A cura del prof. Vanni Tiozzo, docente di Restauro all’Accademia
di Belle Arti di Venezia.
“Marmorino” è un termine dal significato complesso,
esso include numerose accezioni che sono testimonianza di una
innumerevole serie di variazioni nel corso della storia.
Il
marmorino è innanzitutto un INTONACO, ossia qualcosa che
copre – tonaca – gli edifici e che oltre ad essere
protezione è anche sembianza, proprio come un vestito da
indossare; quindi, oltre a proteggere le murature da infiltrazioni,
l’intonaco ha anche il compito di far apparire l’edificio
come si avrebbe voluto che esso fosse a prescindere dai materiali
realmente impiegati.
Grassello
di calce ad un colore
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L’intonaco
è una stratificazione presente sulle superfici degli edifici
che, data la loro natura irregolare, si realizza con la stesura
di uno o più impasti composti da un legante e vari tipi
di inerti. Il legante è di norma costituito da calce, intendendo
quello che oggi chiamiamo CALCINA o GRASSELLO DI CALCE, in quanto
è un materiale che, dopo la sua asciugatura, diviene una
pietra artificiale, un materiale che vanta caratteristiche di
mirabile stabilità fisica, traspirabilità, resistenza
meccanica e resistenza agli attacchi biologici. Il grassello di
calce si ottiene mediante la cottura di pietre calcaree che divengono
ossido di calce o CALCE VIVA, segue lo spegnimento, ossia il trattamento
della calce viva con una quantità d’acqua pari a
due volte e mezzo il suo peso; così si ottiene la CALCE
SPENTA, cioè l’idrossido di calcio o calcina o grassello
di calce, la cui qualità è verificata dall’assenza
di grumi e dalla collosità; deve appiccicarsi come colla
al ferro della cazzuola.
Grassello
di calce a due colori |
Il
processo di asciugatura del grassello è detto di carbonatazione
poiché il contatto con l’anidride carbonica, presente
nell’aria, da luogo alla trasformazione dell’idrossido
di calcio in carbonato di calcio, cioè una pietra carbonatica
come, ad esempio, la pietra d’Istria. Questa fase di asciugatura
è tuttavia un processo molto delicato per l’evaporazione
della grande quantità d’acqua contenuta nell’impasto
ed a questo proposito grande importanza riveste l’inerte
e la lavorazione.
L’inerte
è comunemente costituito da sabbia in quanto stabile, di
facile reperimento e di basso costo. Esso non ha una funzione
legante ma solamente stabilizzante. Un impasto con troppa sabbia
causerebbe cretti da ritiro tali da portare all’instabilità,
viceversa, un eccesso di sabbia porterebbe alla friabilità
della stratificazione. Di norma negli intonaci la sabbia ha un
rapporto di tre parti su una di calcina.
La
sostituzione della sabbia con la polvere di marmo da luogo ad
un impasto che viene chiamato MARMORINO, un impasto bianco che
non presenta i puntini neri della sabbia, e che è caratterizzato
da una elevata omogeneità in quanto, una volta asciutto,
è costituito interamente da carbonato di calcio e quindi
diventa una pietra artificiale. Il carbonato di calcio ha comunque
una macro morfologia a “cristallo”, una forma in grado
di conferire particolare lucentezza e luminosità alla superficie
dell’intonaco, l’intonaco a marmorino è quindi
un espediente per simulare un edificio in pietra.
L’impiego
del marmorino per le finiture degli edifici era conosciuto già
al tempo dei Romani, Vitruvio ne parla infatti nel I° secolo
a.C. nella sua opera “De Architectura”; a quel tempo
veniva usato in spesse e multiple stratificazioni che arrivavano
anche a dieci centimetri, ottenendo così una superficie
liscia, compatta e piana. Talvolta i primi strati erano costituiti
da calce e coccio pesto che, essendo poroso, era in grado di assorbire
una maggiore quantità di sali solubili nelle murature umide.
