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Mary Bradford (Mischa Barton), Mary-Mouse (come la chiamano a casa), da tre anni orfana dolente che ha dimenticato l’allegria, è abbandonata dal padre e dalla matrigna al Perkins Girl’s College dove, sin da subito, trova conforto e risonanze emotive nelle due compagne di stanza, le estroverse Paulie e Tory: Pauline Oster (Piper Perabo), in cerca della madre che l’ha partorita ma non riconosciuta, alla disperata ricerca dell’amore al quale non avrà diritto, e Victoria Moller (Jessica Paré), in attesa di guadagnarsi il lasciapassare per entrare da protagonista nell’età adulta con la piena approvazione dei suoi pari. Si amano Paulie e Tory, appassionatamente, nonostante le differenze - e Mary B. (così l’hanno ribattezzata - B come Brava, forse riferendosi al coraggio e al valore, o chissà, forse alludendo ai Bravi di manzoniana memoria), che non ha mai conosciuto nulla di simile e ogni notte le sente scivolare una fra le braccia dell’altra, non ne rimane particolarmente sconvolta, a poco a poco se ne abitua come se fosse la cosa più normale del mondo e in effetti lo sarebbe (in quel collegio gestito con tolleranza e modernità da due insegnati progressiste e non troppo velatamente lesbiche), basterebbe non esporsi più di tanto, mordere il freno, dar l’impressione di un gioco adolescenziale, di una fase moderata e transitoria, ma così non è, non per Pauline, almeno, e quando l’insopportabile sorella di Tory insieme alle sue petulanti amichette, le sorprendono nello stesso letto, il gioco smette di essere tale. Tory, terrorizzata dalle conseguenze sociali e familiari che potrebbero travolgerla in seguito allo scandalo, ostentando un’indifferenza e un rifiuto laceranti, lascia Paulie da sola a fare i conti con il tradimento, l’ennesimo abbandono. Pauline non si da pace e progressivamente perde il controllo di sé: s’identifica in una poiana ferita e impugnata la spada entra in guerra col mondo andando incontro all’unico epilogo possibile - l’implosione. Prima si traveste da uomo e durante la festa che riunisce allieve e genitori cerca di ottenere da Tory il riconoscimento ufficiale del loro amore: naturalmente fallisce. Poi sfida a duello il rivale (che da perfetto imbecille accetta e ne paga le conseguenze), quindi, lanciandosi nel vuoto dal tetto del college, pone fine alle sue sofferenze...
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Ebbene sì, ci risiamo. Il film mostra tre adolescenti confuse e ferite, tre crisalidi accomunate dal dolore, dall’abbandono delle rispettive famiglie, dal loro disinteresse per le persone che sono e stanno diventando. Figlie senza valore, prive di un’identità propria da coltivare, incoraggiare e proteggere, o fastidiosi fagotti da disconoscere al primo vagito. Orfane d’amore. Cattive o brave ragazze in costruzione, da ammaestrare, adeguare alle convenzioni, ad una vita che altri hanno deciso per loro. Ed è l’amore, appunto, il tema centrale del film: l’amore perduto (Mary, voce narrante e filo conduttore, che quasi non ricorda il volto della madre, l’unica che l’abbia amata), l’amore negato (Paulie, che non l’ha mai avuto e per averne si danna l’anima), l’amore tradito (Tory, che per ottenere il riconoscimento sociale non esita a sacrificarlo), l’amore consapevole (quello fra le due insegnati che ai margini della vicenda vigilano e impotenti assistono alla deriva di queste creature indifese e indifendibili), l’amore opportunistico, convenzionale (quello che Tory estorce al primo che le capita a tiro), l’amore carnale (quello fra Paulie e Tory), l’amore assoluto (quello di Paulie per Tory). “LOVE” come lo intende Shakespeare, dal quale Léa Pool attinge evocando sin da subito per suo tramite la tragedia, l’ineluttabilità, la forza travolgente dei sentimenti e dei destini. L’amore come dovrebbe essere: libero e liberato dalle regole invalse, dagli equivoci e dal giogo dei ruoli, delle differenze sessuali e sociali. L’amore com’è: culla delle illusioni, dei sospiri, dei rimpianti e insieme straordinaria via di fuga, occasione per affrancarsi – sempre causa ed effetto delle grandezze e delle piccinerie umane, manifesta esteriorizzazione dei limiti, dei meriti, delle colpe individuali e collettive. Tanto promette “L’altra metà dell’amore”, ma poi delude, né può convincere sino in fondo i più entusiasti: forzatamente allegorico, seppur complessivamente bello e riuscito dal punto di vista formale (eccellenti la fotografia, il colore, la direzione, la prova attoriale che ha il suo punto di forza nell’interpretazione della Perabo, somigliante in modo imbarazzante ad Angelina Jolie nel film “Ragazze interrotte”, alcune “evocazioni” magari un po’ scontate ma non per questo meno inaspettate ed efficaci: Paulie che nel refettorio si sottrae bruscamente alla sua insegnante facendo un rumore che richiama il battito d’ali della sua poiana, o quando, sempre nel refettorio, fa un balzo che per accelerazione suggerisce lo scollamento in atto fra oggettività e soggettività, ricordando inoltre certi effetti spettacolari in film recenti come “La tigre e il dragone”, ma la citazione non è casuale giacché la protagonista è una donna guerriera), comincia bene impegnandosi in una descrizione sensibile e originale delle protagoniste, dei loro sentimenti e delle loro ragioni, ma poi, in un crescendo parossistico che attraverso l’inverosimiglianza vorrebbe forse rendere ancor più evidenti i condizionamenti, le devastanti conseguenze che la gratuita violenza coercitiva dell’omofobia produce, finisce per ec/cedere, si perde in superficie, deteriora, infrange e crolla sulle sue stesse ambizioni, di fatto si sbugiarda con l’epitaffio conclusivo, affidato alla voce narrante di Mary, un lacrimevole e sin troppo ruffiano piagnisteo d’amor filiale e moralismo freudiano che si sopporta solo per la delicatezza della scena che ci risparmia almeno il corpo di Paulie maciullato, mostrandoci invece la poiana, incarnazione del suo desiderio di affermazione e indipendenza, volteggiare sulla testa delle astanti, rapite fra le lacrime o lo stupore da tanta inarrivabile bellezza: la grazia e la potenza dell’amore – eroico e trionfante anche se disperato, folle e perdente. Il parallelismo con la versione voluta per il mercato americano dall’Hays Office e dai distributori del film “Ragazze in uniforme” (quella dove la protagonista si suicida gettandosi nel vuoto, appunto), è quanto mai evidente. Peccato che Léa Pool (settanta anni dopo ed evitando le complicazioni morali derivanti da un rapporto lesbico fra allieva e insegnante, presenti invece nel ben più coraggioso e onesto film di Léontin Sagan – era il 1931!) abbia sostanzialmente riproposto gli ormai logori stereotipi del lesbismo tragico e senza futuro (dalle stesse protagoniste, per ragioni diverse, negato con forza) - si ha come l’impressione di aver assistito all’ennesima dignitosa, gradevole ma inutile esemplificazione destinata ad un pubblico d’infanti, l’ennesima operazione cinematografica che spettacolarizza (vanifica) l’emotività femminile e mente, ancora una volta mente, per compiacere chi s’accontenta, qualsiasi siano le sue preferenze sessuali, e rimette le cose a posto secondo un’equazione pretestuosa e fraudolenta che non abbiamo deciso, non condividiamo e della quale, a questo punto, faremmo volentieri a meno – se non altro nel cinema fatto dalle donne, specie se lesbiche. Cinzia Ricci
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