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Aggiornato
Venerdì 26-Gen-2007
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Di Gianni Rossi Barilli “Il Manifesto”, 2 Agosto 2004
La legge italiana non le prevede. Anzi, nel caso in cui volessero rivolgersi a una struttura sanitaria per diventare madri con la fecondazione assistita le esclude categoricamente. Eppure le mamme lesbiche esistono e procreano felicemente anche nel nostro timorato paese. Solo che, quando sono in coppia, la loro compagna non è riconosciuta come coniuge e cogenitore. E se succede qualcosa di brutto, l'assenza di garanzie per questo legame familiare può avere effetti devastanti. Lo stato d'altra parte tutela solo la famiglia fondata sul matrimonio, e secondo l'interpretazione cattolica sarebbe addirittura la costituzione a vietare il riconoscimento di altre forme di convivenza. Mentre la patria chiede figli, perciò, le lesbiche possono averli solo a proprio rischio e pericolo. «Quando sei lesbica e decidi di avere un figlio devi fare molta fatica per riuscirci», dice Chiara, trentenne milanese madre di Alice, che oggi ha due anni. «Alla nascita, però, l'effetto miracolo si moltiplica. I primi mesi non riuscivamo a smettere di guardarla, quasi non ci sembrava vera. Poi per fortuna ci si abitua». Padre cercasi La storia di Alice è cominciata diversi anni prima della sua nascita, quando Chiara e la sua compagna Irene hanno scoperto di essere reciprocamente la donna giusta: «Abbiamo cominciato a parlare della discendenza da subito, prima ancora di andare a vivere insieme. Poi c'è stata la prima fase di avvicinamento all'idea della maternità, in cui divoravamo un sacco di libri sull'argomento. In seguito abbiamo cominciato a parlarne con gli amici». La prima tappa, raccontano, è stata la ricerca del padre adatto: «Inizialmente pensavamo che ci volesse un padre, perché altrimenti nostro figlio sarebbe stato privato di qualcosa di essenziale. Così abbiamo iniziato a cercarlo. Passando in rassegna amici e conoscenti abbiamo anche trovato qualcuno che sarebbe stato disponibile, ma c'era sempre qualcosa che non andava. Alla fine siamo arrivate alla conclusione che qualunque soluzione con persone conosciute aveva troppe incognite. Ci siamo rese conto che non desideravamo che ci fosse una persona esterna alla coppia in questa storia». Attraverso una serie di ulteriori passaggi, Chiara e Irene sono arrivate in una clinica olandese che dopo una lista d'attesa di sei mesi le ha chiamate per un colloquio e le ha accettate. Dopo altri tre mesi la prima inseminazione, e dopo otto tentativi Chiara è rimasta incinta. Adesso guardano Alice e pensano che tutto sommato il più è fatto, anche se i loro progetti familiari non sono terminati. La madre biologica del prossimo figlio, se tutto andrà come sperano, sarà Irene. La mailing list La vicenda di queste due neomamme non è un caso limite. Anche in Italia, malgrado il parlamento applichi alla lettera le indicazioni del papa, le famiglie lesbiche cominciano a essere visibili. Niente a che vedere, ancora, con il baby boom lesbico degli Stati uniti, ma se solo dieci anni fa parlare di maternità lesbica pareva un'esagerazione persino nel movimento gay, oggi l'esperienza di una nuova generazione di donne con più certezze e meno complessi di inferiorità comincia a farsi coscienza comune. Se ne trova un piccolo risultato nelle comunicazioni che avvengono attraverso la mailing list di Lista lesbica italiana (www.listalebica.it) dedicata alle mamme, che conta parecchie decine di iscritte. Donne che parlano dei figli che hanno avuto o che desiderano avere: coppie e singole che hanno scelto l'inseminazione artificiale, donne «ex etero» in una relazione lesbica o anche tuttora sposate. Comunicano, si rassicurano a vicenda, sanno di non essere più sole. Fanno amicizia anche, e si incontrano con i bambini, perché per loro è ancora più importante sapere di non essere i soli ad avere due mamme. In assenza di qualunque rete di protezione istituzionale, creano uno spazio che costruisce giorno per giorno la normalità del loro essere madri. Scelta non conforme Il principale problema pratico di una famiglia con due mamme, segno tangibile del carattere punitivo del diritto familiare verso una scelta «non conforme», è che una delle due di