"KEEP
NOT SILENT" - LESBICHE ALLA RISCOSSA!
Quasi
alla luce del sole
(Jerusalem
Post, 6 Settembre 2005)
Nel
2000, Ilil Alexander era solo una diplomata della Scuola del Cinema dell’Università
di Tel Aviv che cercava lavoro. Cinque anni dopo, eccola di fronte ad
un pubblico entusiasta alla prestigiosa Agenzia delle Arti Creative a
Beverly Hills.
Sponsorizzata
dalla Fondazione Nazionale per la Cultura Ebraica (che le ha fornito i
fondi per completare il suo primo film) insieme alla Federazione Ebraica
di Los Angeles, Alexander è in città per promuovere il suo
primo documentario - Keep not Silent ("Non restare in silenzio")
- prima di andare a San Francisco dove il film aprirà il Festival
Ebraico di San Francisco.
Completato
nel 2004, è un documentario che ha vinto un gran numero di premi
locali e internazionali, tra cui l’Oscar israeliano per il Miglior
Documentario del 2004. E, come qualunque buon lavoro, è un film
che ha fatto parlare di sé.
Keep
not Silent segue tre donne ortodosse di Gerusalemme. Quello che le rende
uniche è che tutte e tre sono lesbiche, membri di un gruppo di
sostegno chiamato ‘Ortho-Dykes’ e tutte combattono per trovare
il modo di venire a patti con la loro situazione e rimanere lo stesso
parte della comunità ortodossa ed esserne accettate.
È
un film acuto e commovente, in cui ognuna delle donne vuole confrontarsi
con la dolorosa dualità della sua situazione, non solo con la famiglia
e i rabbini, ma alla fine anche con la Alexander e, naturalmente, con
il pubblico. Quello che rende il film della Alexander così potente
è che è riuscita a guadagnarsi la fiducia delle tre donne
in un periodo di quattro anni. Si è anche conquistata la fiducia
del marito di una delle tre ed egli parla apertamente di come permette
a sua moglie di incontrare la sua amante parecchie volte alla settimana.
Da un punto di vista puramente cinematografico, la Alexander aveva un
compito molto difficile: trovare il modo di connettere le donne del documentario
con il pubblico, pur sapendo che mai poteva svelare le loro facce, per
paura della reazione che le avrebbe colpite nella loro chiusa comunità.
Ma non ha mai rinunciato. Dice che non rimpiange per un momento i quattro
anni che ci sono voluti per completare il film. «Era così
difficile da fare cinematograficamente - dice - Ma non volevo rinunciare.
Volevo continuare il film perché tratta di ebrei che nonostante
tutto rimangono nel mondo religioso». «Ci sono altre donne
in situazioni analoghe» - continua la Alexander - «che alla
fine abbandonano l’ortodossia. Ma queste sono donne che vogliono
avere un posto nel loro mondo e che lottano perché sia così».
Quali
che siano i ragionamenti di Alexander, il film ha chiaramente toccato
corde sensibili nel pubblico di tutto il mondo. Keep not Silent non solo
ha vinto il premio del Festival del Documentario DocAviv, ma anche il
premio del pubblico al Festival del Film ebraico di Berlino, il premio
della libertà al Festival del film gay e lesbico di Los Angeles,
ed è stato acclamato dalla critica in Gran Bretagna (dove è
stato candidato al premio Grierson come miglior documentario internazionale
per la televisione), a vari festival negli Usa, oltre che in Corea, Australia
e Canada, per citarne solo qualcuno.
La
Alexander dice che non è in grado di dire con precisione che cos’è
che ha decretato il successo del film, ma che potrebbe aver qualcosa a
che fare con «la quantità d’amore che è stata
messa in questo film ed il fatto che, a causa degli ostacoli che ho dovuto
affrontare, sono stata costretta ad essere cinematograficamente molto
creativa».
Alcune
delle tecniche a cui Alexander si riferisce sono l’uso di una tenda
lavorata per delineare il profilo di uno dei mariti delle donne, mostrando
solo le mani o i capelli o la schiena di un’altra donna. E una delle
donne (Miriam) è ripresa solo per mezzo di una connessione internet
sullo schermo di un computer. Solo più tardi la Alexander mi informò
che Miriam è uscita allo scoperto al Festival del film ebraico
di San Francisco. Dopo aver lavorato fianco a fianco con lei, Miriam decise
finalmente che era ora di mostrare letteralmente la sua faccia.
La Alexander dice che è stata un’esperienza molto positiva.
Anzi, lei era così preoccupata che i membri della comunità
ortodossa di Gerusalemme prendessero coscienza di chi erano queste donne
in mezzo a loro, che aveva rifiutato offerte di programmare il film su
Canale 1 o Canale 2. Fino ad oggi, solo il Canale 8 via cavo lo ha programmato
(già quattro volte: un record). Dice la Alexander: «È
improbabile che quella comunità abbia accesso a questo canale».
La
Alexander trova divertente che la gente si sorprenda nello scoprire che
lei non è né ortodossa né lesbica. Per lei, l’idea
del film nacque nel 1996 quando, dopo un attentato suicida a Gerusalemme,
il cadavere di una donna rimase sconosciuto. Si scoprì poi che
la donna apparteneva a una famiglia ortodossa di Mea Shearim che l’aveva
scomunicata dopo aver scoperto che era lesbica. Inorridita dalla storia,
la Alexander racconta di aver mandato e-mail e affisso messaggi per trovare
gente disposta a parlarle di questa donna e della sua vita. Da lì,
arrivò a mettersi in contatto con Ortho-Dykes e finalmente trovò
tre donne disposte a farsi filmare.
La
Alexander cita Avi Mugrabi e Anat Zuria come due dei registi locali che
ammira. «Apprezzo davvero i film che hanno concetti unici»
- dice - «E il mio film solleva questioni profonde e non solo sui
problemi religiosi».
Non
essendo tipo da riposarsi sugli allori, la Alexander ha almeno altri quattro
progetti in cantiere. Il suo prossimo film verte sulla violenza domestica
e l’esplorazione della terapia di gruppo, sia per l’uomo che
per la donna. Sta anche per andare in Tibet per lavorare a un film sulla
ricerca dell’erede del Dalai Lama. Prima però andrà
in Svizzera per presentare Keep not silent ad un altro Festival. Dice
che spera che il pubblico esca dalla proiezione con molte domande. «Non
mi importa delle risposte» - dice con entusiasmo - «Il mio
scopo è quello di sollevare interrogativi, perché una volta
che uno si pone le domande, si rende conto di non avere tutte le risposte».
Seguendo
le tre lesbiche ortodosse, il documentario di Ilil Alexander rivela le
due vite dolorose di una poco appariscente comunità Ortho-dyke.
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