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Aggiornato
Venerdì 26-Gen-2007
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La confessione-choc di un «ragazzo per bene»
“La Stampa”, 11 settembre 2001
Quattro bravi ragazzi. Nati e cresciuti in periferia: case popolari e orgoglio da vendere. Lavoratori certamente lo sono: uno fa il decoratore, l’altro si sfianca in un mobilificio, il terzo va a girare calce e portate mattoni in un cantiere. Eccoli qui quelli che hanno picchiato e rapinato Simone, il giovane omosessuale genovese. Delinquenti? Diresti proprio di no. L’alloggio di via Verolengo, dove abita Marco Persiano, è quello di una casa popolare. «Mio figlio lavora dall’età di quattordici anni. Con mio marito che ha un’impresa di decorazioni. Guadagna bene e non ha mai avuto un guaio con la giustizia. E di soldi non ne ha mai avuto bisogno: non ha ancora la patente e già lì sotto in cortile c’è la sua macchina parcheggiata. Mi chiedo perché si è messo in tasca i soldi di quel ragazzo». Hanno tutti una storia normale i tre ragazzi arrestati l’altro giorno dai poliziotti del commissariato di Rivoli. Le giornate le passano a spaccarsi la schiena con lavori di fatica. E la sera, come tutti quelli della loro età, escono. Una birra al pub, le ragazzine, qualche volta al cinema o in discoteca. E la nuova moda sono gli Internet cafè. Come lo Space Cyber di Collegno. Lì, l’altra settimana, c’era anche Simone, che si fingeva donna, salvo poi rivelare la sua vera identità. «Non dite che sono razzisti, o che ce l’hanno a morte con i diversi. Non è vero. Hanno fatto una stupidaggine, non sono cattivi», dicono la mamma di Marco e la sorella di Alfredo La Rosa, che nel quartiere tutti chiamano Giovanni. «E poi erano stati provocati da quel tipo...» aggiungono. Chi sa tutto è «Gargamella», cioè il minorenne che manca all’appello. Lui non fa mistero che quella notte c’era pure lui. «Ma» - dice - «ho paura ad andare alla polizia. I miei amici li hanno arrestati e io non voglio finire in galera». Capelli castani tinti di biondo, viso da bambino, non si fa pregare per racconta la sua verità su quell’aggressione. «Al Cyber ci andiamo spesso. E quel tipo ci aveva già dato fastidio la sera prima. Si spacciava per una donna e poi alla fine ci ha detto che era un maschio ed era gay. Ma noi lo avevamo ignorato. E la sera dopo è tornato all’assalto». Eccolo il suo racconto. «Io chattavo con un Vincenzo. Gli altri due erano ad un altro video. Ad un certo punto quello ci ha rimandato dei messaggi e allora Marco si è alzato ed è andato a dirgli di non romperci più. Perché noi sapevamo bene chi era e che non volevamo avere nulla a che fare con lui. Erano le 23. Poi noi siamo usciti e quello ci ha seguiti. E ha ripreso a darci fastidio, a fare apprezzamenti su di noi. Ci ha detto che eravamo dei bei ragazzi. Che lui voleva qualcuno. E altre cose di questo tipo. Poi, non so il perché, "Giovanni" si è allontanato con quel ragazzo e, alla fine, i tre grandi lo hanno picchiato». Della rapina racconta di non sapere nulla. «Non so se il portafoglio glielo hanno sfilato dalle tasche o se lo hanno trovato per terra. So soltanto che Giovanni glielo ha restituito. Ci siamo divisi i soldi; a me, però, hanno dato soltanto 5 mila lire...». Un racconto che, a grandi linee, coincide con quello fatto dai tre, ieri mattina al gip Gallone. Assistiti dagli avvocati Molinengo e Peila hanno cercato di spiegare che è stata soltanto una bravata. Si sono messi a piangere. Hanno tentato di scusarsi. Ma quell’aggressione non ha scuse e la rapina tantomeno. |
Il «branco di Collegno» tradito da una bionda virtuale
Di Patrizio Romano - “La Stampa”, 11 settembre 2001