fronte alla legge non è neppure una lontana parente. E quando si arriva al dunque, spesso in situazioni drammatiche, la malvagità delle regole si sente. Giuliana, 37 anni, che vive da dodici con Elena, insieme ai loro tre bambini (e tre gatti) a Milano, racconta cosa è capitato a lei: «Con la fecondazione assistita ho avuto due parti gemellari, ma al primo parto uno dei due gemelli non è sopravvissuto. Così come stavo sono dovuta uscire dall'ospedale per andare in Comune a firmare gli atti burocratici necessari. Elena, non essendo riconosciuta come co-genitore, non poteva farlo per me. Se fossimo state sposate avrebbe potuto. Quando abbiamo iscritto i bambini al nido, comunque, erano disposti a considerarci nucleo familiare per cumulare i nostri redditi e farci pagare una retta più alta». Fortuna che la vita quotidiana è molto più elastica e che le persone, una volta accertato che non mordi, la prendono con filosofia. «Non sempre però», precisa Giuliana. «Sia al nido che alla scuola materna siamo andate insieme e abbiamo detto che eravamo tutt'e due le mamme e non ci sono stati grossi problemi, ma qualche genitore è rimasto scioccato. Alla materna, poi, le maestre hanno fatto presente che il fatto che il nostro figlio più grande dicesse che ha due mamme poteva creare un problema, perché di mamma ce n'è una sola. Un minimo di conflittualità di base, insomma, c'è, ma bisogna essere decisi e tranquilli nell'affrontarla». Dov'è il tuo papà? La realtà, d'altra parte, è questa, non ci sono alternative. Se le mamme sono due, vuol dire che non sempre ce n'è una sola. Ed è bene che lo sappiano gli adulti e anche i bambini. Nello stillicidio continuo di occasioni in cui può succedere di dover mettere i puntini sulle i, tuttavia, non sempre si ha la voglia o la forza sufficiente. La visibilità di una famiglia lesbica è incessantemente messa alla prova da chi chiede innocentemente al bambino dov'è il suo papà, dando per scontato che ci debba essere, o dal fruttivendolo che da anni è convinto che una delle due sia la zia. Reggere il ritmo non è uno scherzo. Tanto più che, soprattutto all'inizio, la maternità viene vissuta da molte donne come un elemento di maggiore vulnerabilità psicologica. «In passato - spiega Daniela di Roma - sono stata molto visibile come lesbica. Adesso che ho avuto una figlia lo sono un po' meno. Se qualcuno mi fa una domanda diretta dico la verità, ma non sono sempre con la spada in mano a combattere. So che è importante che la cosa diventi del tutto trasparente, ma con i figli è un po'come fare coming out la seconda volta. In sala parto non ho detto che la mia compagna era la mia compagna, sentivo di essere fragile in quella situazione e non mi andava. E anche in seguito ho sentito di nuovo delle resistenze interne e delle insicurezze, come la paura irrazionale che mi potessero togliere la bimba. Delle mie amiche sono andate dall'assistente sociale per chiarire che erano una famiglia lesbica. Noi no. Per ora con le istituzioni non ci confrontiamo, lasciamo spazi bianchi. Credo che la visibilità sia proporzionale a come si sta con se stessi e io sono impegnata a fare un percorso insieme a mia figlia e alla mia compagna. Già mi sento più coraggiosa, e per quando sarà il momento di mandarla a scuola saremo completamente out». Se i figli chiedono Non è garantito, in ogni caso, che man mano che i figli crescono i problemi diminuiscano. L'impatto con le regole sociali assorbite attraverso la scuola e il passaggio all'adolescenza possono portare crisi e conflitto. Accade che i figli tendano a nascondere la loro «diversità» e chiedano alle madri di fare altrettanto, o che dove il padre non è mai esistito la sua assenza diventi per i figli un catalizzatore di disagio relativo alla «stranezza» delle proprie origini. Ci si può consolare pensando che neppure nelle famiglie tradizionali il complesso di Edipo è un gioco da ragazzi, ma che il problema esista non si può negarlo. Cosa si può fare? La ricetta già pronta non esiste. Giuliana, che di mestiere fa la psicologa, chiarisce: «Ho fatto questa scelta sapendo che la mancanza di un padre conosciuto avrebbe creato qualche problema. Penso che l'importante sia parlarne dall'inizio, dare delle spiegazioni può evitare i traumi. E se c'è un disagio bisogna affrontarlo apertamente. Attrezzarsi