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Venerdì 26-Gen-2007
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A Giarre, 25 anni fa si uccisero - o forse furono uccisi - due omosessuali rifiutati dalla città.
Di Jenner Meletti - "La Repubblica", 10 Luglio 2005
GIARRE (Catania) - Non c’è più il pino marittimo, che svettava alto sopra gli aranci. I vecchi del paese dicevano che «soltanto il pino aveva visto», solo «il pino sapeva». Sapeva della morte di Giorgio Agatino Giammona, 25 anni, e di Antonio Galatola detto Toni, 15 anni. Erano andati a farsi uccidere sotto i suoi rami, i due «puppi», come con disprezzo ancora oggi vengono chiamati, in terra catanese, gli omosessuali. Il più grande, Giorgio, era addirittura «puppu cu’ bullu», perché a sedici anni era stato sorpreso in auto con un altro ragazzo ed i carabinieri lo avevano denunciato. Omosessuale con tanto di bollo. Sono passati 25 anni e del pino marittimo è rimasto soltanto il ceppo, tagliato a raso in quello che oggi è un parcheggio davanti all’istituto Itis di Giarre. Non ci sono più gli aranci. Solo case, condomini, supermercati, istituti di bellezza e scuole. E per Giorgio e Toni, nel paese fra l’Etna e il mar Jonio, non c’è più nemmeno la memoria. Eppure, ogni volta che gli uomini e le donne dell’Arci gay si riuniscono per un congresso nazionale o un Gay Pride le prime parole sono «per Toni e Giorgio, i due ragazzi di Giarre». «Si sono fatti ammazzare da un bambino di 13 anni perché non sopportavano gli insulti di tutto il paese». «Il loro sacrificio ha spinto tanti di noi a uscire allo scoperto. Due mesi dopo la loro morte proprio in Sicilia, a Palermo, è nato il primo circolo dell’Arci gay». Ci sono anche le giostrine per i bambini, nel luogo dove Giorgio e Toni furono trovati morti il 31 ottobre 1980. «Erano quasi abbracciati e si tenevano per mano». I due ragazzi erano spariti da casa due settimane prima, dopo che in paese qualcuno aveva cominciato a chiamarli «‘i ziti», i fidanzati. I carabinieri indagano e trovano subito un «colpevole» che ha 13 anni e dunque non può essere punito. Franco M., il bambino omicida, è nipote di Toni e racconta una strana storia. «Lo zio e Giorgio mi hanno portato in campagna e mi hanno detto: o ci uccidi, o noi uccidiamo te. Mi hanno messo una pistola in mano e si sono sdraiati sull’erba, come per dormire. Mi hanno dato un orologio, come ricompensa. Ho dovuto sparare alla testa, come mi avevano detto loro». Due giorni dopo il bambino ritratta. «Ho confessato perché i carabinieri mi hanno dato gli schiaffi». Giarre si chiude a riccio quando giornalisti e telecamere arrivano pure da Roma per raccontare la tragedia. «Che vergogna. Penseranno a Giarre come al paese dei finocchi». Il funerale è già una sentenza. Duemila persone dietro al feretro del ragazzo di 15 anni, nessuno per Giorgio Giammona, «puppu cu’ bullu». L’inchiesta rimpalla fra Giarre e Catania e non approda a nulla. Franco M., il bambino di allora, adesso ha 38 anni. Porta addosso i segni pesanti di quella tragedia. Paolo Patanè, avvocato di 37 anni, vice presidente del Pegaso’s club di Catania, associato all’Arcigay, abita a Giarre. «Ero bambino, quando è successo il fatto. Ma ricordo la paura che c’era in paese e soprattutto la vergogna dei grandi». Quel sacrificio ha cambiato un pezzo d’Italia, ma non ha cambiato Giarre. «Forse si è ridimensionato il peso del giudizio sociale, ma l’ipocrisia resta sovrana. Prima, se eri gay, ti volevano schiacciare. Ora si accontentano di ignorarti. Puoi anche vivere con il tuo compagno, basta che non si sappia. Dentro le case continuano le tragedie di chi è costretto a vivere l’omosessualità come una malattia. Conosco ragazzi che sono stati costretti a lasciare l’università così non incontravano "altri malati". Altri ragazzi, quando hanno parlato con i genitori, sono stati portati dallo psichiatra». La libertà di vivere è a poco più di venti chilometri, a Catania. Qui c’è il circolo Pegaso’s, con discoteca gay che conta 7.000 iscritti. Il presidente è Giovanni Caloggero, che nell’ottobre 1980 aveva 29 anni. «Allora ero dirigente di banca, sposato con una donna e gay. Quella tragedia ci disse che se avessimo continuato a restare nell’ombra avremmo potuto finire come loro, quei poveri ragazzi forse suicidi forse assassinati a freddo». Il