Ovviamente simili realizzazioni imponevano l’impiego di
una grande quantità di manodopera, oltre che una mirabile
organizzazione del lavoro, perché necessitavano di una
lavorazione particolarmente energica sia per fare compattare l’inerte
sia per fare trasudare l’acqua dell’impasto sulla
superficie. Nel medioevo l’intonaco con polvere di marmo
fu utilizzato solo per le stesure di base da dipingere poi ad
affresco. Tale impiego rimase limitato all’area dell’alto
Adriatico e forse trae le sue origini nel Regno Romano d’Oriente.
L’organizzazione del lavoro di allora non consentiva lavorazioni
complesse, infatti troviamo realizzazioni in un’unica stesura,
di soli due o tre millimetri, con la superficie lisciata e caratterizzata
da ondulazioni, una superficie bianca come quella di una tavola
per dipingere.
Si dovrà attendere il Rinascimento per vedere la riscoperta
del “marmorino” nell’ambito della più
generale attenzione per la cultura classica.
Spatolato
di calce
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Dalla fine del Quattrocento si realizzeranno tutta una serie di
costruzioni che cercheranno di riprendere l’architettura
romana e queste inizieranno ad avere una semplice lisciatura a
calce e polvere di marmo su un intonaco con sabbia, quello che
oggi chiameremmo SPATOLATO DI CALCE, allora
realizzato a cazzuola, che via via si completa nella sua configurazione
originaria di marmorino con lo strato di cocciopesto. Questa elegante
finitura caratterizzerà molta dell’architettura veneziana
del rinascimento, impreziosirà i fronti che si specchiano
sul Canal Grande, confondendosi con quelli in pietra d’Istria,
così come molte superfici meno importanti dei centri storici
veneti. Il marmorino caratterizzerà anche le mirabili opere
architettoniche di grandi artisti veneti come Jacopo Tatti, detto
il Sansovino, Andrea di Pietro dalla Gondola, detto il Palladio,
Vincenzo Scamozzi e tanti altri. Opere come le Procuratie Nuove,
le chiese di San Giorgio e del Redentore a Venezia, le ville venete
della Malcontenta, di Maser e della Rotonda, la Loggetta di San
Marco a Venezia sono tutte opere apprezzate nel mondo anche per
la loro preziosa finitura. Una finitura che simulava il materiale
nobile della pietra come ci ricorda il caso di Palazzo dei Diamanti
a Ferrara dove la parte di rivestimento in pietra giunge sino
alla fine del piano nobile ossia dove l’intonaco imitava
l’effetto della pietra; un espediente questo che caratterizzerà
molte architetture del tempo.
Molte realizzazioni di “marmorino” sono generalmente
sottili e lasciano trasparire l’ondulazione della lavorazione
presentando una certa irregolarità.
Il Sei e il Settecento è il periodo che presenta la maggiore
diffusione del “marmorino”, soprattutto nell’area
Veneta. Lo strato di calce e polvere di marmo si configura con
un maggiore spessore, mediamente quattro millimetri, e la lavorazione
avviene mediante ferri più ampi che consentono un perfetto
livellamento della superficie. Queste stesure allora insistevano
di norma anche su di un altro strato, costituito da calce e cocciopesto,
il quale risultava particolarmente indicato nelle zone umide.
Da tali realizzazioni che caratterizzeranno le superfici di moltissime
edificazioni del Veneto, deriverà anche la denominazione
di “MARMORINO VENEZIANO” che si riferisce proprio
all’insieme di questi diversi strati di intonaco.
Parimenti alla pietra naturale anche la pietra artificiale, il
marmorino, veniva trattata per aumentare la sua lucentezza e la
sua resistenza agli agenti atmosferici, e nel “L’Architettura”
di Leon Battista Alberti apprendiamo di una FINITURA A CERA, o
ENCAUSTICATURA, e di una FINITURA A SAPONE. La prima di queste
finiture, in realtà un insieme di cera e resina mastice
con un po’ d’olio, veniva applicata ad intonaco asciutto
e veniva fatta penetrare nella superficie con il calore dei bracieri,
poi la superficie doveva essere strofinata accuratamente sino
alla lucidatura. La seconda di queste finiture era decisamente
più semplice e prevedeva la lisciatura dell’ultimo
strato irrorandolo con il sapone bianco sciolto in acqua tiepida.
