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“LA REGINA CRISTINA”
Da
“Greta Garbo” di Richard Corliss
Nel 1932, a contratto concluso con la MGM e mentre si trovava in Svezia in vacanza, la diva lesse una biografia di Salka Viertel sulla regina svedese del diciassettesimo secolo, Cristina. Greta Garbo acconsentì a tornare allo Studio a patto che le facessero interpretare la regina Cristina e che il suo partner fosse John Gilbert (invece di Franchot Tone, Nils Asther o Laurence Olivier). Per John Gilbert si trattava della prova del fuoco. Nei tre anni precedenti aveva continuato a girare film, costringendo la MGM a tenere fede al suo contratto, per dimostrare il pubblico lo accettava anche come divo del sonoro. Lo studio riteneva, e a ragione, che questi film dimostravano proprio il contrario. Ma la Garbo era certa che le nuove tecniche di registrazione potessero modulare la sua acuta tonalità di tenore; e la MGM si arrese, sperando.
Si trattava tuttavia di un ottimismo venato di sadismo. Perché Gilbert fu truccato con baffi alla Groucho Marx e una pettinatura ondulata e impomatata da gangster del Bronx. E per mettere in ridicolo anche gli ultimi brandelli della sua fama di idolo romantico, gli pose accanto, nelle vesti di rivale in amore della Garbo, Ian Keith, una specie di riflesso comico, da specchio deformante, della sua stessa immagine. Se Gilbert era il divo per eccellenza del cinema muto, Keith era il re dei cattivi del palcoscenico, il suo volto e il suo portamento erano molto simili a quelli di Gilbert, ma aveva pesanti borse sotto gli occhi, un ghigno per sorriso e una camminata dinoccolata e baldanzosa. Il ruolo di Keith era sicuramente più divertente da interpretare, e da guardare, e Gilbert venne lasciato in disparte a mormorare in falsetto delle idiozie. Il film trasformò la regina Cristina da bisessuale in una stupenda eterosessuale e fece precipitare Gilbert in una ignominiosa anonimità. Tre anni dopo era morto.
“La regina Cristina” è uno di quei film tanto amati dai critici, importanti non tanto dal punto narrativo, quanto perché gettano luce sul protagonista e sono in fondo una sorta di loro autobiografia. Il film interessa principalmente per l'implicito commento alla leggenda della Garbo. Se “Come tu mi vuoi” era un pettegolezzo fatto da dietro le quinte, “La regina Cristina” è la versione, la rappresentazione sul palcoscenico. Come la Garbo, Cristina era svedese, autoritaria e zitella («Morirò scapolo», dice Cristina); una presenza regale, circondata da consiglieri e cortigiani maschi; un'avventuriera del sesso che rinunciò alla corona e si ritirò in isolamento per non pensare a niente e rimanere sola. Il resto del film è un pastiche pieno di stile ma piuttosto inamidato, uno spettacolo teatrale storico imbottito di romanzo, commedia, politica e tragedia, il tutto ben miscelato e servito su un piatto prezioso: una ricetta per cibo buono e per film noiosi.
Anche la più famosa scena in interni del film, quella in cui la Garbo, come inebetita e in stato d'ipnosi, «memorizza», toccando tutti gli oggetti, la camera da letto in cui ha conosciuto il suo primo ed unico amore, sa di artefatto. Come ogni litania e proprio perché è una scena preparata, in interni, il rituale risulta troppo ben costruito, troppo attentamente coreografato, troppo voluto per impressionarci: in breve, troppo simile a un effetto speciale Sternberg-Dietrich. La scena colpisce, è vero, ma non commuove. Per rispondere emotivamente a questo brano cinematografico occorre un atto di volontà. Occorre autoconvincersi di apprezzarlo.
Il resto del film si muove ad un ritmo molto rapido, tanto che i nostri occhi colgono la sontuosità della produzione, ma il nostro cervello non fa a tempo a percepire la fatuità della sceneggiatura. Il regista Rouben Mamoulian cambia ritmo solamente nell'ultimo elettrizzante minuto, nella scena in cui Cristina salpa dalla Svezia con il cadavere dell'amante a bordo, e fissa il mare in cerca di... che cosa? La cinepresa compie una lenta carrellata di trenta secondi, passando dal campo lungo al primo piano del volto della Garbo, ed ecco ciò che rende unica la ripresa - si sofferma su quel volto per altri quindici secondi, quindici secondi che in tempo cinematografico equivalgono a un'eternità.
La Garbo aveva ventotto anni, proprio l'età del suo personaggio. Probabilmente all'epoca stava già meditando come ritirarsi dalle scene prima di cadere in declino. Ma nel corso di quella ripresa sappiamo con certezza che non pensava proprio a nulla. Mamoulian ha raccontato in seguito di averle raccomandato: «Desidero che il tuo volto sia come un foglio bianco di carta. Voglio che ogni spettatore ci scriva sopra qualcosa di differente. Mi piacerebbe che tu riuscissi anche a non battere le palpebre, in modo da sembrare una splendida maschera». Il risultato di queste istruzioni è un momento sublime di cinema, una somma della mistica della Garbo: perché il grande segreto della diva era di non avere segreti tranne quelli che il cinema le imponeva.