Pegaso’s ha una pista da ballo sotto un grande tendone da circo, e in estate un’altra accanto ad una piscina ombreggiata dagli eucalipti. «Quando ci sono le feste arrivano quasi duemila persone. Noi, comunque, siamo un’isola nell’isola. Arrivano da Trapani, 330 chilometri di macchina, per venire a ballare qui. Arrivano dalle centinaia di Giarre sparse in Sicilia. E’ importante, il Pegaso’s. E’ l’unico luogo dove puoi vivere senza paura la tua omosessualità, dove puoi discutere e conoscere la vita degli altri». Dopo il primo circolo di Palermo, fondato da don Marco Bisceglia, prete del dissenso, altri circoli nacquero in tutta Italia. «Qui a Catania - racconta Giovanni Caloggero - siamo riusciti ad aprire il nostro primo locale solo nel 1993. Era un appartamento di 100 metri quadri, non aveva nemmeno il frigorifero. Tenevamo la birra nel ghiaccio. Ma quel primo appartamento, preso in affitto dalla Chiesa Evangelica, è stato una pietra miliare». «Ecco, potremmo costruirlo qui, un segno che ricordi i due ragazzi uccisi». L’avvocato Paolo Patanè è accanto al ceppo del pino marittimo di Giarre, testimone silenzioso della tragedia. «Il Pegaso’s di Catania è importante ma non basta. La Sicilia e l’Italia sono fatti di paesi dove essere gay è ancora ignominia. Noi potremo essere liberi quando, nella scuola che è qui di fronte, i presidi e i professori chiameranno i ragazzi e anche noi a parlare di libertà civile, di omosessualità, di identità sessuale. Proporremo al Comune di mettere una lapide per ricordare Toni e Giorgio. Hanno diritto almeno a una memoria». |
Tre colpi di 7,65 sotto un albero: così vengono uccisi, nel 1980, Giorgio e Antonino, i fidanzati. Cosa c'è di più facile che scaricare la colpa su un dodicenne? Così finì, tra buchi dell'inchiesta e senza un briciolo di pietà
Articolo di Luciano Mirone da “Diario del mese – Il secolo Gay”, numero del 6 Gennaio 2006
Fu
un pastore a ritrovarli abbracciati sotto un albero di limoni quel 31
ottobre del 1980, in un agrumeto di Giarre, a ridosso dalle case popolari
e a poca distanza dalla caserma dei carabinieri. Giorgio Agatino Giammona
e Antonino Galatola erano morti da quindici giorni, i loro corpi erano
in evidente stato di decomposizione e il puzzo insopportabile della
putrefazione si espandeva nella campagna e nelle prime case. Eppure
per due settimane quei due cadaveri non li aveva visti nessuno, né
gli abitanti del rione, né i familiari, né i carabinieri
che nei giorni precedenti avevano setacciato palmo a palmo quelle zone
anche coi cani poliziotto. Giorgio e Antonino erano gay, 25 anni il
primo, 15 il secondo. Figlio di un facoltoso commerciante di strumenti
musicali, Giorgio aveva qualche precedente penale per piccoli furti.
Antonino invece, figlio di un venditore ambulante di giocattoli, era
considerato un bravo ragazzo. Da diversi mesi avevano iniziato una relazione.
Lo avevano fatto in assoluta libertà, alla luce del sole, indifferenti
degli sfottò che giravano di bocca in bocca mentre, mano nella
mano, passeggiavano per le vie del centro. «Arrivaru ‘i
ziti». Sono arrivati i fidanzati. «Talìa ‘i
puppi’». Guarda i froci. E giù un coro di risate
che echeggiavano fra i balconi barocchi di questo paese di trentamila
abitanti a venti chilometri da Catania. Dopo il ritrovamento dei cadaveri,
i carabinieri imboccarono subito la pista del suicidio: Antonino avrebbe
sparato a Giorgio e poi si sarebbe puntato la pistola alla tempia togliendosi
la vita. Anche perché accanto ai corpi fu ritrovata una lettera
- un classico in Sicilia - che non lasciava spazio a equivoci: «La
nostra vita era legata alle dicerie della gente... Non possiamo più
vivere». La coppia dunque si sarebbe «suicidata» per
disperazione, stanca delle continue vessazioni cui veniva sottoposta
in un paese pieno di pregiudizi. L’ipotesi investigativa durò
solo lo spazio di qualche ora perché nel frattempo nel luogo
del «suicidio» era stata trovata una rivoltella coperta
da un pugno di terra, per giunta con la sicura abbassata. E allora i
conti cominciarono a non tornare. Com’è possibile abbassare
la sicura di un’arma, fare alcuni centimetri, sotterrare la pistola
dopo essersi fatto saltare il cervello? Il giorno dopo cambiò
tutto, la dinamica, il movente, lo scenario. Non più suicidio
ma omicidio. Improvvisamente uscì fuori «l’assassino».