per dare risposte e rassicurazioni, senza esagerare le difficoltà». Se una famiglia con due mamme può creare qualche problema ai più giovani, figuriamoci se lascia indifferenti i più anziani. Non c'è praticamente madre o padre eterosessuale che non dia della pazza alla propria figlia quando questa gli comunica di voler allevare bambini all'interno di una relazione lesbica. Perlopiù, comunque, quando vedono che fa sul serio, accettano la situazione, ameno se è lei la madre biologica. Se non lo è, invece, è possibile che fuggano. «I genitori della mia compagna - dice Daniela - non si considerano nonni perché secondo il loro punto di vista la figlia è solo mia. Prima c'era una certa cordialità, poi senza grossi scontri, si sono interrotti i rapporti. Li vediamo pochissimo perché non vogliono considerare una relazione con questa bambina. Cercano di non vederla, forse hanno paura di affezionarsi, o paura di quello che può pensare la gente». Madri sì, lesbiche no Non è quindi solo la legge a creare intoppi, ma anche una mentalità per cui alla fine quello che conta sono solo i legami di sangue. La madre, sia pure lesbica, che partorisce non ha in sé nulla di strano o di inaccettabile. Anzi, la maternità può a volte nobilitare un po' il suo lesbismo agli occhi di una famiglia all'antica. Ma l'altra, a cosa serve esattamente? Il dubbio, oltre a provocare reazioni scomposte nei nonni «non biologici», può aleggiare su buona parte della cerchia di conoscenze e trovare terreno fertile persino all'interno della stessa coppia lesbica che decide di avere un figlio. Una è la madre e ha un ruolo naturale e oggettivo, l'altra deve costruirselo sotto il peso di schemi fatti apposta per farla sentire non prevista. Una misura si trova (con l'attivo contributo soprattutto dei figli, dicono le interessate), ma sta in sfumature di uguaglianza e differenza diverse da quelle note. E questo, in fondo, è un modo di costruire un futuro più accogliente per tutti. |
Il referendum del 12 e 13 giugno sulla riproduzione assistita è importante anche per le persone omosessuali. Perché la battaglia è in realtà sul diritto dello stato di dettare, con leggi dichiaratamente cattoliche, limiti e obblighi a tutti i cittadini, anche alla maggioranza che cattolica non è. Ecco perché è importante andare a votare, e votare quattro sì per l’abolizione di regole assurde, e spesso addirittura ridicole.
Di Daniela Danna – “Pride”, Giugno 2005
Il 12 e 13 giugno siamo chiamate e chiamati ad esprimere il nostro parere sull’abolizione di alcuni articoli (i peggiori) della pessima legge italiana sulla procreazione assistita. La maggioranza di destra che ci ritroviamo (per ora) al potere ha partorito la legge più oscurantista d’Europa in materia di aiuto medico alla riproduzione: la legge n. 40 del 2004. Un capolavoro di cattolicesimo nel suo disprezzo per le donne, per le scelte di vita alternative, per la ricerca scientifica... È una legge che soddisfa pienamente le gerarchie ecclesiastiche (che l’hanno riempita di tutti i divieti immaginabili), scontentate solo dal fatto che in questa legge la riproduzione assistita è permessa alle coppie (purché rigorosamente eterosessuali!) non solo sposate, ma anche conviventi. Leggendo il testo si ha la netta impressione che la volontà della legge sia limitare la fecondazione assistita (stabilendo l’elenco minuzioso di tutte le cose che non si devono fare e consentendo persino l’obiezione di coscienza ai medici), invece che stabilire norme per renderla possibile a chi ne ha bisogno. E naturalmente il terrore che le lesbiche usino queste tecniche per creare famiglie proprie ha portato all’assoluto divieto di accesso alle poche tecniche permesse per le donne che non siano in una coppia eterosessuale: chiunque applichi tecniche di procreazione medicalmente assistita a coppie dello stesso sesso è punito con una supermulta da 200.000 fino a 400.000 euro. Il risultato è che se da anni ormai le lesbiche italiane che desiderano un figlio si erano date al “turismo procreativo”, rivolgendosi a centri esteri (Olanda, Belgio, Gran Bretagna), ora anche un quarto delle coppie eterosessuali con problemi di sterilità, fra quelle che inizialmente si rivolgono ai centri italiani, si rivolgono poi a paesi in cui non ci sono le limitazioni italiane. In