COLLEGNO Ha il naso fratturato ed ematomi su tutto il corpo. La notte di giovedì scorso in quattro lo hanno pestato a sangue e derubato. La sua colpa? Essere omosessuale e avere incontrato quattro ragazzi, brutte copie di un «arancia meccanica» di periferia. Piccole storie di brutale intolleranza e violenza: nel film un anziano barbone, qui un giovane gay. Simone, 33 anni, residente a Genova, da alcuni mesi sta a Torino, la sua casa è una macchina, una Fiat Panda. Non ha un lavoro, vive alla giornata. E l’altra sera era nella birreria di Via Portalupi 6 a Collegno. Al «Space Cyber Pub», inaugurato alcuni mesi fa, si «chatta». Dai computer collegati alla rete si possono fare nuove amicizie e forse trovare compagnia per una serata. Simone è lì, seduto di fronte alla tastiera con una birra. Scrive messaggi nascondendosi dietro un nome fittizio, un nickname come lo chiamano i navigatori di Internet. Finge di essere una donna e qualcuno risponde. Lo scambio di messaggi dura a lungo. Il tempo che serve a Stefano per confessare di essere gay e di voler conoscere il suo nuovo «amico». Alle 2 di notte, finalmente, l’appuntamento. Dietro al locale, in una via buia. Un incontro al buio in tutti i sensi. Quando Stefano arriva, però, ci sono quattro giovani ad aspettarlo. Si conoscono bene, sono amici da tempo, abitano in un quartiere alle porte di Torino, nei palazzoni tra via Verolengo e via Borgaro. Si parano davanti ed iniziano a strattonarlo. Gli chiedono che cosa cercava, se pensava che fossero come lui. Lo insultano. Lo prendono in giro. Lo provocano. Basta un nulla e poi il branco, formato da quattro giovani tra i 15 e i 23 anni, inizia a colpirlo. Calci e pugni, anche quando è per terra con il volto trasformato in una maschera di sangue per il naso fratturato. «Vediamo un po’ cosa hai rimediato questa sera» dicono e si fanno dare il portafogli. Simone è spaventato. Anche se gridasse nessuno potrebbe sentirlo per dargli aiuto. Prendono le ottanta mila lire e gli tirano in faccia i documenti. Lui resta rannicchiato per terra. Quando vanno via si alza e in macchina raggiunge il Pronto Soccorso dell’ospedale di Rivoli. Frattura al setto nasale, ecchimosi su molte parti del corpo e 30 giorni di prognosi, questo scrivono i medici sul referto. E il foglio finisce sulla scrivania del commissariato di largo Pistoia a Cascine Vica. Simone viene trovato dagli agenti e racconta la sua storia. La serata nel Pub, vicino al quale sembra che dorma sulla sua auto, e poi le botte, tante senza ragione, se non quella di essere visto come un diverso. Scatta la trappola per arrestare i quattro. Nel locale la sera dopo arrivano i poliziotti. Sono in borghese e hanno memorizzato la descrizione dei quattro. Aspettano per ore, ma del branco neanche l’ombra. Stanno quasi per rinunciare, quando fanno un ultimo tentativo. Simone li ha abbordati con il computer e chissà... Chi ha la passione per la chat non sa resistere. E un agente finge di essere una bionda avvenente e invia un messaggio ai loro nickname. La risposta non tarda ad arrivare. E riprende il gioco, come la sera prima, inviti, allusioni, fino all’abboccamento. Lì, di fronte al Pub «Arriveremo in moto, aspettaci», scrivono. Pochi minuti ed eccoli. Sono in due e scendono da un fuoristrada. Riconoscerli non è difficile ai poliziotti. Così come ricostruire il gruppo. Il terzo viene prelevato a casa, alle 4,30 del mattino, sta dormendo e non capisce neanche di che cosa lo accusino. Marco Persiano, 18 anni appena compiuti, Vincenzo Agosto, 20 anni, Alfredo La Rosa, 23 anni: questi i nomi dei ragazzi del branco. Il quarto, un minorenne, le forze dell’ordine lo stanno cercando ancora. Di lui si sa solo il nome di battesimo. I primi due sono incensurati, mentre La Rosa ha dei piccoli precedenti. Insomma, all’apparenza quattro bravi ragazzi, che fanno piccoli lavoretti. Cameriere, muratore, imbianchino... quello che capita. E quando si trovano alle strette, indiziati di un reato grave come quello di rapina non riescono proprio a capacitarsi. «Lo sappiamo perché ci arrestate - dice uno di loro -, ma noi non credevamo fosse un reato picchiare un omosessuale». «Mica si finisce in galera per una cosa del genere?» domanda un altro agli agenti che lo portano via. Insomma, per loro quello è stato quasi uno scherzo, una goliardata andata un po’ oltre. «Però quello ci voleva provare» cercano di scusarsi. «Ma come, l’altra sera in una rissa ho dato una coltellata ad un tipo e mi arrestate per questo fatto?» dice in dialetto calabrese strettissimo e proprio non riesce a capire questa strana giustizia. |
