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CODICE HAYS
Motion Picture Production Code
Negli anni Trenta una vera ondata di repressione moralistica si abbattè sull'America. Il prodotto di questo disastro fu il Codice Hays, una specie di manuale d'autocensura al quale tutti i produttori, registi e attori dovevano uniformarsi. Will H. Hays, presidente della Motion Pictures Producers and Distributors of America, detto lo zar del cinema, avvocato e ministro, fanatico moralizzatore, ne fu l'estensore. Il Codice Hays fu un carnevale di sciocchezze e di ipocrisie, portò i suoi tabù e proiettò l'ombra del sospetto ovunque, in qualunque gesto, talvolta anche il più innocente.
Eccone alcune “perle”:
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La
tecnica di un delitto non deve suscitare il desiderio di imitazione.
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Nessun
dettaglio di assassinio.
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La
vendetta non è giustificata.
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I
sistemi di contrabbando non devono essere rivelati.
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L'adulterio
è illecito.
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Le
scene di passione devono essere strettamente indispensabili.
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La
violenza è vietata: anche far vedere solo la faccia della vittima che
grida è vietato.
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Le
perversioni sessuali sono proibite.
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Nessun
bianco può essere trattato da schiavo.
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Le
bestemmie e le volgarità devono essere bandite.
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Il
nome di Dio o di Cristo vanno citati solo reverentemente.
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La
nudità è proibita.
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Le
scene di svestimento devono essere interrotte all'inizio.
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Nessun
compiacimento nel togliersi le vesti.
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L'ombelico
deve restare nascosto.
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Le danze lascive non sono visibili.
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I
ministri del culto devono essere sempre rappresentati con decoro e non possono
essere ubriachi e viziosi.
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La
tortura e la brutalità sono bandite.
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La
prostituzione non esiste e nemmeno l'omosessualità.
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Nel
"triangolo" amoroso il marito deve trionfare (o, nel caso, la moglie).
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Oggetti
vergognosi non devono essere mostrati.
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Passioni
impure non si illustrano mai.
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L'accoppiamento
di animali è osceno.
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Il
sangue delle ferite e delle piaghe deve essere il minimo indispensabile.
(tratto dal Codice Hays, firmato dal reverendo Daniel A. Lord, dal giornalista Martin Quigley e da Will H. Hays)
Da “Lo schermo velato” di Vito Russo
Sin dalla nascita del cinema in america «esistevano già ordinanze che davano a gruppi di censura la possibilità di vedere i film prima della loro uscita pubblica e sebbene concretamente questi gruppi non avessero alcun peso, i loro criteri sulla moralità nei film includevano specificamente la “perversione sessuale” fra le cose da non lasciar passare.
Nel 1915 la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva stabilito che, “lo spettacolo cinematografico è un puro e semplice affare economico, originato e gestito per profitto, come altri spettacoli, che non devono o dovranno essere considerati come una parte della stampa della nazione o come organi di pubblica opinione”. Questo significava che i film non erano coperti dalle garanzie del Primo Emendamento sulla libertà di parola.
Nel giro di pochi anni da questa dichiarazione, leggi di censura vennero approvate nello stato di New York e in Florida, Massachusetts, Maryland e Virginia. La legge dello stato di New York, entrata in vigore nel 1921, rappresentava bene questa tendenza: stabiliva che “la diffusione di un film avrebbe potuto essere autorizzata dallo Stato, a meno che tale film o una parte di esso fosse di un carattere tale che la sua proiezione avrebbe potuto corrompere la morale o incitare al crimine”. L’indecenza, l’immoralità e l’oscenità non venivano descritte o definite in nessun articolo della legge, e in questo modo si lasciava ampio spazio all’interpretazione. I primi sforzi della comunità cinematografica di darsi una regolamentazione furono dichiarati insufficienti dai leader religiosi e morali. A complicare le cose, nacquero dei casi d’incompatibilità dovuti ad interpretazioni diverse delle leggi. Dozzine di film che trattavano di argomenti presumibilmente proibiti, fra cui l’omosessualità, scivolavano fra le maglie della censura.
(...) Alla fine degli anni Venti Will Hays, un ex-ministro delle Poste degli Stati Uniti, che ricopriva un’alta carica nella Chiesa Presbiteriana, era stato chiamato a capo della Motion Pictures Producers and Distributors of America, un’organizzazione creata principalmente per fornire una buona immagine pubblica delle case cinematografiche e per proteggere l’industria dalla minaccia di una censura esterna. Questo secondo obiettivo fu raggiunto nel 1930 con la creazione del Motion Picture Production Code, con il quale l’industria cinematografica si dava un’autoregolamentazione. Il Codice Hays, da lui pensato ma elaborato dal reverendo Daniel A. Lord della Compagnia di Gesù, entrò in funzione il 31 Marzo 1930 e sopravvisse con nomi diversi fino alla fine degli anni Sessanta, prendendo spesso il nome del presidente in carica. Così a varie riprese si chiamò Johnston Office, Hays Office e Breen Office.
