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Tratto dal bel romanzo “Desert Of The Heart” di Jane Rule (pubblicato negli Stati Uniti nel 1964 ma edito in Italia solo nel 1996!), con il quale in fondo ha in comune solo le tracce sulle quali si costruisce l’intreccio, e sceneggiato da Natalie Cooper, è una clamorosa e inattesa eccezione nel panorama cinematografico commerciale, soprattutto americano, di tutti i tempi. Sfacciatamente esplicito e sincero, prodotto nel 1985 quando ancora l’omosessualità era un’aberrazione, un tabù o una malattia infettiva, è trasmesso con una certa regolarità dalle emittenti televisive di mezzo mondo ed è ancora una delle videocassette più noleggiate! Sarebbe riduttivo ed offensivo affermare che tanto successo lo debba solo alle delicate seppur realistiche scene di sesso fra le protagoniste (esistono film precedenti e successivi capaci di accontentare anche il più esigente voyeur!), crediamo, piuttosto, che abbia conquistato il grande pubblico per la sua imparzialità e franchezza, cosa che dimostra una disponibilità alla normalizzazione ed un bisogno di “verità” che i cineasti gay, lesbiche ed eterosessuali mediamente dotati di onestà intellettuale, dovrebbero affrettarsi a soddisfare. Leggero, senza forzature stilistiche e ideologiche, velleità artistiche, mire propagandistiche, didattiche o moralizzatrici, è un film che semplicemente racconta una storia: la vicenda di due donne che s’incontrano per caso e si amano spontaneamente senza drammi, tentare il suicidio o correre ad ammazzare qualcuno. Due persone, insomma, capaci di dare e ricevere amore - alle prese con i conflitti del cuore e le difficoltà della vita, come ogni altro. Un film che ancora consola e riscatta intere generazioni di donne costrette a nascondersi, a considerarsi comunque inadeguate e immeritevoli a prescindere dalle proprie inclinazioni sessuali. Anche se nessuno si prenderà la briga di scriverlo da qualche parte, “Cuori nel deserto” è, per questo, una pietra miliare nella storia del cinema. C. Ricci
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Da “Lo schermo velato” di Vito Russo
«Nel novembre 1985, Deitch disse alla rivista “Ms.” che era sua intenzione realizzare un intreccio romantico tradizionale. “Quando ho comprato i diritti del libro, non c’era mai stato un solo film con una relazione tra donne che non fosse finito con un suicidio o con un triangolo bisessuale. Io volevo fare solamente una storia d'amore, come qualsiasi altra storia d'amore tra un uomo e una donna, sviluppandola con franchezza e verità.” Deitch è una regista di talento, capace di evocare gli anni Cinquanta che molti di noi ricordano, nello stesso tempo mettendo a fuoco i conflitti che nascono intorno alle due donne. Il rifiuto di Deitch di mettere al centro del proprio film la reazione del mondo etero al lesbismo, ha fatto la differenza nel modo in cui il pubblico ha accolto il rapporto tra le due donne. “È stato interessante”, dice Helen Shaver. “Che fossero due donne era assolutamente importante, ma ad un certo punto del film è diventato un fatto veramente irrilevante. La storia e i personaggi sono emotivamente abbastanza seducenti da tenere agganciato il pubblico che rimane dalla parte delle due donne anche dopo che diventano amanti. Ridotte le sciocchezze emotive, il fatto che fossero due donne alla fin fine al pubblico importava poco.” A qualche critico, invece, è importato. Sul New York Times, Vincent Canby si è lamentato perché le informazioni sulla qualità del matrimonio a pezzi di Vivian sono scarse, chiedendo se per caso il lesbismo non fosse una reazione isterica al divorzio. È qui che molti critici eterosessuali non sono capaci di recensire un film gay con sensibilità. Richard Goldstein l'ha messo bene in risalto sul Village Voice: “Per me, era chiaro che la reazione isterica era il matrimonio. So bene cosa spinge