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Aggiornato Venerdì 26-Gen-2007

 

Tradito dal telefonino rubato nell’appartamento dell’uomo,
ha confessato dopo un interrogatorio fiume

Lite per rapporto sessuale: «Volevo solo punirlo».
Analogie con altro caso a Como

Fonte: old.lapadania.com

 

Pesaro. È un marocchino di vent’anni, Abdelmajid El Hilaly, regolarmente residente in Italia, dove lavora come ambulante, uno dei due aggressori dello stilista pesarese Maurizio Aiudi, ucciso nella notte fra il 6 e il 7 settembre nel suo appartamento. Il ragazzo è stato rintracciato dalla polizia a Como e ha confessato di aver legato e imbavagliato Aiudi dopo una lite sulle modalità di una prestazione omosessuale richiesta dallo stilista cinquantacinquenne. Le accuse sono omicidio aggravato, rapina aggravata e violazione di domicilio. A tradirlo è stato il telefono cellulare rubato in casa di Aiudi, localizzato nell’abitazione comasca di un tunisino dove El Hilaly si era rifugiato dopo il delitto.

Nella notte, dopo un drammatico interrogatorio concluso alle 5 di mattina il marocchino ha ammesso le sue responsabilità, senza però chiarire completamente la vicenda e la posizione del complice, suo connazionale, ancora ricercato. Questi i fatti raccontati dal giovane arrestato: il complice di El Hilaly ha telefonato ad Aiudi proponendo un incontro con un «nuovo ragazzo», un’offerta, sembra senza contropartita in denaro, subito accolta dall’imprenditore, che per questo aveva disdetto una cena con la madre. I tre avrebbero mangiato fuori, per far rientro nell’attico dello stilista verso le 22, consumando una torta e degli alcolici («ero quasi ubriaco» sostiene El Hilaly). Poi la scena in camera da letto, con il complice ad aspettare fuori, fino alle grida di Abdelmajid, che lo fanno accorrere armato del coltello della torta. Aiudi avrebbe tentato di cacciare via l’intruso, la lama sarebbe passata di mano fra l’uno e l’altro marocchino nella colluttazione con l’italiano (ferito al tronco, mentre El Hilaly ha un taglio alla mano), legato poi con i fili elettrici di un phon e del carica batterie del cellulare e la camicia premuta su naso e bocca, e lasciato riverso sul letto, in preda a una lunga agonia durata 6 ore. Quindi la fuga, dopo aver rubato pochi soldi e il cellulare, e gettato l’arma nella vasca.

«L’ho fatto in un momento di ribellione, di rabbia», avrebbe detto il ragazzo ai poliziotti. Voleva solo «punire», non uccidere quell’uomo elegante ed esperto che lo aveva sottoposto ad una prestazione sessuale diversa da quella immaginata. El Hilaly ha giurato di non aver saputo della morte di Aiudi fino al momento in cui gli agenti sono andati a prenderlo a Como. Il pm ha dichiarato che «Il delitto è nato da un conflitto su una prestazione omosessuale». Adesso la squadra mobile della città lariana sta ora lavorando su una serie di analogie che sembrano accomunare l’omicidio di Pesaro con la morte, avvenuta in circostanze non del tutto chiarite il 24 marzo scorso a Como del 60enne Federico Vaghi. L’uomo, che aveva frequentazioni omosessuali con giovani extracomunitari fu trovato morto nel suo letto, nudo.

 

Omicidio Aiudi, alcune riflessioni.

Di Duccio Paci – “Notizie Omosessuali Italiane”, 12 Settembre 2000

 

Dopo il forte scalpore e sgomento che ha travolto la comunità cittadina ed il mondo gay per la brutalità ed insensatezza dell’assassinio di Maurizio Aiudi, noto e stimato professionista, è forse il caso di ragionare sulle radici di tali violenze di cui, fin troppo spesso, gli omosessuali sono vittime.

Gran parlare si è fatto, da molte parti, sulla necessità di indagare negli “ambienti omosessuali” col rischio costante di confondere le vittime della violenza con i loro autori in una confusione perversa per cui una condizione di emarginazione sociale viene considerata movente di crimini.