primo luogo quella sulla fecondazione eterologa, cioè fatta con il seme di un donatore (proibita in Italia), che nel caso in cui i problemi di fecondità siano del compagno è la tecnica più semplice e meno invasiva del corpo della donna. Al contrario l’autoinseminazione, cioè l’aiuto di un donatore (magari un amico gay) per procedere da sole all’inseminazione (vedi il libro di Lisa Saffron Autoinseminazione, edito da Il dito e la luna) non sembra un’opzione seguita dalle coppie etero, ma solo da quelle lesbiche. Oltre tutto, la parte più grave della legge non riguarda nemmeno la fecondazione assistita, ma è l’articolo che attribuisce all’embrione la caratteristica di essere già “persona”, allo scopo di scardinare la legge che consente l’aborto. Infatti se dichiariamo che l’embrione è una persona, l’aborto diventa un omicidio, come vanno ripetendo le gerarchie cattoliche (ma da nemmeno tanto tempo: precisamente solo dal 1869, mentre prima la dottrina cattolica lo consentiva, sia pure a certe condizioni). E se la fecondazione assistita può forse riguardare una minoranza della popolazione (anche se si dice che ben un quinto delle coppie eterosessuali abbiano problemi di sterilità) la facoltà di abortire riguarda tutte le donne. Contro questa legge catastrofica sono state raccolte tre milioni di firme da diverse proposte di referendum, tra i quali il più sensato era quello che bocciava completamente la legge e ne richiedeva l’abrogazione completa. Purtroppo questo referendum non è stato ammesso dalla corte costituzionale, per non tornare alla situazione di deregolamentazione precedente (in cui in realtà valeva il regolamento emanato dall’ordine dei medici, che già prevedeva il divieto di procedere alla fecondazione assistita per le coppie che non fossero eterosessuali e conviventi per lo meno da due anni). Solo quattro articoli sono stati ammessi all’esame referendario. Vediamoli, allora. Ad elettrici ed elettori si chiede se vogliano annullare o no i seguenti principi: 1) Non si possono congelare gameti ed embrioni, né può essere svolta ricerca scientifica su di essi. Le donne che hanno bisogno della fecondazione in vitro devono sottoporsi a ripetuti prelievi di ovuli, quando il primo impianto non ha avuto successo. I prelievi implicano la stimolazione ovarica tramite ormoni. Se però gli ovuli potessero essere congelati e tenuti da parte per essere usati per un nuovo tentativo in caso di insuccesso, allora si potrebbe fare tutto con un unico prelievo, con risparmio di tempo, denaro, e salute della donna. Tuttavia la legge attuale proibisce di farlo, per paura che eventuali ovuli non utilizzati, invece di essere distrutti, siano poi usati per la ricerca scientifica contro le malattie ereditarie. Una “precauzione” inutile ed ipocrita: i ricercatori italiani utilizzano infatti già ora cellule staminali embrionali importate dall’estero! 2) Non tutte le tecniche di fecondazione assistita sono lecite, e quelle lecite sono applicabili solo a chi ha una diagnosi certa delle cause della sterilità della coppia... …e può dimostrare di aver fatto tutti i tentativi a sua disposizione per guarire. Questa limitazione implica che se la coppia è a rischio di trasmettere malattie genetiche ai figli, anche mortali, però è fertile, non può comunque accedere alle tecniche di procreazione assistita. Inoltre nella regolamentazione delle tecniche è stato stabilito anche l’obbligo di impiantare tutti e tre gli embrioni che si possono legalmente fecondare in un ciclo di trattamenti di fecondazione in vitro, creando così il pericolo di gravidanze con tre gemelli, che sono un grande rischio, oltre che per i feti, anche per la madre. Non basta ancora! Siccome è vietata la diagnosi pre-impianto, anche gli embrioni portatori di malattie genetiche individuabili devono essere impiantati (salvo poi fare ricorso all’aborto dopo che l’amniocentesi ha rivelato le malformazioni!). Sembra una legge fatta da un ubriaco, eppure è la legge in vigore... 