gli omosessuali repressi al matrimonio, più di quanto ne sappia Canby. Non per questo, lui è un intollerante... il problema è più oggettivo. Non viviamo nello stesso mondo. Io conosco la loro società, ma loro non conoscono la mia”. Visto che ha un atteggiamento disteso verso i gay, Deitch è stata libera di procedere con una storia non basata su rivelazioni sconvolgenti o polemiche. Come il drammaturgo Harvey Fierstein (autore e interprete del bel film “Amici complici amanti”), che ritiene omosessuali tutti coloro che incontra fino a che non gli dicono il contrario, così i film gay immaginano un mondo lesbico e gay dove l'eterosessualità è un'estensione naturale del comportamento umano. In un mondo simile, l’omofobia che si incontra viene messa in una prospettiva più producente. Non è l'odio stupido che si vede nei film commerciali, né lo spauracchio responsabile di tutte le delusioni della vita che si vedono nei film di propaganda. Gli intolleranti sono persone reali. C'è una ragione per cui odiano ciò che è diverso. Hanno paura dei cambiamenti, non ammettono di poter perdere il controllo su un mondo che ritenevano loro. In “Cuori nel deserto” possiamo vedere che persino gli adolescenti che ci hanno torturato in gioventù hanno imparato a comportarsi bene andando al cinema. Quando la matrigna di Charbonneau, brillantemente interpretata da Audra Lindley, si scaglia contro la figlia perché è lesbica, sono a rischio la sua sicurezza e il suo passato, e noi la giustifichiamo», possiamo comprenderla e accettarne l’incapacità di andare oltre la sua necessità di controllo perché conosciamo perfettamente il suo demone, quel demone feroce che priverebbe l’umanità intera della felicità se solo bastasse a lasciare tutto esattamente com’è: doloroso magari, ma almeno senza incognite. Il suo demone si chiama paura, qualcosa che etero ed omosessuali conoscono bene (C. Ricci).
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Negli anni ’80, in Italia erano due gli uomini che si stavano facendo “da soli” (uno contando sull’investitura divina, l’altro raccomandandosi a Sant’Antonio): Berlusconi, che sistematicamente e senza fretta si “beveva” Milano e dintorni grazie soprattutto all'amicizia con Bettino Craxi che (già allora) aveva varato alcune leggi su misura per lui, e Giorgio Mendella, “telefinanziere” milanese, che da lì calò in Toscana per tentar fortuna a suo modo, da sfrontato indipendente senza accorti consiglieri e influentissimi protettori, per così dire. Giunto in Versilia (crocevia di traffici legali e illegali ai più alti e occulti livelli - armi, droga, mafia internazionale, finanza, ecc.), non ci mise molto a divenire proprietario di una piccola emittente televisiva di Lucca facendola diventare un network televisivo nazionale (Retemia). D’altronde, Mendella, proveniva dal tele-marketing, era un imbonitore televisivo, un persuasore affascinante e talentuoso, un uomo capace di vendere qualsiasi prodotto senza perdere per un solo momento tensione e vis affabulatoria – come Berlusconi, aveva ben compreso la preminente importanza del mezzo televisivo. Tra il 1980 e il 1990, dunque, Mendella riuscì a costruire una vera e propria holding, la Intermercato, con un giro d’affari ipotizzato in circa 250 miliardi e una galassia di società satelliti a lui collegate. Il gioiello era l’emittente televisiva Retemia, appunto. C’erano poi Primomercato, Capitalfinanziaria, Domovideo (che commercializzava film in videocassetta acquistandone i diritti, “Cuori nel deserto” era fra questi), Finversilia, Publimercato ’90, Interco e il Viareggio Calcio. L’attività principale di Mendella era la raccolta di denaro attraverso i telespettatori di Retemia (si arrivò a circa 14mila investitori, perlopiù piccoli e medi risparmiatori), promettendo loro interessi dal 25 al 29-30% mensili, inizialmente sotto forma di mutui, successivamente in cambio