Mica un delinquente incallito o un uomo adulto e vaccinato, ma un bambino
di 12 anni, Francesco Messina, nipote di una delle due vittime (Antonino
Galatola), un semplicione forse un po’ ritardato, il volto lentigginoso
e paffuto, che dall’alba al tramonto aiutava i nonni in campagna
con i quali viveva da molti anni, e ai quali, secondo i parenti, voleva
più bene degli stessi genitori. Ai carabinieri di Giarre confessò
di essere stato lui l’uccisore dei due omosessuali: «Mi
hanno detto di premere il grilletto e l’ho fatto. O ci ammazzi
con questa pistola o noi uccidiamo te». I conti non tornarono
neanche in merito ai colpi sparati. Prima si disse che erano stati sette,
poi tre: due avevano centrato la testa di Giorgio, uno quella di Antonino.
La pistola (una calibro 7,65), secondo la versione del bambino, gliel’aveva
data lo stesso zio quindicenne che, assieme all’amico, lo aveva
istigato a commettere il duplice delitto. Ma lo zio Antonino, secondo
un giudizio unanime, era uno che un’arma non l’aveva mai
vista in vita sua. E allora quella pistola da dove era saltata fuori?
Mistero. «Prima che io li uccidessi», disse Francesco Messina,
«Giorgio e lo zio mi avevano regalato un orologio». Per
i carabinieri e il pretore non c’erano più dubbi: erano
stati scoperti l’assassino, il movente e l’arma del delitto.
Caso chiuso. Fine della storia. Ma solo per un giorno. Poi Francesco,
avvicinato da un giornalista del quotidiano “L’Ora”
di Palermo, raccontò alcuni inquietanti retroscena: «Non
è vero, non li ho uccisi io. Ai carabinieri ho detto così
perché mi avevano dato schiaffi, mi sono fatto pure la pipì
addosso e poi loro dicevano che se non confessavo arrestavano il nonno
Francesco». A quel punto scoppiò il finimondo. A Giarre
arrivarono gli inviati dei giornali nazionali che trovarono un paese
diviso in due: da un lato i carabinieri e il pretore che non ritennero
di seguire altre piste, dall’altro la città, la stessa
città che fino a pochi giorni prima rideva al passaggio dei «puppi»
e che adesso non credeva alla tesi del «baby killer». Perfino
i quotidiani tradizionalmente più moderati come “Avvenire”,
“Il Messaggero”, “Il Piccolo”, “La Sicilia”
attaccarono gli inquirenti per quell’inchiesta «fatta male»
che «potrebbe segnare per sempre la vita di un bambino di 12 anni».
La stessa posizione fu assunta dall’allora sindaco Nello Cantarella:
«Io non credo assolutamente che un bambino di 12 anni abbia potuto
sparare a freddo, uccidere due ragazzi senza avere nessuna reazione
visibile per quindici lunghissimi giorni. Questo farebbe saltare tutte
le regole della psicologia. E io, se mi permettete, sono un medico e
capisco di queste cose». Il quotidiano “La Sicilia”
avanzò tre ipotesi: «1) È stato Franco a premere
il grilletto della pistola; 2) Il dodicenne cui si addebita il duplice
omicidio fu presente all’“esecuzione", anche se non
fu lui a portarla materialmente a compimento. In tal caso egli è
ora spinto a tacere il nome del vero killer per paura di chissà
quale rappresaglia; 3) Egli non fu nemmeno nella zona teatro del delitto.
Ed è stato costretto ad accollarsi tutto (perché minorenne
e non imputabile) da chi gli ha imposto di recitare a memoria un "copione"
che gli ha fatto ripetere chissà quante volte. Tant’è
vero che il fanciullo ripete pappagallescamente ciò che fece
nel pomeriggio di quel tragico giorno». I cronisti non si fidarono
della tesi ufficiale e vollero scavare a fondo, parlando con i parenti
di Francesco: «Il giorno del delitto il bambino è stato
tutto il tempo con noi. L’assassino non è stato lui...