(...) Inserire l’omosessualità (o la sua concreta possibilità) in un contesto antisociale è un fatto del tutto naturale: l’omosessualità, quando è visibile, è antisociale. L’omosessualità è stata socialmente accettabile, solo al prezzo di una posizione volontariamente invisibile, quando cioè gli omosessuali hanno accettato di passare per eterosessuali. Un comportamento apertamente omosessuale può riflettersi, sullo schermo come nella vita reale, solo nella penombra di un mondo a parte. Durante il breve periodo in cui si è fatto esplicito riferimento agli omosessuali nei primi anni Trenta, prima della restrizione del Codice, i personaggi gay erano ghettizzati anche psicologicamente perché venivano confinati in un mondo di fantasia o in un ambiente di malavita. (...) Gli omosessuali erano prodotti abnormi di un mondo fondato sul disordine, il risultato di una confusione dell’ordine naturale delle cose.
Nel 1934, oltre alle restrizioni del Codice, Will Hays reagì alle critiche inserendo clausole sulla moralità nei contratti degli attori e compilando una “lista di proscrizione” di 117 artisti considerati “non affidabili”, a causa della loro vita personale. L’omosessualità, negata con forza non solo sullo schermo ma anche nella realtà, era una componente assolutamente innominabile della cultura. Nel 1940 perfino le innocue farse giocate sullo scambio dei ruoli sessuali, (...) venivano considerate pericolose in alcuni ambienti.
(...) All’inizio degli anni Sessanta il tabù della “perversione sessuale” era l’unica restrizione rimasta nel codice. (...) I produttori e gli sceneggiatori dell’industria cinematografica americana si lamentarono affermando che il codice limitava la loro libertà artistica e impediva ai film di Hollywood di competere nel mercato per adulti con film stranieri che trattavano apertamente questi soggetti. I tempi erano maturi: sapevano che con o senza il visto i loro film avrebbero avuto comunque buoni incassi. Così il codice venne cambiato per mantenere una qualche illusione di controllo. (...) Il 3 ottobre 1961, il cambiamento fu annunciato pubblicamente: “Per restare al passo con la cultura, i costumi e i valori del nostro tempo, l’omosessualità e le altre aberrazioni sessuali possono da ora essere trattate con attenzione, discernimento e misura”. Ma i cambiamenti sollevavano per la prima volta questioni di fondo a cui nessuno voleva rispondere. In un attacco alla revisione del Codice, un editoriale del “Motion Picture Herald” citava i tre principi fondamentali del Codice:
1.
Non si deve produrre nessun film che possa abbassare il livello morale di chi
lo vedrà.
2. Nei film verranno presentati... corretti modelli di vita.
3. Le leggi - divine, naturali o umane - non dovrebbero essere messe in ridicolo,
né si dovrebbe mostrare comprensione per la loro violazione.
L’Herald sottolineava che consentire film sulla devianza sessuale avrebbe violato questi tre principi fondamentali, perché “l’omosessualità non corrisponde a nessun livello corretto di vita, anche con i maggiori sforzi di immaginazione”, e perché portare gli omosessuali sullo schermo “avrebbe suscitato comprensione per quelli che violano la legge divina e umana con atti perversi”. Annullando questo ultimo tabù, il Codice consentiva che i film mostrassero la vita sotto tutti i suoi aspetti.
Con un’ultima argomentazione, che resiste ancora oggi, gli oppositori del cambiamento sostenevano appunto che ci sono aspetti della vita la cui conoscenza è decisamente nociva per la gente. Il segreto sussurrato (...), dicevano, sarebbe ora stato urlato ai quattro venti. Gli oscuri accenni (...) avrebbero preso il sopravvento sugli schermi, in una cascata di perversione e di sudiciume. (...) In un chiarimento ufficiale sulla nuova regolamentazione, l’MPAA spiegò che “l’aberrazione sessuale poteva essere suggerita, ma non effettivamente espressa”: un requisito che impediva onestà e franchezza e pareva un invito alle allusioni e alle calunnie.
L’omosessualità si era tolta il “velo”, ma era entrata nell’ombra, e lì sarebbe rimasta per quasi vent’anni.
Negli anni Sessanta, le lesbiche e i gay erano insistenti, pericolosi o patologici: erano sciocchi o cattivi, mai eroi. (...) E proprio come nei film espliciti degli anni Trenta, i personaggi gay dei “liberati” anni Sessanta erano descritti esclusivamente come alieni. Di nuovo visibili, e con tanto di autorizzazione ufficiale, questi personaggi vennero subito riportati nel ghetto (...). L’omosessualità era un’attrazione in più nello spettacolo. (...) La paura, la tendenza a nascondersi e l’autodistruzione - la sindrome del “nascondiglio” - erano impliciti (...). L’omosessualità era divenuta lo sporco segreto da rivelarsi solo alla fine dell’ultima bobina.»
Vedi anche “Criteri generali per
il trattamento dell’omosessualità al cinema e alla televisione”.