|
||||||||
|
||||||||
Regista (New York, USA, 1919 - Boston, Massachussets, 28 settembre 1997)
Shirley Brimberg, probabilmente uno dei più grandi registi del New American Cinema. Danzatrice e coreografa d’alto livello con Anna Sokolow e Martha Grahame, inizia la sua carriera cinematografica realizzando negli anni ‘50 alcuni cortometraggi interessanti ma non proprio irresistibili legati in parte alla sua formazione artistica: “Dance in the Sun” (“Ballando nel sole”, 1953, con Daniel Nagrin), “In Paris Parks” (“Nei parchi di Parigi”, 1954, che riprende un bambino nei giardini di Parigi) “Bull fight” (“La lotta del toro”, 1955), “Moment in love” (“Momento d’amore”, 1957, con Anna Sokolow), “The Skyscraper” (“Il grattacielo”, 1958, che riprende la costruzione di un edificio) “Loops” (“Occhielli”), “Bridges-Go-Raund” (“Giostra di ponti”, 1959, che ritrae i ponti di New York, in sovrimpressione), “A Scary Time” (“Un tempo spaventoso”). L’estetismo di questi film lascia intravedere ben poco di quel “realismo” che colpirà nelle opere successive. “The Connection” (“Il contatto”, 1962, basato su una commedia di Jack Gelber trasposta dal Living Theatre), prodotto indipendente incentrato su alcuni emarginati che aspettano la consegna dell’eroina mentre un filmaker di documentari li riprende, è un falso cinema diretto perché i protagonisti, compresi i componenti del cast preposti a filmarli, sono quasi tutti attori e anche se sembrano improvvisare in realtà recitano. La tecnica (piani lunghi, suono in sincrono), poi, e l’audacia del soggetto affrontato, portano la Clarke al livello di quella che in Francia verrà definita la Scuola di New York. E infatti sarà, assieme a Mekas, una delle fondatrici del New American Cinema Group (28 settembre 1960) che non vuole più “film rosa, ma film del colore del sangue”. Nella sua opera successiva, “The Cool Word” (“Mondo freddo”, 1963), che affronta i temi del razzismo e i mali che affliggono il ghetto nero di Harlem (violenza, droga e miseria), si conferma originalissima regista capace d’intensità e insieme realismo critico. Nuovamente è un’abile commistione tra film-verità e fiction (il soggetto è tratto dal libro di Warren Miller). La tenace avversione per ogni forma di emarginazione e la passione per il documentario prende il sopravvento e nel 1967 porta a termine “Portrait of Jason” (“Ritratto di Jason”), lunga confessione di un omosessuale che si prostituisce ed esagera con le droghe e l’alcol. Nel 1969, Agnès Varda la vuole fra i protagonisti di “Lion’s Love” (“L’amore dei leoni”). Del 1985 è “Ornette: Made in America”, documentario che riprende un grande concerto del jazzista Ornette Coleman a Fort Worth nel Texas, al quale aveva dedicato anche il precedente “Jazz Video Games” (1984). Shirley Clarke ha soprattutto lavorato per le reti televisive via cavo americane.
|
|||||||||||||||||||||||||||||||||||
|
|||||||||||||||||||||||||||||||||||
Da “Dolci sorelle di rabbia – Cento anni di cinemadonna” di Pino Bertelli
Il film d’esordio della Clarke, “The Connection” (Il contatto, 1962) è una requisitoria contro la civiltà dell’opulenza e per contrasto, filma la vita disperata di alcuni drogati della periferia metropolitana (mescola attori e gente presa dalla strada). Il film è buono e anomalo. Non è cinema-verità e nemmeno un reportage cine-televisivo. È un film che rivela la finzione e quindi viola la sacralità del cinema. I difetti tecnici sono enfatizzati e le sovraesposizioni, le giunte fatte male, la voce della regista fuori campo... contribuiscono a fare di questo film di finzione una delle opere più significative e poetiche del cinema underground americano. Con “Cool World” (Mondo Freddo, 1963) e “Portrait of Jason” (Ritratto di Jason, 1967), Shirley Clarke entra di forza nella storia del cinema di diserzione ma gli schedatori universitari la infilano ai margini dell’avanguardia insieme ad Andy Warhol (un pezzente del mercato) che non c’entra nulla con la grandezza poetica della Clarke. In “Cool World”, l’ex-ballerina e coregografa newyorkese, racconta la quotidianità feroce di alcuni giovani delinquenti neri ad Harlem. Lo fa in modo spregiudicato. “Diretto” (anche se il soggetto è tratto dal libro di Warren Miller). La sua visione delle cose è tutta spostata verso la condizione emarginata di ragazzi di strada. “Portrait of Jason” è la confessione di un omosessuale nero, denudata di ogni ciarpame intellettualistico. Il linguaggio è quello del “cinema-verità”... macchina da presa leggera, sonoro in diretta, corpi che figurano le loro storie o quelle di un sottomondo metropolitano che li affoga nel perbenismo o li ghettizza nella violenza. Così vede il film Storn De Hirsch: «Una coreografia sfacciata e incisiva, una danza dell’ego umano in tutta la sua abbietta e bellissima povertà. Assistiamo a una rivelazione spietata di una personalità il cui fascino e malanimo sono sia irresistibili che esasperanti. È come guardare uno stripe-tease emozionante, con Jason che si sbottona in pubblico per rivelare (o nascondere) spudoratamente la sua volgarità, le sue vanità, le sue idee sessuali, la sua acida buffoneria, le sue conquiste, le sue sconfitte - un’affascinante completa, confessione, fino al profondo». Il cinema della Clarke ha la capacità, tutta femminile, di passare con disinvoltura estrema dal regno dell’insignificanza alla rabbia degli esclusi... dice che solo attraverso la trasgressione dell’immaginario costituito si può modificare e trasformare il linguaggio (non solo) delle donne in rapporto all’evoluzione paritetica dell’insieme sociale.
|
|||||||||||||||||||||||||||||||||||
|
|||||||||||||||||||||||||||||||||||
|