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Regista e attrice (Kiev, Ucraina, 29 Aprile 1917 - New York, USA, 13 Ottobre 1961)
Figlia di uno psichiatra, nel 1922 emigra negli Stati Uniti con la famiglia e frequenta l’Università di Syracuse di giornalismo e scienze politiche. Oltre a laurearsi in Arte all’Università di New York studia Lingua Inglese allo Smith College di Northampton. Conosce Katherine Dunham e il suo gruppo di danza. Si sposa in seconde nozze con il regista Alexander Hammid (Sasha, che in seguito le farà da operatore) e in coppia dirigono il corto “Meshes of the Afternoon” (“Reti del pomeriggio”, 1942), piccolo capolavoro che descrive con stile onirico il suicidio di una ragazza (interpretata da lei stessa). Da questo momento i suoi film “da camera” lirici e surreali, nei quali la danza e l’espressione corporea hanno spesso molta importanza, diviene uno dei maggiori esponenti del cinema americano d’avanguardia. Nel 1944 gira il primo corto da sola, “At Land” (“A terra”) e l’anno dopo “A Study in Coreography for Camera” (“Uno studio di coreografia per macchina da presa”). Nel primo troviamo tracce evidenti del surrealismo, da Cocteau a Buñuel, il secondo è la danza di un ballerino al rallentatore. Nel 1946 è la volta di “Ritual in Transfigurated Time” (“Rituale in tempo trasfigurato”) dove il ballo è ancora protagonista, segue “An Anagram of Ideas on Art, Form and the Film” (“Un anagramma di idee sull’arte. Forma e Film”, 1946) e “Meditation of Violence” (“Meditazione sulla violenza”, 1948) nel quale riprende un pugile sul ring. Ottiene una borsa di studio dalla fondazione Guggenheim grazie alla quale si trasferisce ad Haiti una decina d’anni durante i quali studia i rituali voodoo e nel 1953 gira “The Divine Horseman: The Living Gods of Haiti” (1953), un altro lavoro sperimentale (la fotografia è al negativo) sulla danza intitolato “The Very Eye of the Night” (“L’enorme occhio della notte”, 1959) e un film che la morte, avvenuta nel 1961 per emorragia cerebrale, le impedirà di montare. Attraverso le sue opere e i suoi studi, lascia al cinema indipendente americano, a detta di molti critici e registi underground, un grande insegnamento. Nel 1961 esce postumo “Witch ‘s Cradle” (“La culla della strega”) e nel 1975 un film costruito con la pellicola inutilizzata del suo “A Study in Coreography for Camera”.
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Da “Dolci sorelle di rabbia – Cento anni di cinemadonna” di Pino Bertelli
Negli anni ‘40, un’ebrea di origine russa, Eleonora Derenkovskij - meglio conosciuta come Maya Deren -, si sgancia dall’equazione produzione-distribuzione della “fabbrica delle illusioni” e affabula un genere di cinema fuori dai “generi”. Un cinema in forma di poesia. La Deren “scrive” sullo schermo una realtà filtrata dal sogno, dall’impalpabile, dall’etereo... un rallentamento della quotidianità messa a fuoco e legata a un “tempo della deriva” che è una comunicazione eversiva (non solo) della scrittura cinematografica. Quando ancora studiava allo Smith College, la Deren s’innamorò della poesia simbolista francese e studiò danza sotto l’ala protettrice di Katherine Dunham, della quale divenne segretaria. Nel 1943, a soli 23 anni, realizza “Meshes of the Afternoon” (“Reti del pomeriggio”) ed apre la strada a una “visione personale” dell’esistenza che aveva nel cinema surrealista europeo e nelle opere di Jean Cocteau (“Le sang d’un poète”) i riferimenti d’obbligo. Nel suo cinema a parte, la Deren mescola l’onirico al reale e nella distruzione della realtà spazio-temporale le sue immagini trovano rifugio in un immaginario (a tratti) letterario che la proietta là dove il mondo vero finisce in farsa. Cioè nell’arte di tutti i maneggi dell’arte al servizio dei mercanti delle idee. La sensibilità artistica, singolare, della Deren, le permise di esprimere un cinema efebico, androgino, quasi diafano, che riusciva a coniugare sullo schermo (con una certa ricchezza espressiva) il banale e il magico. Nel corso di 16 anni, con la collaborazione del marito, Alexander Hammid (Sasha) che le faceva da operatore, realizzò sei film ed altri restarono incompiuti. Le sue idee sul cinema sono sparse in due libri e nel 1954, organizzò alla Provincetown Playhouse di New York le prime proiezioni pubbliche di film sperimentali. Teorizzò la necessità di fare un “cinema indipendente” attraverso la “Creative Film Foundation”, che portò alla nascità del New American Cinema o del Cinema Underground dei fratelli Jonas e Adolphas Mekas. Stan Brahkage e Shirley Clarke, due maestri nelle “arti della visione”, ricevettero dalla “Creative Film” le prime sovvenzioni e così riuscirono ad infiltrare nella macchina bastarda del cinema le loro idee di sovversione del linguaggio cinematografico.
