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Nel
1480, il principe Vlad Drakul (Oldman), difensore dell'Europa cristiana
contro i turchi invasori, dopo il suicidio dell'amata moglie Elisabetta
(Ryder) che lo crede morto in battaglia a causa di un inganno, diventa
il vampiro Dracula per odio verso gli uomini, Dio e i suoi falsi ministri.
Ma nel 1897, quando nella Londra vittoriana và a cercare Mina Murray
(Ryder), fidanzata dell’agente immobiliare Jonathan Arker (Reeves)
che ha fatto prigioniero nel suo castello in Carpazia, vede in lei la
reincarnazione dell'indimenticata Elisabetta e non riesce a vampirizzarla.
Mina però se ne innamora e in un impeto estremo di passione beve
il suo sangue condannandosi a divenire come lui. I due vengono separati
dai cacciatori di vampiri
(Hopkins,
Elwes e Grant) che si lanciano all'inseguimento di Vlad nel tentativo
disperato di salvare la vita e l'anima di Mina.
Quando
finalmente si ricongiungono lui si rifiuta di condannarla alla dannazione
eterna e disperato le chiede di dargli pace, liberarlo per sempre dall'odio
e dal dolore. Mina capisce e tagliandogli di netto la testa, salva entrambi.
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Avvalendosi della sceneggiatura di James Hart e con almeno 40 milioni di dollari messi a disposizione dalla Columbia Tristar (Sony), Coppola dà una lettura piuttosto originale, sebbene viziata da un eccesso di manierismo, di uno dei personaggi più inquitanti, ambigui e attraenti di tutti i tempi. Il suo Dracula è spaventoso ma elegante, dolente, romantico e passionale - egli stesso è una vittima dell'odio e dell'amore. Difficile, di fronte ad una tale esplosione di fascino e umanità, non avere per lui compassione, essere sopraffatti dall'orrore. Coppola recupera tecniche vecchie come il cinema (dissolvenze e sovrimpressioni - stilisticamente impeccabile la sequenza iride/circolarità del flüte nella scena dell’assenzio), ricostruisce la meraviglia della visione (l’ombra che si separa dal principe e incombe autonomamente, la forza di gravità invertita e il dedalo di scale all’interno del castello che evoca le allucinate invenzioni architettoniche di Eric Fischl) e reinventa le figure più abusate come quella del campo/controcampo - tutto senza ricorrere al computer! Un Coppola audace e melodrammatico che traspone con minuzia e compiacimento il romanzo di Stoker, che ha i mezzi tecnici ed economici per farlo, che è l'immagine riflessa e riflettente di sé e della sua cultura, e che, forse proprio per questo, ha scatenando critiche talvolta assai ingenerose. Un unico appunto, peraltro condiviso da molti critici: forse, in tanto splendore e ridondanza di simbolismi e citazioni, era inutile aggiungere il tema del cinema nel cinema (Dracula che porta Mina a vedere un film), bastava già l’uso del colore (le immagini inondate di blu o rosso che avvolgono e travolgono nelle scene iniziali, ad esempio) o i contrasti di luce tenebrosi o accecanti (la fotografia, splendida, è di Michael Ballhaus) per far capire che l’esperienza del mostrare è, nelle arti visive e nella vita, un atto di reciproco vampirismo fra speculari epigoni. C. Ricci
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Da
“L’avventura estetica - «Filmcritica» 1950-1995”
a cura di Fabio Segatori
Per Daniela Turco il film di Coppola diventa una riflessione sul passato del cinema, sulla durata del film, sulla densità e la corporeità dei materiali. Dracula è il cinema stesso; si rigenera dal suo passato, succhiando linfa vitale, sotto forma di personaggi, analogie, citazioni. E in questo rapporto vampiresco resta coinvolto anche lo spettatore: «Due sale si fronteggiano: quella in cui anche chi ora sta scrivendo si è seduta per vedere, e quella in cui entrano Mina e il vampiro testimoni diegetizzati dell'effetto sugli spettatori dell’'Arrivée d'un train en gare, che è proposto al negativo, come rovescio di quelle immagini, come falso di autore e doppio di un cinema anch'esso, come Dracula il vampiro, già situato per sempre nella leggenda.» Ma l'ossessione cinefila si coniuga nel film di Coppola alla spettacolarità, alla qualità incalzante della narrazione, ad una capacità di avvolgere lo spettatore entro le spire della paura e del desiderio, senza avere il tempo di capire, di prendere distanza. Prosegue infatti la Turco: «Le maglie allentate di una narrazione che si concede tali livelli di sperimentazione non impediscono che il film come dispositivo di contagio volga alla sua fine, ambigua e circolare, così come circolare è il sistema del montaggio metonimico, affidato all'impalpabilità fluttuante delle dissolvenze incrociate troppo rapide da fermare; l'occhio iridato sulla coda del pavone che vela il bacio d'addio tra Mina e Jonathan è già diventato l'apertura buia della galleria da cui esce il treno verso la Transilvania e ritorna ossessionante e aperto in un cielo che è già stato di Kurosawa per anticipare l'incontro con il “non morto”, il vampiro. È il tempo a non esistere più, è la durata ad essere continuamente in crisi, ed è in questa frana silenziosa di un asse portante del cinema come statuto che si afferma quella strana figura della compossibilità diffusamente trattata da Deleuze.»
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Dall'omonimo romanzo epistolare di Bram Stoker (1847-1912) edito a Londra nel 1897.
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Tre premi Oscar: a Eiko Ishioka per i costumi, a Tom C. McCarthy e David E. Stone per il montaggio degli effetti sonori, e a Greg Cannom, Michele Burke e Matthew W. Mungle per il trucco. |