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Aggiornato
Venerdì 26-Gen-2007
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Un
incontro occasionale con un tossicodipendente finito in tragedia per un raptus
causato dalla droga
L'assassino palestinese trovato grazie al cellulare della vittima
15 Gennaio 2005
MILANO – «Ero drogato, non capivo più nulla. Ho afferrato un sasso e gli ho fracassato la testa». È crollato dopo ore di interrogatorio l'assassino di Dario Foà, il medico 58enne direttore del servizio area penale carceri dell'Asl di Milano. È un palestinese di 36 anni, Sayed Samir, clandestino, sbandato, in Italia da soli otto mesi. Il medico di San Vittore l'ha agganciato lunedì sera alla stazione centrale. Era imbottito di droga, avendo appena ingerito sei pastiglie pagate mezzo euro l'una e aveva voglia di fumare. Ha chiesto una sigaretta a Foà, che gliel'ha offerta. Poi l'ha fatto salire in auto, sulla Golf grigia e si è diretto con lui verso la stradina sterrata di Mediglia, dove ha trovato un'orribile morte. Un incontro occasionale, la trasgressione di una sera è dunque costata la vita allo stimato psicologo delle carceri. Anche se non è chiaro cosa abbia scatenato la furibonda lite sfociata poi nel delitto. Probabilmente una o più avances del medico non gradite dal palestinese, che ha reagito come una furia. A lui i carabinieri del Nucleo operativo e della compagnia di San Donato, davvero bravi a risolvere un caso così delicato in meno di 48 ore, sono arrivati seguendo i tabulati telefonici. La traccia lasciata dal cellulare, che il palestinese si è portato via insieme al portafoglio, è stata decisiva per mettere le manette ai polsi sia all'assassino sia a un egiziano di 31 anni, Hani E.S., fermato per ricettazione. È a lui, infatti, che il palestinese ha dato il telefonino e lui, l'egiziano, se lo è tenuto e lo ha usato, pur sapendo che era macchiato del sangue del medico ucciso. Ma dai tabulati telefonici emerge anche un particolare drammatico e straziante, che coinvolge la figlia di Dario Foà, Caterina, 20 anni. Legatissima al padre, lunedì sera non lo vede tornare a casa, nonostante avessero un appuntamento, e comincia a tempestarlo di telefonate. Sono le 21.17, il padre è già morto. Dopo decine di squilli a vuoto, risponde l'assassino. «Chi è lei? – gli urla disperata la ragazza – che ci fa con il cellulare di mio padre?». Il palestinese fa lo gnorri: «Telefonino mio, io comprato a cinquanta euro». Ma la ragazza lo incalza: «Non è vero – grida – mi dica chi è lei oppure chiamo i carabinieri...». A quel punto il palestinese attacca, lasciando che la ragazza continui a chiamare, inutilmente. Ricostruito, sempre grazie ai tabulati e alle indagini dei carabinieri, il percorso fatto dal palestinese dopo l'omicidio. Preso l'autobus sulla Paullese, sale sulla metro al capolinea di San Donato e scende in piazzale Maciachini, da dove poi raggiunge a piedi piazzale Bausan. Qui incontra l'egiziano, a cui cede il telefonino e altri immigrati clandestini. Poche ore dopo la piazza brulica di carabinieri in borghese. Ma individuare l'assassino non è semplice. Il cellulare è spento. Finché, mercoledì mattina, viene riacceso. Subito i carabinieri compongono il numero e a rispondere è l'egiziano, che viene accerchiato e bloccato insieme ad altri otto, tra cui il palestinese. Finiscono tutti al comando di via Moscova. L'egiziano viene torchiato a dovere. Prima nega e poi crolla, facendo il nome del palestinese. E anche il palestinese non regge a lungo. Le domande degli investigatori sono incalzanti e stringenti. L'immigrato confessa tutto: «Ho ucciso io il medico. È stato un raptus». |
Caso Dario Foà. Tutti i media: delitto a sfondo sessuale. Gli inquirenti: non è vero. Il Tg2: era un deviato
Di Susanna Ripamonti, “L'Unità”, 18 Febbraio 2005