In “Meshes of the Afternoon” (1943) come in “At Land” (“A terra”, 1944), “A Study in Coreography for Camera” (“Uno studio di coreografia per macchina da presa”, 1945) o “Ritual in the trasfigured time” (“Rituale in tempo trasfigurato”, 1946)... la Deren dissocia i suoi personaggi dai lacci della storia ed esplora allucinazioni dionisiache e mitologie ludiche per opporsi e rifiutare l’inumanità di tutto quanto è esterno alla propria condizione esistenziale. Lo sguardo cinematografico della Deren è particolare. Riservato. Dissidente. I riferimenti riconosciuti, non sono solo Jean Cocteau, Georges Meliès, Luis Buñuel, Jean Vigo... ma anche (detto col coraggio un po’ spericolato e ipercritico di sfrontati libertari) John Ford, Alfred Hitchcock e sotto un certo taglio del tutto ereticale, Orson Welles... circolano con disinvoltura nella surrealtà maledetta e negli “eufemismi creativi” di questo cinema della disillusione e del rifiuto... ed è nella sfida simbolica che qualsiasi opera frana... sovente il rovesciamento di segno non è che l’apoteosi dell’opposto... l’instaurazione del simulacro... il sentimentalismo dell’originalità è la forma più degradata del reale. Il cinema della Deren riesce comunque a violare il limite del dicibile. A sovvertire il dolore degli esclusi e a richiamarsi agli abissi (psicoanalitici) del visibile come trompe l’oil di una teologia dell’angoscia che sostituisce con la bellezza, la bruttura del presente. L’epifania filmica della Deren “denuda” i materiali del conoscere e tra un segno e l’altro, un frammento di montaggio e un’inquadratura approssimativa, una passione e un sogno... rinuncia alla sua riservatezza e gioca d’azzardo con la verità. Quando sullo schermo non c’è più nulla da “leggere”, si seppelliscono gli sguardi con i cadaveri degli spettatori. “Meshes of the Afternoon” è l’epicentro di tutto il fare-cinema della Deren. È in bianco e nero, dura 15’, gli interpreti sono Maya Deren e Alexander Hammid. Nel 1947, a Cannes, gli fu assegnato il Gran Premio Internazionale, Avant-garde Section (nel 1959 la musica di Teiji Ito contribuì non poco ad una rilettura poetica dell’opera e la rese di una bellezza solitaria e malinconica che resta intatta nel tempo). «Fu questo film, con la straordinaria e irripetibile immagine del suo volto ripreso attraverso il vetro riflettente di una finestra, con la positura delle mani e lo sguardo fisso e interrogativo che richiamano la primavera del Botticelli, a fare di Maya Deren un mito e una leggenda... Un’immagine che si pone come emblema di una nuova figuratività filmica, di un modo di fare cinema, recuperando da un lato certi motivi propri dell’avanguardia europea, in particolare del cinema surrealista e soprattutto di “Le sang d’un poète” di Cocteau, dall’altro un certo stile documentario alla Flaherty, che avrebbe dato inizio a quella che fu definita la seconda avanguardia americana» (Gianni Rondolino). C’è un’udibilità dell’immagine che è sogno. E pensare i propri sogni come possibili è dare loro l’identità di un avvenimento consumato.