Rivoli: arrestati tre dei teppisti, il quarto è minorenne
Di Meo Ponte - “La Repubblica”, 11 settembre 2001
Ora «Gargamella» che ha appena quindici anni dice che giovedì sera lui e i suoi tre amici hanno reagito alle insistenti «avances» dell'uomo che in chat aveva detto di essere Giada, bionda e «in cerca di veri maschi». Ha paura Gargamella che è chiamato così perché è il più piccolo del gruppo di amici e non solo d'età. «Alto come un puffo» dicono nel quartiere di Via Verolengo. Ha paura perché i suoi tre amici, poco più che maggiorenni, sono finiti in carcere e con accuse pesantissime: rapina in concorso e lesioni. L'uomo che in rete si diceva Giada è stato infatti ritrovato all'ospedale dagli agenti del commissariato di Rivoli con il naso rotto, contusioni varie e il portafoglio vuoto. Simone G., 33 anni, arrivato da Genova tre giorni fa e costretto a dormire in auto, ai poliziotti venerdì mattina ha raccontato: «Giovedì sera sono stato allo Spice Cyber di Collegno, un pub dove ci sono computer e video attraverso i quali si può «chattare». Ho finto di essere una ragazza, ho scritto di chiamarmi Giada, di essere bionda e di essere in cerca di uomini. Mi ha risposto un ragazzo e abbiamo conversato per un po'. Poi lui ha chiesto un incontro e a quel punto gli ho detto che ero un uomo e che ero gay. Lui ha risposto che era lo stesso e mi ha invitato fuori dal locale. Gli ho detto che mi avrebbe riconosciuto dalla maglietta, una Tshirt bianca con una foglia di marijuana e la scritta «Sono vegetariano». In un angolo buio però mi aspettavano i suoi tre amici che mi hanno pestato e poi preso le 80 mila lire che avevo in tasca, gettandomi in faccia con disprezzo il portafoglio vuoto...». Poche ore dopo, fingendo di essere due ragazze conosciute in chat la stessa sera del pestaggio, gli investigatori hanno attirato allo Spice Cyber due degli aggressori, Marco Persiano, un decoratore che ha compiuto 18 a luglio e Vincenzo Agosto, 20 anni, muratore e li hanno arrestati. E più tardi in manette è finito anche Giovanni De Rosa, 23 anni, che alla vista dei poliziotti ha esclamato sorpreso: «Che abbiamo fatto di male? Abbiamo solo pestato un finocchio!». Gargamella è sfuggito alla trappola e ora che i suoi tre amici, benché tutti incensurati, sono finiti in carcere racconta una storia un po' diversa: «Quel tipo già la sera prima si era inserito nella chat dicendo di essere Giada, bionda e bella. Giovedì sera ha chattato per un po' con Marco Persiano che però si è accorto che era un uomo seduto in un tavolo poco distante e gli ha detto di smetterla di infastidire. Però quel tipo ci ha seguito quando siamo usciti dal locale dicendo che lui era gay e che gli piacevano i bei ragazzi come noi. Gli abbiamo detto di smetterla ma lui insisteva e allora sono volati gli schiaffi...». A strappare alla vittima il portafoglio, più per umiliarlo che per cupidigia, è stato Giovanni De Rosa che poi ha candidamente confessato alla polizia di aver diviso le 80 mila lire con i tre amici, rendendoli tutti complici della rapina. Ieri i tre sono comparsi davanti al gip e i loro avvocati hanno chiesto per loro gli arresti domiciliari. «Si tratta di tre ragazzi che non hanno mai avuto problemi con la giustizia e che dopo qualche giorno in carcere sono comparsi in tribunale piangendo» sottolinea l'avvocato Molinengo che difende Marco Persiano. I più sorpresi da quanto accaduto sono però i familiari dei tre che abitano tutti in via Verolengo. «Mio figlio è un bravo ragazzo - giura la madre di Marco Persiano - Non riesco a capire perché si sia cacciato in questa brutta storia. Probabilmente le avances di quel tipo devono essere state piuttosto pesanti». E la sorella di Giovanni De Rosa aggiunge: «Mio fratello è stato arrestato alle quattro del mattino come se fosse un criminale pericoloso ma lui lavora in un mobilificio e non ha mai avuto problemi con la giustizia». |
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