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Aggiornato
Venerdì 26-Gen-2007
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L’8 Marzo non dovrebbe essere una festa, ma una commemorazione – per non dimenticare le donne che ci hanno preceduto e sono morte da subalterne, per ricordare il genocidio culturale, politico, sociale, psichico e fisico che da sempre si compie contro chiunque appartenga al genere femminile o, oggi, aspiri ad acquisirlo. Cento anni fa, in una fabbrica di New York, decine di donne sottopagate e schiavizzate in quanto tali, morirono arse vive perché non poterono fuggire dalla fabbrica nella quale lavoravano. Scoppiò un incendio. Le porte erano chiuse dall’esterno per impedire loro di assentarsi, distrarsi – non ebbero scampo. Cento anni dopo il ruolo (o il dogma?) è il medesimo: ubbidire, conformarsi, ri-produrre e morire, in silenzio. Non c’è proprio nulla da festeggiare – le donne, etero, lesbiche e transessuali, lo sanno?
Volentieri pubblichiamo un comunicato dell'Associazione Desiderandae di Bari - fra le dune del deserto intellettuale e civile che tutto ammorba, pare una piccola oasi.
Il nostro silenzio non è mai stato assenso. Scegliere di creare, privilegiare e continuare a sognare luoghi di donne è una pratica a cui non rinunceremo, perché non possiamo rinunciare alla nostra soggettività. Lavorare per tracciare genealogie, per ripercorrere pensieri, scritture, voci di donne, è una ricchezza che vorremmo condividere con tutte le donne, perché sappiamo che solo grazie a questo sedimento di memoria possiamo camminare su terreni connessi. Da qui abbiamo tratto la forza dirompente per smembrare il simbolico, per nominare la nostra rabbia, per liberare la nostra disobbedienza e resistere alle quotidiane cancellazioni, al tentativo di addomesticarci, come donne e come lesbiche, non più sotterraneo ma spudorato come non mai. Ma oggi, forse, il silenzio rischia di diventare assenso. Oggi sentiamo forte l'esigenza di urlare a gran voce il nostro sdegno, oggi che i nostri nemici, parola cupa ma necessaria, hanno rialzato la testa per ricacciare le donne nell'oscurità come non accadeva da tempo. Il disegno che si va tracciando sotto i nostri occhi è tanto inquietante, da un lato, quanto d'altro si affievoliscono gli strumenti, le occasioni, le libertà per poterlo nitidamente individuare. L'offensiva quotidiana è sferrata dall'immorale perdita di laicità delle forze politiche e dall'arroganza reazionaria di papi e cardinali. Di contro, l'analisi critica che ci si aspetterebbe dagli intellettuali, è quasi del tutto assente. Una lunga fila di filosofi, predicatori, scrittori, legislatori, medici, capi di stato, direttori di giornali, politici, ideologi (e di conseguenza padri, fratelli, amici, soldati, insegnanti, compagni di classe e di vita), camminano a turno sul nostro corpo, decidendo cosa e come, se e quanto, quando e con chi farne uso; si appropriano, con il nulla osta di leggi umane o pseudodivine, e con speculazioni scientifiche e filosofiche, di un corpo che non abitano eppure di volta in volta normano, controllano, negano, spiegano, espropriano o santificano. Sono tante le cose che accendono la nostra rabbia, ma una più di tutte: il concetto di naturalità, dogma tornato prepotentemente sulla scena, con cui la società patriarcale legittima la sottomissione della donna. In nome della naturalità soccombono, una per una, tutte le nostre libertà di autodeterminarci: come se il nostro destino fosse già scritto nel dna di una femminilità ideale (la cui lettura e interpretazione, peraltro, non ci compete) e non sia possibile cambiarlo, nemmeno quando la nostra volontà va in direzione diametralmente opposta, come VA in direzione opposta la volontà di una lesbica. Ecco allora rispuntare all'orizzonte il ruolo naturale della donna, l'unico socialmente riconosciuto, cioè quello di moglie e madre (meglio se in quest'ordine). Ecco perché solo alla famiglia, in quanto cellula naturale della società, viene riconosciuta una funzione sociale, con tutto ciò che ne discende, mentre le risorse individuali o le forme sociali di diversa configurazione sono puntualmente scoraggiate e considerate minacciose per la stabilità del sistema. Ecco perché la nostra esistenza viene infestata e banalizzata, sin da bambine, dal concetto di naturalmente femminile, ovvero: remissive, accoglienti, sensibili, portate per le materie umanistiche, poco inclini ai lavori tecnici e ai ruoli decisionali, che sono cose da maschi, e poi, crescendo, per premio portatrici di tacchi alti e altri simulacri che attraggano il maschio e contemporaneamente ci impediscano di poter fuggire troppo lontano. L'idea di noi che c'è nell'aria nel 2006 sembra venir fuori da un telefilm degli anni '50: la donna è un'attitudine mediamente concava, non ha diritto di esercitare la propria rabbia, e trova il suo completamento in un compagno (maschio, non si discute) e nell'essere madre. Fuori da questo paradigma, sei un'eversiva. E se è possibile fare una scala dell'eversione, le lesbiche stanno sul gradino più alto. Basti pensare che se la nostra morale non approva le donne sposate e fertili che decidano di non essere madri, se ancora condanna quelle che cambiano partner frequentemente, se in fondo è normale che lei badi alla casa e ai figli e lui vada a lavorare, mentre il contrario scandalizza, allora tanto più eversiva e marginale è la lesbica, che sfila da questo castello il perno su cui tutto gira, la centralità del maschile, e lo sostituisce con il proprio corpo, a cui consente di scegliere secondo il proprio desiderio. La nostra esistenza di lesbiche è il margine estremo del sistema, un luogo di valore da cui scaturisce una prospettiva; la nostra lettura del mondo ha origine da questo affaccio così periferico sulla realtà, ed è uno spazio nel quale non ci sentiamo per nulla appiattite o limitate. Quello che ci schiaccia, piuttosto, è la spinta violenta da più parti verso una normalizzazione che non lascia altre possibilità, che è tanto più fiera quanto più ci rendiamo visibili. Vogliamo difendere questo margine con tutte le forze, perché il nostro "centro" è una ricchezza che non appartiene solo a noi ma, ne siamo convinte, a tutte le donne. Una conquista per le lesbiche è conquista acquisita per tutte, il contrario non è sempre vero. La nostra pratica politica è pratica oscena, agita consapevolmente fuori dalla scena. Pensiamo che tutta l'energia raccolta all'interno del nostro gruppo e con le lesbiche con cui condividiamo l'oscenità del margine, debba essere canalizzata insieme a quella di tutte le donne e di tutta la società civile che, come noi, è consapevole dell'arretramento in atto sul piano civile, giuridico, sociale e simbolico. La nostra scommessa è che la lotta delle lesbiche diventi la lotta di tutte le donne. |
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