L’effetto di queste due finiture era decisamente opposto,
la prima portava ad una saturazione cromatica, quindi adatta per
le realizzazioni di piccole misure con intense colorazioni, mentre
la seconda portava ad un biancore della superficie, più
adatta quindi alle ampie pareti chiare. Bisogna fare presente
che talvolta l’operazione di encausticatura viene confusa
con l’antica tecnica dell’ENCAUSTO, che invece è
il dipingere con colori mescolati a cera sull’intonaco.
Nell’Ottocento abbiamo un grande cambiamento dovuto all’incremento
dei costi della manodopera e, per questo motivo, le laboriose
lavorazioni a calce diventano sempre più rare e aumentano
le realizzazioni e le ricette di cosiddetti “MARMORINI”
costituiti da gesso e colla, quindi finti in tutti i sensi e di
conseguenza più propriamente denominati STUCCO.
Lo
STUCCO LUSTRO, denominato anche STUCCO VENEZIANO, prevede di mescolare
nello stucco dei colori e del sapone di calcio per poi trattare
la superficie con un ferro caldo quando è ancora fresca
e successivamente lucidarla con una pasta di cera. L'effetto ottenuto
appare simile a quello dell'encausticatura ma il materiale è
tutto diverso. Singolare è l’impiego del termine
italiano di stucco lustro nelle varie lingue europee e ciò
è legato alle maestranze italiane che le condizioni economiche
spingevano a portare questa lavorazione all’estero.
La lavorazione dello stucco è decisamente meno laboriosa
e faticosa di quella a calce ma i materiali che lo compongono
sono assai meno resistenti rispetto a quest’ultima, infatti
il gesso è solubile nell’acqua e la colla è
un materiale organico di facile aggressione biologica. Anche se
la finitura superficiale è trattata per offrire impermeabilità,
quando la muratura trasferisce umidità alla stratificazione,
quest’ultima va in putrefazione. La differenza più
consistente è tuttavia quella estetica; la materia di calce,
per quanto lucidata con sostanze organiche, per esempio cera o
colla, lascia sempre emergere la sua materia cristallina. Al contrario
quella a colla e gesso lascia sempre trasparire il suo aspetto
organico e gelatinoso anche quando la lucidatura viene agevolata
con l’aggiunta di resine sintetiche.
Nella
realizzazione del MARMORINO, soprattutto di quello tradizionale,
risulta quindi intuitivo che quanto più legante si riesce
ad inserire nell’impasto, senza però che si formino
fenditure, tanto più il nostro intonaco sarà compatto
e quindi stabile. Nella realizzazione del marmorino, così
come dello STUCCO VENEZIANO, risulta quindi importantissima la
corretta scelta della granulometria dell’inerte oltre all’attrezzo
di lavorazione: il ferro, quel particolare strumento che oggi
chiamiamo frattone metallico.
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È infatti il frattone metallico (o taloscia) a lasciare
parlare la superficie circa la sua esecuzione, che imprimerà
i cosiddetti valori di superficie, ossia quella particolare morfologia
che contraddistingue tutte le opere che con accuratezza e sapienza
vengono lavorate a mano. Questi valori sono tutti quei segni che
si possono scorgere sulla superficie e che sono legati al movimento
della mano mediante l’uso degli attrezzi più appropriati.
Il frattone del marmorino e dello stucco veneziano deve essere
robusto per poter consentire la necessaria pressione ma deve anche
avere un’ottima lippatura che gli consenta di non creare
mai segnature con i vari passaggi e nemmeno rigature. Il frattone
deve perciò avere anche una ponderata flessibilità,
una durevole lippatura, e una impugnatura che non affatichi la
mano nella laboriosa lavorazione.