dell’acquisto di azioni. Una specie di Catena che, sappiamo, funziona perfettamente solo a patto che ognuno stia al gioco, nessuno si tiri indietro. Per garantire il buon esito dell’operazione, il gruppo aveva avviato attività immobiliari in Romania con l’intenzione di costruire sulla costa del Mar Nero villaggi residenziali per un totale circa 15mila appartamenti (prevenduti in tv), e un centro commerciale a Bucarest. Con i soldi accumulati, nel 1988 Mendella aveva addirittura acquistato un istituto bancario, il Banco di Tricesimo, che avrebbe dovuto diventare la “banca del gruppo”. Di più: Mendella aveva in programma di acquistare un satellite, Primosat, per diffondere sul pianeta il segnale di Retemia, ma voleva anche comprare Odeon Tv, Telemontecarlo e una squadra di calcio, la Fiorentina e/o il Torino, e ce l’avrebbe sicuramente fatta se tutto quel darsi da fare senza l’assenso di quelli che contavano davvero, non avesse dato fastidio ai suoi diretti concorrenti e loro confratelli. Mendella cresceva troppo, troppo in fretta e senza controllo, mantenendo le promesse, distribuendo soldi in proporzioni assolutamente inedite e inaccettabili per coloro i quali si arricchiscono sulle disgrazie degli altri - doveva essere fermato. In pratica le banche e la Borsa lo chiusero in trappola ovviamente fregandosene di chi aveva investito i propri risparmi nelle sue attività. Prima, come sappiamo, gli consentirono di avviare le vantaggiose speculazioni immobiliari in Romania e finanziarie in Italia, poi, il 25 giugno 1990, intervennero la Consob e la Borsa le quali decisero di sospendere la vendita delle sue azioni, rilevando la violazione della legge n. 216 del 1974 che regola la sollecitazione del risparmio (c'era anche prima ma chissà perché nessuno se n'era accorto) - fu il primo di una lunga lista di provvedimenti e rilievi. Naturalmente, chi poté si affrettò a tirarsene fuori salvando il salvabile, ma Intermercato e tutte le società collegate ad essa e ai traffici di Mendella fallirono. Lui fuggì e TUTTO fu posto sotto sequestro in tempi record. Ne venne fuori un crack di proporzioni notevolissime eppure, nel giro di qualche settimana, il caso sparì persino dalle pagine della cronaca locale nonostante l’accesa protesta dei piccoli risparmiatori che si ritrovarono soli e scherniti. Insomma, di tutta la faccenda non se ne seppe più nulla, quasi si volesse stendere un velo pietoso, non si volessero rendere pubbliche le responsabilità, in primo luogo politiche, di chi aveva permesso un tale disastro. Un modus operandi già visto, a Lucca e altrove. Nel 1999 il Tribunale di Lucca condannò in primo grado Mendella a nove anni di reclusione per bancarotta fraudolenta e altrettanti gli furono inflitti a Milano. In seguito, però, la Corte di appello ha sensibilmente ridotto la pena a lui e ai suoi collaboratori più stretti. Chi gli ha dato fiducia, invece, aspetta ancora di essere risarcito e molte delle sue società sono ancora sotto sequestro, Domovideo compresa - forse. Con il senno di poi dobbiamo ammettere che se fosse stato più avveduto, se avesse voluto/saputo stringere alleanze ed amicizie con personalità più radicate e potenti, certamente avrebbe potuto competere perlomeno ad armi pari con altri e più “fortunati” imprenditori, ma Mendella correva da solo, spalleggiato da una sguarnita armata Brancaleone, non era un blasonato frequentatore dei salotti “buoni” di quell’italietta che, bruciate le tessere della P2 e in barba alla magistratura, uscita dalla porta è rientrata dalla finestra perlopiù riciclandosi o perpetuando se stessa attraverso i suoi portaborse e persino, talvolta, i suoi oppositori. Ecco, più o meno spiegato, il motivo per cui “Cuori nel deserto” è sparito dal mercato Home Video. Dati i tempi biblici necessari in Italia per sbloccare i casi giudiziari, lasciate ogni speranza voi che lo cercate. C. Ricci |