Aiudi non era, socialmente e professionalmente un emarginato: professionista affermato e stimato, benestante, ben inserito nella comunità cittadina e nel suo vicinato. Ciononostante, come la gran parte degli omosessuali, si è trovato a condurre la propria vita affettiva e sessuale in contesti di marginalità sociale, con tutte le difficoltà ed i pericoli a ciò connessi fino all’assurdità di una morte tanto inutile quanto atroce. I cosiddetti “ambienti omosessuali” sono purtroppo quasi inesistenti: tre locali in tutta la regione, alcune associazioni, una decina di luoghi di incontro all’aperto, per lo più agibili solo nella bella stagione; la stragrande maggioranza degli omosessuali vive la propria vita affettiva e sessuale al di fuori e di nascosto dai più comuni ambiti di relazione in cui comunque trascorre la maggior parte del proprio tempo: la famiglia, il contesto lavorativo o scolastico, le amicizie.

Anche di Aiudi si è elogiata la “discrezione”, che però, al di là delle comuni e necessarie regole di convivenza e buon vicinato, non è risultata così marcata da permettere ai suoi assassini di sparire dietro un muro di silenzio e di una vita segreta. Come è ben noto è proprio dalla difficoltà delle vittime a denunciare i soprusi che subiscono che molte violenze traggono alimento e forza. Si tratti di maltrattamenti a minori, violenze alle donne o, come in questo caso, verso gli omosessuali, il copione è sempre tragicamente simile; per anni le donne (e troppo spesso tutt’oggi) hanno subito violenze in silenzio consapevoli che una loro eventuale denuncia, al di là degli esiti giudiziari, avrebbe comunque fatto cadere loro addosso uno stigma sociale tanto feroce quanto la violenza subita. Verso gli omosessuali la discriminazione sociale è pesantissima e, nel momento stesso in cui una persona diviene consapevole della propria omosessualità si trova di fronte alla scelta se nasconderla o meno alle persone con cui abitualmente si relaziona: scelta fin troppo spesso obbligata di fronte alla pressione di un razzismo omofobico ancora dominante e nei cui confronti il singolo, spesso egli stesso intriso di valori negativi verso l’omosessualità, ben difficilmente trova il coraggio di ribellarsi apertamente col rischio di veder compromessi affetti familiari, amicizie, rapporti di lavoro.

Certo sempre più spesso e sempre più omosessuali decidono di vivere allo scoperto la propria omosessualità, pagando di solito un pesantissimo scotto in termini di relazioni sociali, opportunità lavorative, serenità di vita: i casi di studenti che abbandonano gli studi, di persone che vengono licenziate o si trovano comunque forzate a cambiare lavoro, di ragazzi segregati in casa dai loro familiari (quando non addirittura buttati, minorenni, fuori di casa o costretti a terapie coatte tanto inutili quanto dannose ed illegali) fanno parte del vissuto quotidiano degli omosessuali italiani. A tuttora la gran parte degli omosessuali si trova gettata in un limbo di marginalità sociale da cui è difficile uscire: frequentare i pochi spazi dichiaratamente omosessuali può portare ad involontarie quanto catastrofiche rivelazioni; cosa raccontare agli amici, ai genitori, ai colleghi se, come anche quest’estate è capitato, la propria automobile viene vandalizzata nel parcheggio di un locale gay? Senza contare che fino a pochi anni fa erano le stesse forze dell’ordine che, contro ogni principio di libertà individuale, compivano controlli nei luoghi di incontro gay minacciando di comunicare ai familiari di quanti venivano fermati la loro presenza in “quei” luoghi. Oltre tutto, data l’esilità della rete delle associazioni omosessuali per molti è pure difficile entrare in contatto con tale rete: le stesse pubbliche amministrazioni si mostrano spesso ostili a pubblicizzare la presenza di associazioni omosessuali nel loro territorio, quando non arrivano esse stesse a ritenere una pubblica vergogna una presenza omosessuale visibile.

Così la condanna all’invisibilità sociale e con essa all’emarginazione si riproduce e troppo poco ancora si sta facendo per rimuoverla. Migliaia di cittadini (il cinque per cento della popolazione, secondo l’organizzazione mondiale della sanità, in pratica uno studente in ogni classe di ogni scuola superiore) vivono di nascosto la propria vita affettiva e sessuale (quante coppie di ragazzi potrebbero permettersi di passeggiare tenendosi per mano per il corso di Pesaro, o scambiarsi effusioni in un giardino pubblico, in un locale, al mare, senza subire immediate reazioni di aggressione, dileggio e minaccia?). Una vita di paura e di segreti, spesso limitata ad incontri occasionali ed a contesti sociali marginali in cui anche quella protezione cui normalmente siamo abituati viene meno assieme a quella dignità umana e sociale che ad ogni persona, sempre, dovrebbe essere garantita.

Duccio Paci, Presidente Arcigay Agorà Consigliere Nazionale Arcigay

 

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