MILANO. Da tre giorni, da quando si è diffusa la notizia dell’assassinio di Dario Foà, il medico del carcere di San Vittore ucciso la sera di San Valentino, telegiornali, agenzie di stampa, quotidiani tendono ad accreditare l’ipotesi di un delitto a sfondo sessuale. L’insinuazione è talmente esplicita che ieri anche l’Arci gay si è sentita in dovere di intervenire, replicando al Tg2, che addirittura ha definito Foa come «medico deviato». E ancora ieri, dopo la conferenza stampa fatta dai carabinieri di San Donato, che hanno chiuso il caso arrestando l’assassino (reo confesso) agenzie e tigì dicevano: «ucciso da un tossicodipendente con cui si era appartato. Da un drogato come quelli che, a centinaia, aveva aiutato nel corso della sua lunga carriera di operatore sociale». Ma il capitano Poddighè, comandante della compagnia dell’Arma di San Donato smentisce in modo categorico di avere elementi per affermare che il sesso è il movente dell’assassinio. «Per quanto mi riguarda questa è un’ipotesi giornalistica, che non abbiamo in nessun modo accreditato. Quello che possiamo dire con certezza è che l’assassino, che si fa chiamare Samir, lo ha colpito a scopo di rapina. Che era convinto di averlo solo tramortito, e infatti gli ha tolto le scarpe e ha gettato via le chiavi dell’auto per rallentare una sua richiesta di soccorsi. E che gli ha rubato soldi e cellulare, che ha rivenduto poco dopo. Questa per altro è la sua attività: è uno che vive vendendo cellulari rubati». Ora, se le cose stanno così, o se comunque nessuno tra gli inquirenti ha ancora accertato un movente del delitto diverso dalla rapina, per quale motivo si sta infangando l’immagine di Dario Foa? Il medico è stato ucciso lunedì scorso, in un campo a San Martino Olearo, vicino a Mediglia. L’ultima a vederlo vivo era stata una sua collega, che lo aveva accompagnato, verso le 18,30 vicino a Corso Italia. Lui scende dall’auto, a piedi. Va a casa a prendere l’auto, un percorso che camminando di buon passo si può fare in un quarto d’ora. Poco dopo le 19, stando alla ricostruzione fatta dagli inquirenti è alla stazione centrale ed è lì che incontra il suo assassino. I carabinieri non possono escludere che lo conoscesse. L’uomo, di 36 anni, dichiara di aver agito sotto l’effetto della droga, di aver preso delle pastiglie. Ma poi afferma anche - questo riferiscono i carabinieri - che era affamato, che avrebbe avvicinato il medico chiedendo una sigaretta. Dario Foa è una persona che da anni lavorava con detenuti tossicodipendenti, li conosceva bene e non era assolutamente uno sprovveduto. È impensabile - dicono i suoi colleghi - che proprio lui potesse esporsi a un pericolo che sapeva riconoscere a occhio nudo. Ma c’è un’altra circostanza che porta ad escludere che abbia deciso di «appartarsi» con un tossicodipendente «rimorchiato» alla Stazione Centrale (perchè è questo che si è accreditato finora). Gli amici che lo conoscevano ricordano lo scrupolo con cui avvisava a casa per eventuali ritardi. Quella sera sua moglie non c’era, a casa c’era solo la figlia ed è proprio lei ad allarmarsi perchè il padre non rientra senza avvertire. Cerca di rintracciarlo sul cellulare, prima il telefono suona a vuoto, poi risponde una persona con accento straniero. Cade la linea, più tardi la ragazza riesce ancora a mettersi in comunicazione con un tale. Gli dice che quello è il telefono di suo padre, gli chiede come fa ad esserne in possesso. Lui risponde che glielo hanno rivenduto mezzora prima per 50 euro. Questo secondo uomo è l'egiziano Hani E.S., di 31 anni, fermato per ricettazione, che ora rischia l'accusa di favoreggiamento. I carabinieri lo hanno individuato seguendo le tracce dei tabulati telefonici e lui ha fatto il nome di Samir, palestinese, che ha confessato l’omicidio. I carabinieri di San Donato hanno individuato il colpevole in sole 48 ore, la magistratura di Lodi ieri ha interrogato i due arrestati, ma il caso non è chiuso: dinamica e movente sono ancora tutti da accertare e forse è anche il caso di accertare perchè Dario Foa è stato ucciso una seconda volta, facendo scempio della sua immagine, dei suoi affetti, di quel minimo di garbo e riservatezza che sarebbe dovuto ai suoi cari. |
Di Giusi Di Lauro – “Libero”, 18 Febbraio 2005
