine conoscerla, amarla per quello che è e poi metterla da parte…» - purtroppo il cinema americano continua a predicare bene razzolando malissimo. C. Ricci
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Davvero importante per la comprensione del travaglio interiore di Laura, è la scena dove è in bagno: piange in silenzio, si fa coraggio, finge di prepararsi per raggiungere il marito ma tutto vorrebbe tranne questo. Nel frattempo lui, senza minimamente rendersi conto dei sentimenti di sua moglie (d’altronde perché dubitarne? La loro vita è esattamente come dev’essere: conforme, perciò perfetta, assolutamente soddisfacente), la chiama ansioso di “renderla felice” acuendo ancora di più il suo (e nostro) senso di oppressione, disperazione. La scena dura quasi un minuto e trentaquattro secondi e Julianne Moore è strepitosa.
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Trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo di Michael Cunningham, vincitore nel ‘99 del Premio Pulitzer e del Premio PEN/Faulkner per la Fiction, a sua volta ispirato al romanzo “Mrs. Dalloway” di Virginia Woolf, da cui il film omonimo (vedi scheda).
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• Fra le candidature all’Oscar di THE HOURS vi era anche quella per il miglior Make Up ma, quando si seppe che alla riuscita del trucco di Virginia/Nicole aveva contribuito l’uso del computer, non se ne fece più nulla – naturalmente. Tuttavia, come precedentemente fatto notare, in fase di montaggio qualcosa non ha funzionato e in almeno una scena si nota la differenza di colore fra l’incarnato del viso e il naso posticcio. • La Kidman è mancina. Per realizzare le scene dove Virginia Wolf lavora al manoscritto di “Mrs. Dalloway”, ha voluto impare a scrivere con la destra. Un plauso alla sua professionalità ed uno a Seamus McGarvey che ne ha tratto delle fotografie splendide.
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• 9 nomination ma un solo Oscar a Nicole Kidman. • Orso d’argento alle tre protagoniste ed un premio speciale al Festival di Berlino. • 2 Bafta. • 2 Golden Globe.
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