La traccia del soggetto è questa: una ragazza (Maya Deren) cammina verso casa. Per la strada trova un fiore di carta. Lo raccoglie. La porta di casa non si apre. La ragazza prende la chiave dalla borsetta ma gli cade in terra (scena al rallentamento). La recupera ed entra in casa. Prima di aprire la porta, una figura non molto definita, vestita di nero sfuma dietro la curva di una strada. La ragazza entra in casa. È vuota. La camera da presa descrive l’ambiente: il telefono è fuori posto, il fonografo gira silenzioso, la ragazza si addormenta su una poltrona e sogna ciò che ha appena fatto ma tutto appare più confuso e sciatto. Una donna vestita di nero si copre il viso con uno specchio e scompare dietro una curva con un fiore di carta in mano. La ragazza insegue la “donna nera” ma non riesce a raggiungerla. Rientra in casa. Va in camera da letto e trova infilzato nel cuscino il coltello (che prima era conficcato nel pane sul tavolo della cucina). Improvvisamente il coltello è impugnato da un uomo che si avvicina alla ragazza per darle un bacio. Gli oggetti della casa cambiano di posto e la ragazza entra per tre volte nella stanza. Intorno al tavolo siedono tre copie della stessa ragazza. Il suicidio simbolico della dormiente è compiuto (quando la ragazza si sveglia si suicida davvero). Il film è bello. Un po’ etereo ma bello. Le conclusioni alle quali giunge Raffaele Milani sono generose: «L’evento che originariamente era così semplice diventa via via sempre più complesso e carico di emozioni. Ciò che è immaginato diventa reale ma sia il piano del sogno che quello della verità materiale vengono assorbiti, nonostante la trasformazione dell’esperienza eventica in esperienza interiore e il fenomeno della moltiplicazione dell’io, nella coscienza critica del messaggio filmico». È quella “moltiplicazione dell’io” e del “messaggio filmico” dei quali scrive Milani (e dei quali nulla importava alla Deren)... che ci lascia perplessi... crediamo invece che il film della Deren vada ad esplorare un’universo di vetro e attraverso la trasparenza dei “corpi guardati” dissemina schegge di dolore ovunque... dove «niente è dato, tutto è da prendere, da apprendere» (Edmond Jabès). Il disinganno dell’insicurezza miete inquietudini e interrogazioni. Si cammina al margine della vita quel tanto che basta per raggiungere le sponde inevitabili della morte. La critica corrente ha versato fiumi di stupidità estetiche riguardo all’immagine della Deren alla finestra... lì e altrove hanno visto un richiamo alla pittura del Botticelli (vero niente) e solo qualcuno, come Amos Voger o Jean Mitry si è accorto che il carattere lirico o d’avanguardia astratta del film della Deren è qualcosa d’altro e cioè una sinfonia figurativa dell’immaginario liberato dalla realtà spazio-temporale dove l’allegoria dei significati distrugge ogni forma di mitologia dell’ordinario. Fuori dalla storia degli uomini, che è sempre e soltanto seduzione e dissenso, la Deren si nasconde nella cipria della storia dell’arte. Con “At Land” la Deren cerca di illuminare la realtà con un simbolismo estremo ma i risultati, rispetto al suo film d’esordio, sono piuttosto diversi. “At Land” è in b/n, muto, 16’, ed ha come interpreti Maya Deren, Hammid Heyman e John Cage. Per la Deren il film è uno studio sul movimento ed analisi del ritmo visivo che in un intreccio di metafore (non molto elaborate) avrebbe dovuto innescare negli spettatori associazioni diverse, impensate, libere, e creare così altri spazi e tempi filmici oltre che mentali. Resta un tentativo di “cinema-altro” che spezza il discorso filmico ma si legge come un’operazione stilistica alquanto gelida. Anche “Ritual in The Trasfigured Time”, muto, b/n, 16’, interpretato da Maya Deren, Rita Christiani, Frank Westbrook, Anaïs Nin, non va oltre a certe trasfigurazioni estetiche e la formalizzazione del’etica appesa ad un calendario di segni/visioni (sulla quale hanno scritto in molti) è soltanto un eserciziario di buone intenzioni. Nulla più. Tutto il cinema della Deren è venato di suggestioni poetiche, ammiccanti, sottintese che invitano ad un viaggio in forma di ricerca filmica legata a temi dell’esistenza e dell’estetica. Sono manifestazioni radicali di un’anima sensibile sempre in bilico tra sogno e realtà. Il tempo dell’immagine scompone l’eternità o ne cementa le miserie. La coscienza infelice (Hegel) diviene affermazione del negativo, simbolo di qualcosa che si sostituisce all’infigurabile e in questa derealizzazione estetica trova una trascendenza che nel momento che sovverte il codice filmico, di lato, lo erige a nuovo mito. Libertà, uguaglianza, fraternità e bellezza è la rivoluzione ancora da fare.
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