MILANO - L'ultimo giorno di vita del dottore Dario Foà racconta un pezzo non solo della sua biografia, ma anche un po' di Milano. Quella del Rotary club, della società Pedemontana e della Tangenziale est, del settore Famiglia della Regione Lombardia, come quella dell'Asl, e quella ancora del Museo della Scienza e della tecnica e del Telefono Azzurro, apparsa puntuale a confondere la stima con l'affetto sui necrologi del Corriere della Sera, un mesto curriculum post mortem del rispettato professionista. Racconta anche quella Milano di piazza Bausan, via Fara, via Amedeo d'Aosta, piazza Trento, a formare, si direbbe in "sociologhese", la topografia della devianza. Luoghi, tutti lo sanno, dove è facile trovare «marchette» , uomini pronti a concedere i propri servizi ad altri uomini. Per pochi euro. In mezzo alle due città, può esserci, come in questa storia, un campo pietroso praticato solo dagli agricoltori e dai loro trattori, uno di quei posti dove il mondo sparisce, si è nudi con i propri desideri. Il cellulare si spegne, e con lui la famiglia e i colleghi. Soli. E allora si accetta il rischio di diventare un cadavere con il cranio sfondato, una citazione minore del delitto Pasolini. Non siamo a Ostia, ma a San Martino Ollearo, una frazione di una frazione, vicino San Donato, sud di Milano. E il protagonista è un notabile della città. Il direttore dell'area penale dell'Asl. Lo psicologo che coordina gli interventi sui detenuti tossicodipendenti. Ucciso la sera di San Valentino. Nessuno dei carabinieri, riuniti a spiegare la soluzione del caso dello psicologo ucciso la sera di San Valentino, riesce a dire la verità. Si limitano a ricostruire le ultime ore di vita del dottore, a spiegare minuziosamente i movimenti del suo telefono cellulare, funzionanti da inequivocabile traccia. Senza dire quello che poi si scopre nel corridoio, tra le indiscrezioni, che a dare la dritta sull'assassino del professore è stata proprio la sua compagna. Lei conosceva il segreto del suo uomo, con cui vive da 25 anni, ma non osava confessarlo a se stessa, e ora doveva rivelarlo a sconosciuti in divisa, perché ormai quel vizio era diventato materia di un omicidio, un fastidioso movente. E la fine di Dario Foà, 59 anni, originario di Napoli, milanese d'adozione, diventa una serie di orari da seguire su un taccuino di cronaca. Il professore esce dalla sua casa al 3 di corso San Gottardo, vicino ai Navigli, alle 17.10. Saluta la figlia. La compagna non c'è, è fuori città per lavoro. Dovrebbe rientrare il giorno dopo. Foà prende la sua golf grigia, sul sedile posteriore ha piegato bene il suo cappotto. Arriva alla stazione Centrale, sono circa le 19. Vede alcuni ragazzi, tra questi uno alto. L'approccio con Sayed «Hai una sigaretta?», gli chiede in italiano stentato. Questo è l'approccio. Foà dice di sì, questo lo immaginiamo, visto che di lì a poco, l'uomo sale a bordo dell'auto del professore. Entrambi sono ora in macchina: alle 19.30, il cellulare aggancia la cella telefonica di viale Forlanini, zona sud, la direzione è quella dove sarà ritrovato il cadavere, lo dicono i tracciati studiati nei minimi dettagli dai carabinieri. Alle 20.00, il telefono è muto, non risulta acceso. E qualcosa sta succedendo. Della cosa se ne accorge, con un presentimento che sanno avere solo i familiari, la figlia. Chiama, spento. Chiama ancora fino a risentire squillare il telefono, alle 21.17. Il tabulato dice che il cellulare ha agganciato Peschiera Borromeo, ancora vicino al luogo del delitto. Non risponde nessuno. Al terzo tentativo risponde qualcuno. Farfuglia, non parla italiano, dice solo «io comprato telefono, pagato 50 euro». L'accento, dirà la figlia di Foà, è nordafricano. Poi lo spegne. Alle 22.30 lo stesso telefonino ma con un'altra scheda, un altro numero di telefono, ricompare in piazza Bausan, stazione Bovisa. Ecco la traccia. Martedì notte, in forze, carabinieri in borghese osservano i movimenti della piazza. Individuano un gruppo d'immigrati nordafricani. Li seguono. Intanto il cellulare non dà più segnali. La mattina dopo, mercoledì, però, si rivede di nuovo nei tracciati il cellulare di Foà, con un numero nuovo. È localizzato ancora in zona Bovisa. I carabinieri sono lì. E provano a chiamare al numero. Uno degli uomini risponde. E si tradisce. Scatta il raid, i militari prendono 8 extracomunitari e li portano in caserma. La confessione dell'omicida. Il primo ad essere interrogato è quello che ha risposto al telefono. È un egiziano di 31 anni, parla male, ma mostra di comprendere bene la situazione. Si contraddice, alla fine rivela che quel maledetto telefono gliel’aveva venduto quello là, il palestinese, rimasto in corridoio. Comincia, quindi, il suo interrogatorio. Il palestinese nega tutto. Dice solo di avere 36 anni, di essere di Gaza e di chiamarsi Sayed. Poi sta male, racconta di avere preso delle pasticche di ecstasy. Poi continua a negare, a non parlare, infine è