3) L’embrione è una persona. La questione di quando un grumo di cellule possa essere considerato una “persona” è delicata, e non può essere risolta con una battuta. Qualunque decisione sarà infatti sempre arbitraria. Per i cattolici, l’ovulo fecondato è una persona. Per la scienza, non si può parlare di un individuo prima di alcune settimane, dato che non esiste la minima differenziazione fra cellule che permetta di parlare non solo di un cervello, ma nemmeno di un sistema nervoso. E' lecito per una religione stabilire al proposito una regola e una data qualsiasi, valida per i fedeli di quella religione; anche zero minuti. è lecito per lo stato stabilirne un’altra, magari di compromesso, ascoltando la scienza prima della religione, dato che lo stato si occupa di tutti i cittadini, di qualunque religione siano. Non è invece lecita la pretesa di una religione di stabilire regole vincolanti per tutti. Specie se per farlo deve, come qui, fare carta straccia del referendum che nel 1981 ha confermato la volontà della schiacciante maggioranza degli italiani di mantenere la possibilità di abortire tramite il servizio sanitario nazionale, e non dalle mammane a rischio di morte o dai medici “obiettori” a prezzi da mercato nero. Non è tutto: l’interpretazione letterale della legge impedirebbe perfino le tecniche contraccettive che impediscono l’impianto uterino dell’ovulo fecondato (come la spirale e la pillola del giorno dopo – quest’ultima definita “un omicidio nascosto” dal Movimento con Cristo per la vita nel riportare la posizione della Pontificia accademia pro vita). 4) è vietato il ricorso a tecniche di procreazione di tipo eterologo. Come si è già detto, uno dei principi più bizzarri della legge sulla procreazione assistita è quello per cui la coppia sterile deve obbligatoriamente usare lo sperma del marito (anche se è sterile), e l’ovulo della moglie (anche se è sterile). Questo capriccio è giustificato con la protezione della discendenza genetica certificata – come dire che non è ammissibile per lo stato italiano occuparsi di bambini geneticamente non propri... Ma va contro ogni elementare logica. Riassumendo. Se questi concetti sembrano assurdi, e si è contrari ad essi, per abolirli occorre votare “sì” al referendum. Chi invece è favorevole a questi principi, deve votare “no”. Il parere della maggior parte degli italiani a favore del sì è abbastanza scontato, al punto che la chiesa cattolica non sta facendo battaglia per il “no”, bensì per l’astensione: chi appoggia la legge non vuole infatti contare i voti effettivi (dando già per scontato che vinceranno i sì) ma punta solo a far fallire la consultazione popolare facendo mancare il quorum della maggioranza assoluta dei votanti. Dunque la battaglia si combatterà tutta nel tentativo di convincere almeno il 50% degli italiani ad andare a votare: anche per questo il referendum è stato fissato in pieno periodo di vacanze, sperando che molte persone preferiscano andare al mare (cosa che peraltro si può benissimo fare prima o dopo il voto: basta organizzarsi. E ricordate di portare con voi il certificato elettorale!). L’astensionismo, lanciato dal cardinale Ruini, presidente della Conferenza episcopale italiana, è un modo vergognoso di dire no ai cambiamenti proposti, pretendendo il controllo monopolistico dei cattolici sulla sessualità dei cittadini italiani. “Non si vota sulla vita” è lo slogan dell’astensionismo. E certo, tanto il parlamento ci ha già votato su: quindi perché mai la cittadinanza dovrebbe poter esprimere anche lei un’opinione? Hanno paura dell’opinione degli italiani. Un motivo in più perché, il 12 e 13 giugno, andiamo tutte e tutti a votare, e votiamo per l’abrogazione di questi articoli della legge, con quattro Sì. Come persone omosessuali, sia gay che lesbiche, abbiamo il diritto, e il dovere, di stabilire il principio che non spetta né allo stato né al cardinal Ruini decidere sulla nostra vita sessuale. Votando sì rimarremo comunque consapevoli del fatto che la discriminazione nei confronti delle lesbiche e dei gay non è stata nemmeno ammessa al voto, e che a questo bisognerà rimediare in un secondo momento. La Spagna, al solito, già diciassette anni fa (1988!) aveva dato alla singola donna la facoltà di ricorrere ai medici per avere assistenza nella procreazione. È questa l’unica posizione sensata per evitare l’intervento dello stato nelle scelte procreative delle persone: così come non è proibita la procreazione ad alcuna categoria di persone, anche il diritto di ricorrere alle terapie e alle tecniche mediche non deve essere limitato dalla morale cattolica. |
TESTIMONIANZE...
