Buñuel
trae spunto da un romanzo di Joseph Kessel, per analizzare certi
aspetti del moralismo borghese e di questi le sue radicate, inqualificabili
ipocrisie, non ultima il ruolo spettante ad ogni donna: quello di
moglie fedele e devota, agli occhi del mondo, ma, nel segreto dell'alcova,
familiare o meno che sia, meretrice senz’anima e identità.
Una narrazione che mostra senza soluzione di continuità le
sue fantasie e la realtà (così da far perdere la capacità
di distinguerli), e ancora sorprende per l’audacia, per la
violenza di certe scene, pur non mostrando mai corpi nudi, amplessi
o sangue - a dimostrazione che si può colpire l’immaginazione
e la sensibilità dello spettatore anche senza farne uso.
Evidente,
ma non risolta, la tensione omoerotica che si viene a creare fra
Séverine e madame Anais, che ripropone le perverse dinamiche
emotive della protagonista la quale riesce a legarsi (darsi o negarsi
invertendo di fatto i ruoli) solo a chi esercita su di lei un potere
coercitivo da lei stessa cercato, preteso.
Rifiutato
a Cannes per “insufficienza artistica” e premiato a
Venezia con il Leone d’oro, fu il più grande successo
di cassetta del già sessantasettenne Buñuel che ne
trascurò alquanto la regia. Fotografia di Sacha Vierny.
C.
Ricci
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