costretto a confessare, di fronte alle parole dell'egiziano, che sì, aveva incontrato Foà lunedì sera, dietro la stazione Centrale, che sì erano andati verso quel campo, ma non si ricorda nulla visto che anche quella sera aveva calato ecstasy. I due litigano, il motivo non si sa, si può immaginare. Scendono dall'auto, Sayed prende un masso di dieci chili e lo scaglia alla nuca del dottore, dall'alto in basso. Foà cade, tramortito, non ancora morto. Il palestinese, allora, gli prende il portafoglio e il cellulare. Sveste il corpo di Foà delle scarpe, getta lontano le chiavi dell'auto, non si sa mai che si risvegli e lo insegui. Poi raggiunge la statale, sale sul bus che va a San Donato, prende il metrò e torna in città. Lasciandosi dietro il corpo di un uomo sconosciuto, incontrato per caso. Con il riconoscimento del cadavere, poi quel corpo ridiventerà il nome di un uomo. E una storia privata si trasformerà in pubblica. |
Il
palestinese ha affermato di aver respinto un approccio non gradito e di essersi
difeso
Il giudizio finale su quello che è successo - ha ripetuto il palestinese
durante la sua confessione - lo lascio ad Allah
Di Fabio Bonaccorso – “Il Cittadino”, 19 Febbraio 2005
Mediglia - «Non pensavo di averlo ammazzato, volevo solo difendermi, non volevo assassinare nessuno» ha detto Samir M. il palestinese di 36 anni che la sera di San Valentino, nei campi attorno a Mediglia, ha ucciso a colpi di pietra Dario Foà, responsabile del servizio carceri dell’Asl di Milano Città. L’altro ieri, nelle oltre cinque ore di interrogatorio con il pubblico ministero Ilaria Sanesi, lo straniero ha sostenuto di aver respinto un approccio e da lì sarebbe partita la zuffa conclusasi con la morte del medico. Anche se, secondo l’avvocato difensore Maria Rosaria Sciurpa, rimane da verificare quanto la reazione di Samir e la sua interpretazione del comportamento di Foà siano state condizionate dall’effetto delle pasticche di droga ingerite quel giorno. Fino all’ultimo e anche durante la confessione al pm, lo straniero era convinto che Foà fosse ancora vivo e che gli inquirenti lo volessero solo incastrare: «Non ci credo che è morto. Voglio vedere il cadavere». Aggiunge l’avvocato Sciurpa: «Lui è convinto di averlo lasciato vivo. Infatti gli ha tolto le scarpe e ha buttato via le chiavi della macchina proprio per non farsi inseguire. Aveva paura di quello. Se lo scopo era la rapina, avrebbe potuto prendere l’auto e andarsene. Invece si è allontanato a piedi, portandosi via il telefonino, ma senza prendere il portafogli. Lui dice che quello non l’ha toccato». Samir si è descritto come spaventato e confuso per colpa della droga e della scarsa comprensione dell’italiano. Ed è proprio la poca dimestichezza con la lingua di un paese dove era solo da qualche mese che avrebbe causato, secondo la versione dell’assassino, l’equivoco sulle reali intenzioni di vittima e carnefice. Il palestinese ha raccontato di aver visto il medico per la prima volta la sera di San Valentino in stazione centrale a Milano. Gli ha chiesto una sigaretta e Foà, i cui funerali saranno celebrati oggi pomeriggio alle 15, glie l’ha data. Poi lo straniero avrebbe detto di essere affamato e, sempre secondo la sua ricostruzione, il medico si sarebbe offerto di portarlo a casa per un panino. «Un invito - commenta l’avvocato Sciurpa - che nell’ambito di una mentalità mediorientale poteva essere interpretata come semplice ospitalità». Le cose sono cambiate però quando con la macchina i due hanno raggiunto i campi di Mediglia. A quel punto si è consumato il dramma. Una delle ipotesi di accusa è che lo specialista milanese sia stato ucciso durante un tentativo di rapina. Mentre il palestinese ha affermato di aver respinto un approccio non gradito e di essersi difeso, anche se poi ha spaccato il cranio del dottore con una pietra di una decina di chili. Per verificare la versione della zuffa, la procura di Lodi ha ordinato un’autopsia sulla salma, eseguita ieri, i cui risultati saranno pronti fra un paio di mesi. Mentre lunedì mattina Samir verrà interrogato dal gip Alessandro Conti per la convalida del fermo ordinato dal pubblico ministero. «Ma il giudizio finale su quello che è successo - ha ripetuto il palestinese durante la sua confessione - lo lascio ad Allah». |
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