Il racconto di Tina e Terry: «Oggi a Cravaggio, vicino a Bergamo, viviamo come una famiglia normale»
Di D. Monti – “Corriere della Sera”, 17 Aprile 2005
CARAVAGGIO (Bergamo) - E' bastata una volta, assicura Tina, una volta sola. «Una seduta di inseminazione artificiale in una clinica di Bruxelles e Terry, la mia compagna, è rimasta subito incinta. Non è stato difficile. Tanto sperma così - e avvicina due dita per far vedere quanto ne è servito - congelato, iniettato in utero. La più elementare delle pratiche. Ed è nato Michele». Michele adesso ha 15 mesi e dorme di là, sul letto delle mamme, circondato da cuscini. Quando imparerà a parlare, le chiamerà mamma, tutte e due. Tina, 36 anni, la più giovane della coppia, assistente sociale. E Terry, 42, esperta di massaggi e medicina olistica. E' stata lei, Terry, a volerlo con tutto il cuore. Quando ancora era ragazzina aveva fatto una specie di voto, raccontano ora le due mamme: «Voglio un figlio prima dei 40 anni». Si è sbagliata di poco: Michele è nato che ne aveva appena compiuti 41. Ed è nato nonostante Terry avesse, diciamo così, una certa difficoltà con gli uomini. Terry è lesbica e innamorata. Di suo figlio, della sua compagna Tina, della vita che fa. «Una vita semplice, normale: ci alziamo alle 6, ci prendiamo cura di Michele, lavoriamo a turno perché con lui ci sia sempre qualcuno. Mai un'occhiata storta: la gente qui ci vuole bene. Gli anziani che abitano nel palazzo, o quelli che incontro dal panettiere, si considerano un po' i nonni di Michele. Andiamo al Gay Pride, ma non siamo di quelle con i pennacchi in testa. Viviamo serenamente, ecco. E vorremmo che nostro figlio potesse fare lo stesso». Il paese dove vivono è piccolo. E cattolicissimo. A Caravaggio non c'è famiglia che non abbia fra i parenti almeno un prete, e se non un prete, un missionario. Anche Terry e Tina sono credenti. «Abbiamo una nostra, forte, spiritualità», dicono. In soggiorno la foto di Michele appena nato, con incisa sopra la data «2 febbraio 2004», è circondata da due immagini di madre Teresa di Calcutta. «Il giorno del parto, Terry è stata molto male. E' stato un parto difficile, racconta Tina. Io non sapevo più a chi votarmi. Mi è venuta in mente lei, madre Teresa, e mi sono messa a pregare». E' così che il piccolo, prima ancora di nascere, aveva già il suo santo protettore. Ma la Chiesa approverebbe? No, non approva. «Comprendiamo chi non è d'accordo e chiediamo rispetto, prima che comprensione - riprende a raccontare Tina -. Decidere di avere un figlio, del resto, non è stato semplice neppure per noi. Terry era granitica ma io no, ce n'è voluto per convincermi. Così abbiamo preso una decisione: nessun accanimento, nessuna stimolazione ormonale, ci proviamo tre volte, tre tentativi di inseminazione artificiale, e se il bambino non arriva vuol dire che non è destino. Due amiche, che hanno avuto un bimbo pure loro, ci hanno messo in contatto con la clinica di Bruxelles. Abbiamo avuto un incontro con uno psicologo e poi con una dottoressa, un'italiana emigrata in Belgio perché l'aria che si respira da noi, su questi temi, le sta stretta. Una seduta e, nove mesi dopo, Michele è arrivato». In Italia non sarebbe stato possibile. Né prima, con la vecchia legge (ma su questo Tina non è d'accordo: «Conosco ragazze omosessuali che prima delle legge lo hanno fatto, perché hanno trovato un medico abbastanza aperto di idee. Ma questo non lo scriva»), né tantomeno oggi, con una legge sulla fecondazione assistita che vieta l'eterologa, cioè vieta che per la procreazione possano essere utilizzati gameti (ovuli o, come in questo caso, spermatozoi) estranei alla coppia, togliendo di fatto ogni possibilità alle coppie omosessuali. Da qui la corsa alle cliniche del Belgio o della Danimarca, dell'Olanda o della Spagna. Il costo? «Noi abbiamo pagato 1.100 euro, una cifra alla portata di tutti. So di altre persone, anche eterosessuali, che lo hanno fatto in Italia e hanno speso di più». Se Tina definisce «miope» la nuova legge non è solo perché impone l'espatrio («un biglietto d'aereo per Bruxelles con la Ryanair costa meno del pendo lino»), ma perché «è culturalmente inaccettabile, sostiene che la sola famiglia che ha diritto ad esistere è quella tradizionale. Ma io chiedo: e noi? Non siamo una famiglia? Il nostro bambino non ha diritto ad essere tutelato?». Non si lascia smontare da chi risponde che anche un figlio ha dei diritti: quello ad un padre, per esempio. «Ci sono decine di studi che dimostrano che i figli di coppie omosessuali sono bambini " normali", senza problemi in più, né in meno. Studi fatti nel