Nei giorni successivi il ragazzo è stato tranquillo, ha lavorato
e ha giocato come sempre. Vi pare il comportamento di uno che uccide?
I carabinieri cercavano un colpevole e lo hanno trovato in Franco».
Ma fra le righe dei giornali emergevano altri particolari stranissimi:
per esempio la possibilità che Giorgio e Antonino, uccisi in
un altro luogo, fossero stati portati in quel posto (dove solitamente
si appartavano) per accreditare l’ipotesi del suicidio o, in alternativa,
del suicidio-omicidio a opera del «baby killer». Anche perché
era veramente strano che per quindici giorni, con il fetore emanato
dai due cadaveri, nessuno si fosse accorto di loro. Ma uccisi da chi
e perché? Raimondo Franchetti del “Messaggero” parlò
addirittura di «certe ambigue familiarità di Giorgio Agatino
Giammona con i carabinieri, e di certe sue propensioni al ricatto».
Il giornalista dunque inserì la figura di uno degli uccisi (già
conosciuta dall’Arma locale per via di quei piccoli precedenti
penali) in un torbido contesto di «ricatti» e di «ambigue
familiarità» con i carabinieri. Ricatti nei confronti di
chi? Ambigue familiarità con quali strati dell’Arma? Una
cortina fumogena annebbiò ogni cosa, senza che si venisse a capo
di nulla. Soprattutto quando qualcuno sparse la voce di strani droga-party
cui avrebbero partecipato i due uccisi, e addirittura il piccolo Francesco,
prima della macabra esecuzione. «Il festino particolare»,
scrisse “Paese sera”, «appare un tentativo perbenista
di chi vuole infangare la memoria dei due morti». Ad acuire le
polemiche fu un’intervista rilasciata in quei giorni a Vanna Barenghi
di “Repubblica” dal sostituto procuratore di Catania, Giuseppe
Foti, titolare dell’indagine, il quale denunciò che a distanza
di sei giorni dal ritrovamento dei cadaveri non aveva ancora ricevuto
una sola carta sul caso, ne tanto meno alcuna notizia «che da
Giarre avrebbero dovuto darmi». Alla giornalista confidò
di non credere alla versione ufficiale: «Direi che sono perplesso,
e molto. I carabinieri si affannano tanto a dire che il caso è
risolto. E questo mi preoccupa. Io sono portato a pensare che quei riscontri
“obiettivi” di cui parlano possano essere messi in discussione».
E il magistrato li mise in discussione in questo modo: «Mi sembra
sbagliato aver ristretto le indagini al bambino. Perché, per
esempio, non si interrogano i congiunti? Un fatto di omosessualità,
qui in Sicilia, è qualcosa di tremendo. Perché escludere
che un parente abbia potuto seguire i due ragazzi e ucciderli?».
Quindi una frase inequivocabile: «Una esecuzione! È solo
un’ipotesi. Ma perché non indagare in questo senso?».
Solo ingenue congetture, quelle del magistrato, dato che il fascicolo
non era ancora arrivato in Procura, o un ragionamento che scaturiva
da notizie «ufficiose», magari sussurrate da fonti autorevoli?
Possibile che Foti non avesse calcolato le conseguenze di quelle parole?
Parole che cominciarono a pesare come macigni quando indirettamente
lui stesso accusò i carabinieri di avere estorto la confessione
del bambino: «Ma certo. Sa come vanno queste cose. “Sparasti
tre colpi?”. E lui dice sì. Conosciamo questi trasferimenti
di parole». La replica del pretore di Giarre Antonino Assennato
non si fece attendere: «Ma perché Foti parla se non ha
ancora visto gli atti? Che cosa ne sa di quello che hanno fatto i carabinieri?
Come può dire che non hanno interrogato i parenti?». Già,
come? Ma i parenti furono o non furono interrogati? chiese la giornalista.
Risposta: «Non dico che l’abbiamo fatto, ma lui, Foti, non
può saperlo». Il pretore dunque, seppure a mezze parole,
confermò che i familiari di Francesco Messina non erano stati
ascoltati. In ogni caso, secondo il pretore, due particolari «incontrovertibili»
dimostravano che il dodicenne era l’assassino: la lettera ritrovata
accanto ai cadaveri e la confessione del bambino. «Cosa si deve
cercare ancora?». Infatti non si cercò più niente.
Il fascicolo arrivò a Catania e Catania stranamente archiviò.