nord Europa, che da noi, però, non arrivano. Questa legge non aiuta nostro figlio». Loro, le due mamme, ci stanno provando, sfruttando i varchi lasciati aperti da un sistema legislativo imbarazzato e impreparato. «Sulla carta d'identità di Michele, nello spazio riservato al coniuge, Terry ha fatto mettere il mio nome - dice Tina -, con l'aggiunta: madre adottiva non riconosciuta. E così sulla tessera sanitaria, dove io compaio come co mamma. A tutte le visite a cui Terry ha dovuto sottoporsi in gravidanza ho partecipato anch'io. Lei diceva: "Posso fare entrare la mia compagna?". E nessun medico si è mai opposto. Durante il travaglio, aveva me accanto: "Lei è mio marito", rispondeva a chi provava a buttarmi fuori. Insomma, qualcosa si può fare, ma è così poco rispetto a quello che vorremmo». Cosa vorreste? «Io vorrei - dice Tina - essere riconosciuta come mamma non biologica di Michele. Non voglio diritti: voglio che le legge mi dica che ho dei doveri nei confronti di questo bambino». Ci stanno provando anche con un'associazione, Famiglie Arcobaleno (www.famigliearcobaleno.org), dove si discute di maternità e paternità, di diritti e di doveri. «Fino a poche settimane fa, Michele era il più piccolo dell'associazione. Ora un'altra coppia di lesbiche ha avuto una bimba. Lentamente, ma cresciamo. Senza andarlo ad urlare in giro, senza imporlo a nessuno». |
Pisa, storia di una famiglia lesbica: "Abbiamo sempre preso ogni decisione di comune accordo e ora aspettiamo l’arrivo di Valerio: la camera è pronta"
E' l'amore che fa una famiglia
Di Giovanni Parlato - "Il TIrreno", 28 Marzo 2006
PISA. Eleonora si accarezza il suo pancione dove Valerio già sgambetta. Il bambino nascerà ai primi di giugno. La sua compagna, Patrizia, le sta seduta accanto. Aspettano il giorno di diventare mamme. Eleonora e Patrizia si sono iscritte al registro delle unioni civili di Pisa il 6 agosto del 2003 dopo un paio d’anni di convivenza. Portano ambedue la fede al dito. Hanno deciso di mettere su famiglia. A differenza di Jasmine Trinca, l’attrice che interpreta il ruolo di Teresa in «Il Caimano» di Nanni Moretti che ha scelto una clinica olandese, Eleonora, 28 anni, si è sottoposta all’inseminazione in una clinica privata di Barcellona. «Era il 13 settembre dell’anno scorso - ricorda Eleonora - e sono rimasta subito incinta». Patrizia, 46 anni, non l’ha mai lasciata sola. «Abbiamo sempre preso ogni decisione di comune accordo e ora aspettiamo l’arrivo di Valerio». La coppia di donne è pisana. Patrizia Murer lavora come impiegata alla questura di Pisa, Eleonora Frediani è impiegata all’azienda ospedaliera. Abitavano a Pisa quando hanno deciso di comprarsi casa. «In città stavamo bene, nessun problema per la nostra convivenza, ma le case sono troppo care», dice Eleonora. Così hanno lasciato la città per andare a vivere in campagna, in un casolare vicino Nozzano, nel territorio del comune di Lucca, appena qualche chilometro dopo il confine con Pisa. Hanno ristrutturato la casa e una camera è già pronta per Valerio. Una culla lo sta aspettando. Prima dell’inseminazione, a Barcellona, hanno avuto un colloquio con una psicologa della clinica. «Il primo problema che ci ha posto davanti - racconta Eleonora - è la tutela a livello legale del nostro bambino. Ci è stata spiegata l’importanza che il bambino sappia al più presto la verità in modo da renderlo forte. Che possano esistere famiglie con una tipologia diversa da quelle eterosessuali, ancora non è nella mente della gente. L’altra settimana ho avuto delle piccole contrazioni e sono andata a Viareggio dalla mia ginecologa che mi ha segnato dei farmaci. Il dottore mi ha detto: mandi pure suo marito a comprarli. Io ho risposto che non avevo un marito. Mi ha guardato con aria quasi compassionevole e mi ha dato uno stick dei farmaci. “Un’altra ragazza madre”, ecco cosa ha pensato. Dal punto di vista legale io sono come una ragazza madre, ma non è così nella realtà, a me come a Patrizia spetta un ruolo genitoriale, ambedue saremo mamme». Chiediamo come è maturata l’idea di avere un figlio. Le due donne si guardano negli occhi. «Patrizia aveva un figlio che è morto in un incidente stradale quando aveva 18 anni», dice Eleonora. «Quello è lui», dice Patrizia indicando la foto del figlio. È ancora Eleonora che rompe il silenzio: «Mi sono trovata a confrontarmi con questa sua maternità che ha toccato la mia stessa maternità». «Non c’è solo una ragione per cui abbiamo voluto questo figlio, è stato un treno di emozioni», aggiunge Patrizia. «Non ho voluto un figlio per dare un senso alla mia vita - riprende Eleonora - la mia