A uccidere ufficialmente Giorgio Agatino Giammona e Antonino Galatola
fu Francesco Messina che però, in quanto minorenne, non era perseguibile
dalla legge. |
Dall’ottimo “Omocidi” di Andrea Pini (Stampa Alternativa, 2002)
(…) Il 12 novembre 1980, Antonio Galatola di 15 anni e Giorgio Agatino di 25 anni furono trovati morti in un campo, abbracciati e con le mani intrecciate. Tra le varie ipotesi anche quella di omicidio, con la famiglia come mandante, forse per mano del nipote tredicenne di Antonio. È la terribile ombra del delitto d'onore. La ragione della loro morte non è mai stata chiarita, ma anche se si fosse trattato di suicidio le motivazioni sono sempre da ricercare nell'odio sociale e familiare antigay che i due giovani amanti hanno subito. Il quotidiano "Lotta Continua" pubblicò il 14 novembre dello stesso anno le riflessioni di giornalisti, politici, attivisti del movimento gay. "Giorgio e Antonio", scriveva "Lotta Continua", "i due ragazzi di Giarre trovati morti, con le mani intrecciate, si sono uccisi? Hanno commissionato il loro suicidio? Sono stati ammazzati dal misterioso terzo uomo di cui si mormora in paese? Comunque è certo che i due giovani, l'uno di 25 e l'altro di 15 anni, erano omosessuali e si amavano. E che Giarre ha rifiutato, ha cercato di cancellare questo amore. È per questo che Giarre è diventato un simbolo. E un rimorso. E molte altre cose". Il lungo e articolato servizio fu un fatto nuovo, il segno di un cambiamento. I due ragazzi omosessuali morti "spingono a parlare", ma la mentalità dell'epoca era intrisa di divieti e tabù. Lo testimoniano, tra gli altri interventi, quello dello scrittore cattolico Giovanni Testori, che si costringe a difendere il diritto alla vita, anche nel peccato: "L'elemento centrale, prima, durante e dopo il fatto", scriveva Testori, "mi sembra il non rispetto della persona umana, del diritto alla vita. Ciò che viene fuori invece è un abuso di questo centro, di questa persona umana, la negazione del diritto alla vita, a esistere comunque, anche nel peccato, supponendo che sia peccato". Giovanni Forti, più giovane e smaliziato, si chiedeva: "Bisogna concludere che neanche dopo morti si ha diritto alla propria identità? Giorgio e Nino erano due innamorati. Si sono uccisi, o si sono fatti uccidere o sono stati uccisi, perché il loro amore era contrastato, perché l'ambiente circostante, le famiglie, non consentivano loro di amarsi liberamente. Come Giulietta e Romeo. Ma questo nessuno l'ha scritto. (…) In Giorgio e Nino non è stata uccisa l'omosessualità ma l'amore. L’amore omosessuale che non si nasconde più, che il suo nome lo grida". Aggiungeva Goffredo Fofi: "Il familismo amorale di cui hanno parlato i sociologi per la società meridionale è rimasto una delle poche ancore di auto protezione di fronte ad una società nemica, ma è al familismo amorale che vanno ascritti anche crimini come quello di Giarre". Molto più pragmaticamente Felix Cossolo, direttore della rivista gay "Lambda", utilizzando un linguaggio diretto e ironico, tipico di quegli anni, invitava i gay a riscuotersi da un sonno storico per organizzare una presenza sociale più visibile: "L’omosessuale del più piccolo paese sperduto del profondo sud, la frocia di campagna e di montagna, ma anche il gay di città devono avere degli spazi, dei punti di riferimento; solo con l'aggregazione possiamo far fronte agli attacchi più duri, altrimenti la caccia alle streghe continuerà ancora per molto tempo". Anche Enzo Francone, del Fuori, sottolineava l'aspetto dei rapporti con le istituzioni investigative. Francone racconta come, nei colloqui avuti a Catania, il questore e il comandante dei carabinieri usassero il termine uomosessuali, evidenziando la loro misconoscenza del linguaggio, e conclude: "L’omosessualità e la sessualità in genere sono un tabù non solo per la famiglia ma in egual modo per gli operatori culturali, gli amministratori pubblici, i deputati, (…) e insomma per tutti quegli organismi dello stato ai quali invece per dettame costituzionale e per le dichiarazioni dei diritti dell'uomo spetterebbe il compito di garantire sicurezza ed evoluzione sociale e culturale". Paolo Hutter, sempre riflettendo su Giarre, ha dato una definizione politica dell'omicidio che fa eco ai ragionamenti di Mario Mieli: "L’uccisione diretta o indiretta di omosessuali è solo l'aspetto più estremo della repressione dell'omosessualità, cioè della repressione del desiderio omosessuale che è in tutti". |
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