vita aveva già un senso. Ho voluto questo figlio per dare un senso alla nostra unione. Un figlio da un uomo, per scelta individuale, non avrei mai accettato di crescerlo». Prima di questo passo importante, la coppia aveva deciso di iscriversi al registro delle unioni civili. Perché, domandiamo, avete fatto questa scelta? «Patrizia si era sentita male ed era stata ricoverata in ospedale. Il mio primo pensiero è stato quello di chiamare l’avvocato per avere il diritto di poterla assistere. Ma era necessaria una sua dichiarazione in cui se non fosse stata in grado di intendere e di volere delegava a me l’assistenza. Poco dopo abbiamo saputo che l’iscrizione al registro delle unioni civili consentiva e consente questo diritto. Inoltre, sempre grazie all’unione civile, posso assentarmi dal lavoro tre giorni per motivi familiari: basta mostrare la mia unione registrata al Comune di Pisa». Un domani, i Pacs potrebbero risolvere molti problemi delle coppie di fatto? «È un passo avanti, ma non è certo la soluzione - risponde Patrizia -. Il disegno di legge dà la possibilità della reversibilità della pensione e di partecipare alla graduatoria per un alloggio, ma non affronta il vero problema. Anche con i pacs saresti sempre considerata qualcosa di diverso. Noi coppie omosessuali vogliamo gli stessi diritti delle coppie etero. Ci aspetta una lotta dura e senza paura». «Credo che i pacs - aggiunge Eleonora - alimenteranno ancora di più lo stereotipo del diverso». Intanto, le due future mamme si stanno organizzando per l’arrivo di Valerio. «Per la legge sono una ragazza madre e ho il massimo punteggio per iscrivere il bambino al nido», dice Eleonora. «Io farò testamento e intesterò la mia parte, il 50% della casa, a Valerio», dice Patrizia. Nonostante Eleonora sia impiegata all’ospedale di Pisa, il bambino nascerà a Viareggio. «È una questione di praticità», spiega. La sua gravidanza è a rischio e, da quando ha fatto l’inseminazione, è a casa. I genitori aspettano con trepidazione di diventare nonni. «All’inizio c’erano stati degli scontri - spiega Eleonora - avrebbero voluto per la loro unica figlia una famiglia come tante. Ma, adesso, abbiamo raggiunto un equilibrio e sono contenti. Questo figlio che deve arrivare ha risanato i contrasti e mi ha messo nella posizione di mamma».
UNITE DAI “PACS” TRENTUNO COPPIE Solo quattro sono omosessuali: tre femminili e una maschile. Il registro delle unioni civili è aperto a Palazzo Gambacorti dal 1998, ecco i diritti di chi vi si iscrive
PISA. Dal 1998, l’amministrazione comunale ha aperto il registro delle unioni civili. Fino ad ora sono iscritte trentuno coppie di cui quattro omosessuali (tre coppie di donne e una di uomini). Il registro segue una delibera del 1997 quando il sindaco era Piero Floriani. «Il registro dà la possibilità alle coppie che convivono - spiega Fausto Magni, responsabile del registro delle unioni civili - di uscire dalla clandestinità e diventare pubbliche. Ma non riconosce alcun stato giuridico. Il Comune non può dettare norme che modificano lo status del cittadino. Tuttavia, dall’iscrizione ci sono alcuni vantaggi. Per esempio, se una delle due persone sta male può essere assistita in ospedale dal compagno o dalla compagna. Inoltre, in caso di malattia il partner ha diritto a tre giorni di permesso dal lavoro». Per quale motivo, domandiamo, una coppia decide di iscriversi al registro? «In genere - risponde Fausto Magni - per una scelta ideale e di costume. Una scelta che provoca nella coppia una sorta di consacrazione della propria unione che implica anche assistenza morale e materiale. Una consapevolezza maggiore della convivenza che implica rispetto e assistenza nei confronti del partner. L’iscrizione al registro non implica alcun impegno giuridico, ma incide sulla persona che risente del cambiamento a livello psicologico». Possiamo dire che il registro delle unioni civili, domandiamo, è una specie di pre-pacs? «Sì, certamente - risponde ancora Magni - il registro interpreta questo spirito. Credo che se un giorno dovesse essere varata una legge sui pacs, il registro è già un contenitore delle coppie di fatto». Molte sono le coppie giovani che hanno deciso di iscriversi al registro. L’età media è di trentadue anni. La maggior parte di loro è laureata (ben diciassette), mentre sono tredici ad essere diplomati. Di questi quattro sono ricercatori scientifici, tre insegnanti, sei liberi professionisti, otto impiegati, sette studenti. Una coppia che si era iscritta ha deciso di cancellarsi perché ha deciso di sposarsi. |
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